Il fantasma di Carlo Magno
è come un principe azzurro

La storia romanzata, Aquisgrana a San Claudio, una lapide ingannevole, l’amore per la nostra terra

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Don Carnevale durante l'inaugurazione della lapide

Don Carnevale durante l’inaugurazione della lapide

liuti-giancarlodi Giancarlo Liuti

 Nell’Abbazia di San Claudio è stata posta una lapide che, tradotta dal latino, afferma: “Qui sotto è situato il corpo di Carlo Magno Imperatore morto nell’anno 814”. Il tono perentorio – lapidario, appunto – non ammette dubbi: altro che la tedesca Aquisgrana di Aachen, ai confini col Belgio e l’Olanda, dove da dodici secoli la storia colloca con certezza la sua residenza, il luogo della sua morte e quello della sua sepoltura! Non Aquisgrana, dunque, ma San Claudio! O meglio: Aquisgrana era San Claudio! E lì Carlo Magno edificò la sua reggia! Purtroppo, nel 1.166, l’Imperatore Federico Barbarossa fu colto da un soprassalto di ultranazionalismo germanico e non tollerando che le vestigie dei Carolingi stessero dalle parti di Corridonia arraffò quanto ne restava (non il corpo, che per nostra fortuna non gli riuscì di trovare, e ne prese uno qualsiasi e lo chiamò Carlo Magno) e trasferì tutto nella città di Aachen facendola diventare una falsa Aquisgrana. Questa è, grosso modo, la tesi che con dovizia di libri sostiene da oltre vent’anni don Giovanni Carnevale, già stimatissimo docente ai Salesiani di Macerata e appassionato indagatore delle nostre vicende di 1.200 anni fa.

 

Carlo Magno, incoronato la notte di natale dell'800 da papa Leone III

Carlo Magno, incoronato la notte di natale dell’800 da papa Leone III

Un lavoro molto complesso, il suo, con mille intrecci, mille situazioni e mille rimandi, che a descriverlo tutto farei venire l’emicrania ai lettori. Fra l’altro c’è di mezzo pure Pipino il Breve, padre di Carlo Magno e pure lui Re dei Franchi, che secondo Carnevale e altri storici locali stabilì la sua residenza nella magnifica Collegiata di Sanginesio dove morì e fu sepolto, sovvertendo anche in tal caso dodici secoli di storia, che invece l’hanno dato per morto e sepolto a Saint Denis, presso Parigi (ma Denis è Dionigi non Ginesio, e San Dionigi non è San Ginesio: beh, non importa, si procede lo stesso). A proposito di toponomastica storica, del resto, da un’idea di don Carnevale ho appreso che perfino Torino, così definita per gli originari popoli celto-liguri detti “taurini”, non era Torino ma Pieve Torina! Ai posteri, ora, l’ardua sentenza? D’accordo, se non fosse che di posteri, dall’anno 814, ce ne sono stati un’infinità e a nessuno era mai venuto in testa di affermare che Aquisgrana è San Claudio.

 

Intendiamoci, io non sono all’altezza di poter contestare le tesi del professor Carnevale, che poggiano su argomenti meritevoli, come minimo, di rispettosa curiosità. Ma in base a ciò che ho appreso da vecchie lezioni scolastiche e da meno vecchie letture oso chiedermi per quali capricci del fato Pipino il Breve e ancor più Carlo Magno, due fondamentali protagonisti del Medio Evo europeo, avrebbero scelto di trasferirsi stabilmente nelle nostre terre abbandonando quelle che gli erano naturali per nascita, consuetudini, prerogative sovrane, situazioni geopolitiche e gravosi impegni di guerra. Forse per ragioni climatiche, nella speranza che loro ipotetici dolori reumatici ottenessero sollievo dalle più miti meteorologie mediterranee? No, giacché Aachen andava anche allora famosa per certe taumaturgiche e antireumatiche acque termali, tanto che ben prima dell’era cristiana le legioni romane la chiamarono “Aquae Granni” – più o meno Aquisgrana – in omaggio a Grannus, il dio celtico della salute. E allora?

 

Qui mi fermo, limitandomi semmai a ricordare la macroscopica gaffe che feci dieci anni fa in occasione del matrimonio del figlio di un mio caro amico celebrato proprio a San Claudio. Eravamo in parecchi, di fronte alla chiesa, in attesa degli sposi dopo la cerimonia, e stavamo ammirando la straordinaria bellezza di quella facciata turrita. Bene. Accanto a me c’era un signore vestito di scuro al quale dissi: “Un pazzerello sostiene che questa era la reggia di Carlo Magno”. E lui, sorridendo: “Quel pazzerello sono io, Giovanni Carnevale, e le consiglio di documentarsi un po’ meglio”. Rimasi di sasso, mi scusai e mogio mogio andai a nascondermi nel gruppo, impressionato però da quel cortese e disarmante candore che somigliava a una fede.

 

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Il convegno dei giorni scorsi a San Claudio

Ora l’argomento è tornato alla ribalta della cronaca grazie all’ultimo libro di Carnevale intitolato “Il ritrovamento della tomba e del corpo di Carlo Magno a San Claudio” e presentato in un convegno svoltosi presso l’Abbazia (leggi l’articolo) nel corso del quale sono state elencate le prove che ad avvalorare la sensazionale scoperta e quindi la lapide sarebbero venute da uno strumento scientifico – il georadar – capace di individuare ciò che si nasconde nel sottosuolo. Ebbene, nella relazione finale dei geologi Massimiliano Mazzocca e Maurizio Ercoli si legge testualmente che all’altezza dei gradini di San Claudio sono stati intravisti “elementi architettonici che possono far pensare a una struttura muraria preesistente o a un cunicolo”, ma si allude alla “possibilità di falsi sia positivi che negativi” e si conclude suggerendo nuove “indagini con video ispezioni, saggi e carotaggi”. Cioè, in sostanza, piccoli scavi, che tuttavia lo stesso Carnevale escluderebbe in quanto fattibili solo se autorizzati dalla Soprintendenza regionale ai Beni storici. Niente, insomma, che in forza di quelle vaghe e spettrali forme di muri possa testimoniare “Il ritrovamento della tomba e del corpo di Carlo Magno”. Perché, allora, quella lapide che rischia di trarre in inganno i visitatori dell’Abbazia? Le lapidi apposte in edifici pubblici non dovrebbero fondarsi su incontestabili elementi di fatto? Mi arrendo, non so che dire.

 

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Don Giovanni Carnevale

Eppure, sembrerà un paradosso, non me la sento di dissociarmi dall’entusiasmo col quale don Carnevale porta avanti la sua missione culturale o paraculturale, una missione che è anche civile e sociale. Oltre a Pietro Marcolini, assessore regionale alla cultura, che ha dato a quel convegno un ufficiale e magari opinabile patrocinio istituzionale, erano presenti più di duecento persone –non docenti universitari ma gente comune, alla quale appartengo – che hanno seguito le parole di don Carnevale come si segue la sognante verità di una fiaba e ne hanno tratto una ulteriore ragione per amare l’Abbazia di San Claudio considerandola parte della loro vita, traendone motivi di orgoglio patrio e convincendosi che sia sacrosanto proteggerla dalle minacce del cosiddetto progresso (non si dimentichi che la lottizzazione “Valleverde” è giunta, pericolosamente, a poca distanza).

 

Gli argomenti di don Carnevale sono assai discutibili ma se non esiste la prova che siano giusti – e ritengo che lui sia il primo a saperlo – non esiste neanche la prova che siano tutti (proprio tutti, dal primo all’ultimo) di pura fantasia. Anche la storia romanzata, al limite, è storia. Si pensi alle tante ipotesi sul Graal contenente il sangue di Cristo, sui Templari, sulla Tavola Rotonda di Re Artù, su Robin Hood. E “Il nome della rosa” di Umberto Eco non è forse un “trattato” di storia romanzata? Non a caso Leopardi diceva che senza il potere dell’immaginazione il mondo degli umani diventerebbe un deserto. E immaginare che le corti di Pipino il Breve e di Carlo Magno – grandi sovrani della notte dei tempi che Carnevale ha trasformato in principi azzurri delle nostre emozioni – abbiano avuto sede nelle valli e nelle colline maceratesi ci fa avere il sollievo che, almeno 1.200 anni fa, eravamo prediletti dal destino.

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