Un’umanità più solidale
nella Macerata dei soprannomi

Nascevano e si diffondevano nelle botteghe artigiane, piacevano anche a chi li portava. Un diverso stile del vivere insieme. Solo nostalgia? Chissà.

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liuti-giancarlodi Giancarlo Liuti

Dopo le mie visionarie considerazioni, domenica scorsa, sulle Api Regine e Operaie, anche stavolta mi tengo alla larga dalle vicende politiche locali. Vicende che, nel clima di prematura ma già intossicata campagna elettorale in cui Macerata, poveraccia, si trova, mi colgono impreparato, disinformato, scavalcato dagli eventi, frainteso e annoiato, sia della politica propriamente detta che dell’antipolitica come impropriamente la si definisce, essendo anch’essa politica e nient’affatto migliore della prima. Andai a votare, sul finire del 2009, per le “primarie”del centrosinistra e, nella successiva primavera, per le elezioni del sindaco, e ci andrò anche l’anno prossimo, nella problematica ma doverosa fiducia che la persona scelta dalla maggioranza dei cittadini, chiunque essa sia e a qualunque schieramento appartenga, venga aiutata a ben governare dalla coalizione che ne dovrebbe avere la responsabilità. La qual cosa, purtroppo, non è avvenuta. Reciproche ragioni? Reciproci torti? Ci sono, ci sono. E se ne potrebbe ragionare, però con un minimo di onestà intellettuale. Ma questa, finché dura e si aggrava il malvezzo per cui le ragioni sono tutte le proprie e i torti sono tutti degli altri, è una “mission impossible”. L’unica certezza è che ci ha rimesso la città, e ben oltre le incolpevoli ferite della crisi economica.
Basta, dunque, con la politica. Ecco perché domenica scorsa ho parlato di api, oggi parlerò di soprannomi e in futuro, chissà, dei miracoli ematologici della Beata Mattia di Matelica, o dei dubbi sul terzo manoscritto dell’Infinito di Leopardi, o dell’instabilità del clima, o della rivalità fra gli storni e le rondini, o di un’altra cosa che non abbia nulla a che vedere col Pd dei “renziani”, dei “neodem”, dei “bersaniani”, dei “civatiani” e dei “vendoliani”, o con la Forza Italia di Deborah Pantana e Riccardo Sacchi, o coi misteriosi programmi dei Cinque Stelle, o con le acque increspate e infide delle liste civiche, o con le ipotesi più o meno paracalcistiche di candidature della “società civile”, erroneamente considerata più affidabile e legalitaria della vituperatissima “casta”.
Dunque i soprannomi, l’origine dei quali è spesso antica e risponde all’esigenza di distinguere meglio una persona in aggiunta al nome e al cognome. Un caso abbastanza singolare, e stavolta attuale, è ad esempio quello del comune di Chioggia, dove l’elevatissima presenza dei due cognomi più diffusi – Boscolo e Tozzi, oltre diecimila – ha fatto sì che i soprannomi figurino ufficialmente nelle carte d’identità e nelle patenti di guida. Né si dimentichi il fenomeno dei “nomi d’arte”, un’infinità nel campo della letteratura, della musica, della televisione e del calcio. E non si prescinda – anzi! – dall’invasione dei “nick names” dei frequentatori del Web e dei Social Network, fra i quali una piccola parte spetta ai “commentatori” di Cm.
Ma, per tornare a Macerata, a me interessano solo quei soprannomi che a prescindere dalle origini storiche, dalle esigenze burocratiche e dalle invasive mode del Web esprimono uno stile di vita comunitaria e associativa del quale è sacrosanto, a mio avviso, avere nostalgia e sperare che ritorni. Intendo quei “nomignoli” confidenziali, cordiali, colloquiali e quasi affettuosi che un tempo – quattro o cinque generazioni fa – davano la misura di un più schietto sentimento del vivere insieme, del conoscersi insieme, del salutarsi insieme, del parlarsi insieme, dell’aiutarsi insieme. Valori che a me paiono basilari per attribuire un’autentica sostanza umana al concetto di società e che invece, per effetto di un eccessivo individualismo o chiusura di ciascuno in se stesso, sono ahimè in decadenza, fino al punto che incontrare per strada una persona conosciuta ci costa un piccolo sforzo dirle buongiorno e farle un sorriso. Su questo tema uno stimolo giunge dall’associazione culturale delle “Casette” guidata dallo psichiatra Pierluigi Pianesi, cui si devono iniziative destinate a valorizzare le tradizioni e, nonostante tutto, la persistenza, nella zona di Borgo Cairoli, di quei legami civili. Non per la bellezza dei monumenti – chiese, palazzi – ma sicuramente per lo spirito aggregativo che da sempre lo caratterizza, Borgo Cairoli (La Pace, le Fosse e fino a Piazza Mazzini, dentro le mura) può esser considerato, per l’autenticità di quel sentimento popolare, un’immagine allargata del “centro storico” della città.
Qui, ovviamente, non c’entrano solo i soprannomi, ma anzitutto le vecchie botteghe, i vecchi laboratori artigiani, le vecchie osterie, le vecchie feste paesane, tutte realtà che in altre parti di Macerata appaiono in decadenza e invece, nelle “Casette”, riescono, sia pur faticosamente, a resistere. Luoghi, questi, in cui i soprannomi nascevano e si diffondevano anche grazie al contributo di chi li portava. E mi piace citare la malinconia con cui il poeta dialettale Giordano De Angelis ricorda la chiusura, anni fa, del laboratorio di sartoria di Umberto Zanconi, uno dei personaggi di spicco di questa idea umana di Macerata: “Ha chiuso ‘na vuttìca, urdimamente: / la vuttìca de Umberto, lu sartore. / Magari, a tandi, no’ gne pare gnènde. / A me, me s’ha portato via lu còre. / Quande serate, ‘imo passato llì! / ‘Spettiàmo, assieme, l’ora de jì’ a cena. / Chiacchieravi de tutto. Ché ccuscì, / te se passava, pure, quarghe pena. / Le serate d’inverno, pe’ scallàcce, / c’era le legne de la stufa. Embè, / ch’àgghio da dì? Ma scì, quasì a rpenzàcce, / adèra, pure, lo volesse vè”. Solo la rassegnata nostalgia di un tempo passato che non può tornare? No, anche il desiderio che questo tempo ritorni, e non è detto che sia impossibile, se tanti Premi Nobel la ritengono, oggi, l’unica via, magari in forme diverse, per uscire dalla disumanità degli egoismi individuali.
Anni fa Roberto Cherubini fece un libro – “Maceratando” – ricco di fotografie della città com’era dal primo Novecento fino alla metà del secolo e, alcune, fino ad oltre i Sessanta. Il centro storico, certo, e anche l’immediata periferia. Una straordinaria bellezza, nel primo caso, e, nel secondo, uno sviluppo urbano che non aveva rinunciato a un suo equilibrio. Un aspetto, su tutti, accomunava il centro storico e la periferia: le poche automobili, la non ancora affermata supremazia della motorizzazione, che vada ai posteri l’ardua sentenza se sia un bene o un male, un progresso o un regresso. Sta di fatto però che non a caso il libro di Cherubini si chiude proprio con un elenco di ben 182 soprannomi che lo stesso De Angelis ricorda per averne conosciuto i destinatari, parecchi ancora viventi, e averli frequentati da bambino, da ragazzo e poi da adulto, specialmente, ma non solo, nella zona delle “Casette”, delle botteghe, delle barbierie, dei bar, degli incontri di strada. Di alcuni me ne dà anche il significato: “Acitino”, da aceto, per una smorfia agra nel viso, “Cannò” per l’abitudine di spararle grosse, “Materazzò”, inserviente all’ospedale, “Nennenenne” per la lentezza nel camminare e nel parlare, “Pippò”, sempre col sigaro in bocca, “Settecervelli”, uno che si vantava di sapere tutto, “Ruppicoppi”, un muratore che lavorava sui tetti. Io fui molto amico di un soprannome: “Liofantino”, per via delle sue orecchie assai pronunciate. Chi era? Era Giovanni Spalletti, il formidabile pianista dell’Hot Club di Silvano Pietroni, quest’ultimo musicista di livello nazionale e battutista di livello mondiale. A proposito di Silvano, che non ha mai avuto un soprannome, mi viene in mente quello di “Ovo Sodo”, una persona rotondetta – so chi è, ma non lo dico – che passeggiava tenendo a guinzaglio un bassotto molto basso e moltissimo maschio, per cui una volta Silvano gli disse: “Attento al marciapiedi, che te se pole ‘ppuntà”. E con affetto ricordo “Briscoletta”, al secolo Pietro Baldoni, il bravo fotoreporter col quale negli anni Cinquanta lavorai al Carlino.
Ma basta. Ora li elenco, quei 182, li propongo ai lettori e può darsi che molti di loro se ne ricordino qualcuno. E siccome non è raro che un soprannome si trasmetta di padre in figlio, può anche darsi che continui a portarlo qualche giovane del nuovo secolo. Eccoli: Acitino, Barbascià, Lu ‘Bbeu, Brigattié, Callà, Cambanà, Canestrellu, Cannò, Carammella, Casciofrisco, Casciulì, Chechè, Chiappì, Chiavì, Ciamàuru, Ciammirò, Ciangardì, Cìara, Cìccìo, Cicìa, Cillittu, Ciocò, Ciorle, Cipollò, Cirivacco, Cismì, Cìta, Ciupì, Cococciò, Corazzié, Culò, Cutugnà, Discidèru, Dorge, Fattò, Fattoracciu, Fazu, Fetò, Ficò, Fiecca, Fischiò, Focaracciu, Framarì, Frecapopulu, Fricchisì, Fruscì, Gajnella, Gnèccola, Gordò, Lu Grassu, Lu Graziusu, Jacchecò, Lambadìna, Lupu Siccu, Maccagòn, Magnacrature, Ma’ Ghiaccia, Magnì, Mappò, Materazzò, Mattiacciu, Mattò, Mazzallossu, Mbruja, Merdasecca, Lu Mergu, Mezzanellu, Lu Micciu, Mio Mao, Lu Mischiu, Mistrà, Moccolò, Mondòru, Mucèra, Muccichittu, Mucìo, Murusì, Musone, Nennenenne, Nerone, ‘Npippe, Nocèlla, Lu Pacchià, Lu Pacchiarò, Lu Pacchiu, Paccò, Paciotta, Pallì, Panzè, Panzì, Papaò, Paperetta, Lu Parfeu, Pascurò, Lu Pataccu, Patatò, Le Pauline, Peciò, Pedalò, Pelaviocca, Peparìna, Pepétto, Picacchiò, Picculì, Pimbinella, Pindurella, Pippinè, Pippò, Pitturusciu, Pizzicà, Pocciafò, Le Prete, Pumbusì, Purgì, Lu Pustijò, Quattropiatti, Racasciò, Lu Ragionié, Ramacciò, Rapanì, Ravanella, Rijinè, Rosciolu, Ruppicoppi, Salè, La Sargìna, Saroccu, Lu Sbaì, Lu Sbozzu, Scarpetta, Scatizza, Sciangai, Lu Sciriffu, Scornò, Lu Schiccu, Scurpicciu, Seccà, Sellerò, Settecervelli, Lu Siccu, Sorce, Sottanò,Lu Spappò, Spumoso, Stingu, Sussurò, Tajulì, Tarandella, Tattattèro, Tavarè, Tavòsciu, Testasecca, Timbirina, Tirò, Lu Tizzu, Lu Toru, Tramannò, Lu Vaffu, Varichìna,Vasillìna, Vattilosse, Vattipìcciu, Vazzè, Lu Vergà, Vermenò, Lu Vescu, Villuccì, Vindurpì, Vinne, Virillu, Viscuvina, Vistecca, Li Vovò, Lu Vrau, Vriscoletta, Lu Vufacchiu, Vutticillu, Zicchinetta, Ziganè, Zolò.

Singolare che nessuno di questi soprannomi si riferisse a una donna, ma anche questo era un segno dei tempi, quando l’idea delle “quote rosa” era di là da venire e all’altra metà del cielo spettava una dimensione esistenziale diciamo casalinga, che sapeva di subordinazione ma anche di rispetto.
I soprannomi, adesso, non vanno più di moda. Perché inventarli? Non è forse una inutile perdita di tempo? Fretta, sbrigarsi, quel mito della rapidità che in qualche modo si riallaccia al mito dell’automobile. Tommaso? No, Tommy. Valentino? No, Vale. Federico? No, Fede. Ferdinando? No, Ferdy. E così via. Sarò un irrecuperabile “laudator temporis acti”, ma a me piacerebbe che un qualsiasi Tommaso fosse chiamato “Lu Pacchiu”, come il padre, o il nonno, o il bisnonno. Vorrebbe dire che il futuro è fatto anche di passato e che dimenticare il passato significa annebbiare il futuro.

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