La notte del 9 ottobre 1963 una frana di oltre duecento milioni di metri cubi di roccia si staccò da un monte e alla velocità di cento chilometri orari si abbatté sul lago artificiale di una diga facendone balzar fuori cinquanta milioni di metri cubi d’acqua che si schiantarono sulla sottostante vallata distruggendo interi paesi e uccidendo duemila persone. Fu la strage del Vajont, nel ricordo della quale il Presidente del Senato, Pietro Grasso, si è recato a Longarone, il centro più colpito, a presentare, per la prima volta, cinquant’anni dopo, le scuse ufficiali dell’Italia – l’Italia delle istituzioni, della politica, della società civile – per una catastrofe che una lunga serie di sintomi lasciava prevedere come imminente ma non venne evitata a causa del prevalere di colossali interessi legati alla produzione e alla commercializzazione dell’energia elettrica..
In questi giorni il massacro del Vajont ha avuto grande spazio in tutti gli organi d’informazione e in una quantità di programmi televisivi, con interviste agli ormai anziani sopravvissuti e agli ormai anziani soccorritori, dibattiti sull’ignavia e le complicità del cosiddetto “regime democristiano” di allora, sulle colpe della Prima Repubblica non senza allusioni alla giovanile militanza nella Dc dell’attuale premier Enrico Letta e dell’attuale vicepremier Angiolino Alfano, che nel 1963 non erano ancora nati. Inevitabile, giacché in vasti settori di destra e di sinistra la parola “democristiano” è diventata un insulto, come se la situazione odierna – e lo dice uno che non ha mai votato Dc – sia davvero migliore di quella. Ma lasciamo perdere, così va il mondo.
Mi preme, semmai, un’altra cosa. Ed è che in questo gran fiume di memorie, ricostruzioni, rimorsi, rimpianti e polemiche di parte, i media si son dimenticati di porre in risalto, fra i tantissimi che sono stati citati, il nome di un protagonista tra i più importanti di quella vicenda, un piccolo David che da solo si batté contro l’enorme Golia dei poteri forti dell’economia, della finanza e della politica. E da solo resistette a pressioni, minacce, ricatti, blandizie. E alla fine, dopo otto anni e tre gradi di giudizio, quel suo impavido lavoro istruttorio, portato avanti con l’ausilio di perizie geologiche, idrauliche e ingegneristiche da lui non a caso affidate ad esperti stranieri, sfociò nella condanna – esemplare, benché meno severa di quanto avrebbe potuto essere – dei responsabili diretti e indiretti di quella mostruosità.
Sto parlando di un magistrato che appena trentenne divenne giudice istruttore al tribunale di Belluno e di colpo, un mese dopo aver preso servizio in quella città, si trovò al cospetto di un così colossale disastro. Da studenti eravamo amici, discutevamo di tutto, giustizia, sport, cinema, feste, ragazze. E ne conobbi l’intransigenza intellettuale e morale, quasi ai limiti dell’inesorabilità: due più due doveva far quattro, sempre, non c’erano scappatoie, non c’erano compromessi, non c’erano mezze misure. Le sue idee politiche? Nient’affatto democristiane, sebbene non da militante. Ma quando entrò in magistratura le mise da parte. “Vedi”, mi disse una volta, “la legge è come il primo comandamento, io sono il signore dio tuo e non avrai altro dio all’infuori di me”. Amava la caccia, ricordo, e giocava a hockey su prato. Verso la metà degli anni Cinquanta ci perdemmo di vista, io principiante nella cronaca locale del Carlino, lui uditore giudiziario, poi pretore a Rovigo, poi istruttore a Belluno, poi la tragica notte del Vajont, poi i primi passi dell’inchiesta, poi i primi ostacoli lungo quella impervia strada da percorrere nei panni di un David contro lo strapotere di un Golia alla cui difesa intervennero i più famosi penalisti italiani, fra i quali Giovanni Leone che successivamente sarebbe diventato Capo dello Stato. Una battaglia persa in partenza, pensai. E mi sbagliai, sottovalutando la sua straordinaria tenacia. Nel bene e nel male, del resto, quei tempi erano diversi dai tempi di adesso. La grande stampa – Montanelli, Bocca – non gli era favorevole, sosteneva la tesi della calamità naturale. Ma nessuno lo aggredì definendolo “bandito di Stato”, “cancro della società” e “malato di mente”, come invece è accaduto ai giudici di taluni processi attuali. E non essendoci “leggi ad personam”, non scattava la prescrizione. E contro le condanne non c’erano tumultuose manifestazioni di piazza. Ma, ripeto, lasciamo perdere. Così va il mondo.
Torno al nome, che in questi giorni è rimasto fuori – o è stato appena accennato – dal fiume di memorie, ricostruzioni, rimorsi, rimpianti, dibattiti. Ingiustamente, perché senza di lui l’ecatombe del Vajont non sarebbe mai approdata alla verità. E allora, oggi che dopo mezzo secolo l’Italia intera riflette su quella strage degli innocenti, tento di rimediare, nel mio piccolo, a questa ingiustizia. E sulla scia del premio per alti meriti civili che due anni fa gli venne assegnato nell’auditorium “San Paolo” dall’associazione culturale “Il Glomere”, questo nome voglio ripeterlo chiaro e forte: Mario Fabbri, nato a Macerata, laureato a Macerata, giudice a Belluno, cittadino onorario di Longarone, inflessibile e decisivo protagonista dell’inchiesta sul Vajont.
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Bellissimo e anche commovente articolo. Centrale il “passaggio” del “nostro” Magistrato avversato dai poteri forti. Eppure coraggioso, testardo, persino contro la stampa “allineata”. Esempio, direi piuttosto raro.
Che bello sapere e conoscere che ogni tanto c’è un giudice vero che cerca e scopre la verità oggettiva dei fatti senza tener conto di pressioni esterne. Vorrei conoscerlo questo giudice e inchinarmi alla sua onestà intellettuale.
Grazie Dott. Liuti.
Marco Paolini fece un’orazione civile per raccontare come si costruisce un disastro. Sarebbe interessante che l’intera vicenda giudiziaria, che vide il Giudice Fabbri protagonista contro questi “poteri forti”, venisse resa pubblica parimenti come teatro-inchiesta; penso allo stesso Paolini, a Felicetti con la vicenda di Enrico Mattei…
Una poesia che Mario Fabbri ha dedicato al padre e che può completare la descrizione di questo “grande uomo”.
Al padre
… e quella ruga, o padre,
che ti segnava la fronte quando,
pellegrino cencioso, scendesti
dal camion americano,
cingendo in unico abbraccio
la madre e noi piccoli,
cercando con gli occhi gli altri.
Quella ruga, o padre,
diceva la fame e i patimenti
del lager,
diceva la coerenza
nel dir no, fino all’ultimo,
alla follia fascista;
diceva la forza virile
che ti restava nel sentire
dilaniate le viscere,
senza un urlo,
per la fine che la rabbia
tedesca aveva dato,
contro un muro,
al primo dei tuoi figli.
Quella ruga, o padre,
è la nostra comune eredità.
In quel solco, questa donna e io,
abbiamo coltivato il seme
della vita, perché anch’essi,
i miei figli, sappiano
le loro forti radici.
Su quella ruga fredda,
o padre, che la morte
ha solo attenuato,
per me, per essi,
per il fratello ucciso,
all’atto del distacco
volli deporre un bacio
e una promessa:
seguitare a resistere.
In ogni vergogna collettiva si può sempre trovare, a livello di individui, qualche magra consolazione.