Non so in voi, ma l’addio dell’estate suscita in me pensieri di malinconia su un argomento che di lieto ha davvero pochissimo: la morte. Magari inconsapevolmente, diceva Leopardi, ma questo presagio ce l’abbiamo dentro tutti fin da quando cominciamo a chiederci qualcosa sul destino. E beati gli animali, diceva ancora, che ignorando lo scorrere del tempo hanno il privilegio di non pensarci mai, alla morte, e non calcolano le età, e non celebrano i compleanni. Ma basta. Ciò che m’interessa, stavolta, è il modo con cui i giornali, tutti, danno notizia della morte di qualcuno – non, necessariamente, di qualcuno molto noto o che rivesta importanti incarichi nella società – e infine dei suoi funerali.
In passato non era così. In sintonia coi costumi di allora e per addolcire quel po’ di cinismo che caratterizza questo mestiere, in noi giornalisti c’era, sulla morte, un minimo di pietoso pudore, di commosso riserbo, di attonito e sgomento rispetto. Se ne dava notizia, certo. Ma senza spingersi al di là della cronaca nuda e cruda, senza entrare nella sfera segreta e privatissima dell’amarezza che affligge i congiunti e gli amici di chi li ha lasciati per sempre. Patetica nostalgia di un certo modo di fare informazione? Può darsi, e non nego che il mio giudizio, ora, appartenga a una visione del mondo ancorata a vecchie chiusure, vecchi tabù, vecchi stili di vita. Ricordate il silenzio dei lenti cortei verso il camposanto e, sui marciapiedi, le donne che si facevano il segno della croce e gli uomini che si toglievano il cappello? Il mondo, me ne rendo conto, è cambiato, la qual cosa non significa che sia cambiato in peggio. Tuttavia non riesco a liberarmi dalla perplessità che mi coglie quando vedo, ascolto e leggo cos’è oggi diventata la morte.
Forse c’entrano tante cause e tanti effetti. La televisione, certo, che per sua natura è teatralità, amplificazione, esaltazione dell’attimo, implacabile denudamento, contaminazione dei linguaggi fra telegiornali, fiction e talk show (penso alla domanda “cosa prova?” che i cronisti del piccolo schermo rivolgono alle madri o alle spose davanti al cadavere, ancora caldo, sulla strada, di figli o mariti). Ma anche, a monte, lo smemorato edonismo conseguente al benessere economico e i progressi della scienza che inducono noi occidentali a immaginarci di poterla negare, la morte e, siccome la morte non può essere negata, a trasformarla, da inesorabile qual è, in qualcosa di cui sia possibile attribuire la colpa a qualcuno (sempre più numerose sono le denunce per ipotetici errori dei medici) o, addirittura, in qualcosa di festevole, come accade, ad esempio, per lo scrosciare degli applausi all’apparire della bara, nel sagrato delle chiese, dopo la funzione funebre. Non nego, intendiamoci, che questa sia una sincera e spontanea manifestazione di affetto per il defunto e che gli occhi di chi batte le mani siano lucidi per un autentico cordoglio. Tuttavia l’applauso è pur sempre un esibito e corale segno di approvazione. Che cosa, dunque, applaudire? Non certo l’arrivo di lei, la ferale madama con la falce. E allora? Chissà, forse si applaude la nostra rasserenante ma vana dimenticanza degli agguati della fatalità.
Vengo al punto: i giornali. Mai come da qualche anno la spettacolarizzazione della morte sta trovando ospitalità e incitamento nell’informazione televisiva, cartacea e on line. Incidenti stradali, infortuni, malattie vanno sempre in prima pagina, e con grossi titoli, e con nomi, cognomi, indirizzi, elenchi dei familiari, e con ipotesi sulle cause e sulle colpe, e con dettagliatissime descrizioni dei funerali, e con frequenti e insistiti proclami di lutti cittadini. La morte, insomma, è diventata protagonista, vivissima, dell’audience e della diffusione in edicola e nel web. Ripeto: non pretendo di convincere i miei lettori che ciò sia un male, anche perché, forse, non lo è. Ma, ripeto ancora, sono scomparsi quel pietoso pudore, quel commosso riserbo e quell’attonito e sgomento rispetto che in qualche modo, una volta, intenerivano il lavoro di noi giornalisti.
Almeno una cosa, però, vorrei denunciarla come spregevole senza se e senza ma. E riguarda i suicidi. Se c’è un solo caso in cui la morte non dico meriti ma esiga il massimo di silenzio, esso riguarda le motivazioni di chi decide di farla finita con la propria esistenza. Nessuno può saperle, forse neanche lui, nel buio che gli si è spalancato dentro. Metterle in piazza, accendervi i riflettori della curiosità popolare, indagarle, avanzare ipotesi e piegarle perfino a speculazioni politiche a me pare la profanazione più grave che possa compiersi nei confronti dell’anima, dell’animo, della coscienza e delle memorie di colui che con quel gesto ha voluto chiedere a se stesso e a noi un assoluto, definitivo, quasi sacro silenzio. E la notizia? Quella sì, poche righe, forse le sigle. Ma nient’altro. E apprezzo molto la scelta Matteo Zallocco, direttore di Cm, che per i suicidi ha deciso di comportarsi con sensibile sobrietà. Purtroppo, però, l’andazzo non è questo. Vi sono organi di stampa per i quali un suicidio è come un’appetibile ciliegina sulla torta della cronaca quotidiana, e giù titoloni, giù intere pagine, giù dettagli, giù indiscrezioni, giù fotografie, giù locandine. Non mi piace indossare la toga dell’accusatore, fra l’altro non ne sono capace. Stavolta, però, ho sentito il dovere di farlo. Ma la vita continua, lo so. Lasciatemi allora concludere con un paio di citazioni dalle quali traspare, sulla morte, una gentilezza ironica e affettuosa. La prima è un verso sul 2 di novembre del grande poeta dialettale milanese Delio Tessa: “L’è el dì dei mort, alègher!”. La seconda è una scritta che comparve sul muro del cimitero di Poggioreale dopo l’entusiasmante festa della città, nell’estate del 1987, per il primo scudetto del Napoli: “Guaglio’, che vi siete persi!”.
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Dott – Liuti
abbiamo solamente esaurito il rispetto inteso in senso lato -.
Nessuno ha piu rispetto per nessuno e purtroppo ahimè in questo sentimento e atteggiamento essenziale ma oramai esaurito in quasi tutti noi – non poteva mancare
quello che riguarda il senso del suo articolo ..
Certo lo stato d animo di – fortunatamente ancora parecchi di noi – non può non essere turbato quando si vedono immagini raccontate dai giornali o dalle Tv che mostrano persone morte in spiaggia
le quali vengono coperte con un ombrellone mentre tutti gli altri seguitano tranquillamente a fare il bagno e a giocare a tamburello a tre metri dal povero disgraziato –
Certo lo stato d animo delle persone
rispettose – non può non essere urtato da chi va ai funerali e magari
utilizza gli stessi non perche’ ha esigenza interiore di portare condoglianza e vicinanza vera ai familiari afflitti – ma bensì per
rimanere fuori dal sagrato a parlare di cose che nulla hanno a che vedere con quel momento tragico che avrebbe bisogno di ben altra presenza – che non il solo
odioso anche per me applauso .
Concludendo – brutto momento la morte – sia quando ci siamo noi e non lei e sia quando c’è lei e noi non piu ..
Grazie per questo articolo, Dott. Liuti; c’era bisogno, c’è bisogno di una riflessione sincera e profonda, indignata e severa su un tema esistenziale così radicale. Ha colmato un pò di quel silenzio che ci lascia sempre soli ed un pò interdetti davanti alla commercializzazione della vita ed al predominio disetico globale delle televisioni. Commerciali.
Tutte. (O quasi)
Io non mi sono scioccata in mezzo alle bancarella a parte una di cui sono assidua cliente da anni… ma volete mettere il piacere di fare 5 passi e incontrare qualcuno che conosci e che non vedi da un po??
Con il lavoro e gli impegni non si riesce più nemmeno a socializzare col dirimpettaio per cui direi che la cosa più bella di questo tipo di feste è proprio incontrarsi con tanta gente e fare due chiacchiere con gioia.
Liana Paciaroni
Complimenti dr. Liuti ! Una stupenda voce fuori dal coro e dalla disgustosa moda dell’applauso che non so cfhi l’abbia inventata. Grazie per il garbato rispetto con cui ci ha riportato a uno stile di consapevole rispetto per la morte, per i sentimenti veri che essa suscita e per la pietas doverosa nei confronti di chi la morte la vive e la sente sulla propria pelle.
ricordo quando, da piccola, c’era un lutto nella casa di un vicino e non si accendeva la tv per rispetto.
Ho ripensato al lento accompagnare mio padre al cimitero di Macerata. Senza applausi.
Si era nell’Ottobre 1964.
Ripenso al suo canto. Che non dovrebbe morire.
Avevo scritto a Cronache Maceratesi di un importante recente concerto ad Amburgo con musica del compositore Lino Liviabella. Maceratese.
Con cordialità
Lucio Liviabella
Una volta ero stato invitato a un liceo classico di un’altra città, dove mi era stato chiesto di parlare di poesia a tutti i ragazzi della scuola. Per un fiuto innato che ho, quando mi trovo davanti a un uditorio e non è semplice catturare l’attenzione, ho intavolato il discorso partendo dalla morte e dicendo “Cari ragazzi, non fatevi fregare la morte!”, perché questo che viviamo è un tempo che edulcora la morte come può, fingendo che non esista o che sia solamente uno spettacolo (cioè un effetto cinematografico). La speculazione sulla morte (la speculazione retriva, gossipara, crudele e cinica) serve – ritengo – ad alienare (per eccesso di visibilità) gli spettatori del macacbro scenario. Depotenziare la potenza del Lazzarillo de Tormes con la creazione di un’infinità di cloni inoffensivi.
Ovviamente la morte non è mai inoffensiva (proprio come la vita). Depotenziarne la carica esplosiva può agevolare il grande mercato globale nel ritenere anche la vita una cosa qualunque. “Non fatevi fregare la morte”, allora, significava “Non fatevi fregare la vita”. I ragazzi capirono perfettamente (i professori meno…).
Dottore credo che come tutto il resto delle cose e tutta finzione la gente troppo influenza dalla tv e film e sopra tutto chi deve fare il lavoro pulito e mi riferisco alla stampa e media non lo fanno. E cosi per attirare pubblico usano cose che traggono o meglio sono in armonia con il resto delle cose, tutto fa spettacolo chi muore chi uccide chi sta sotto terra per protesta, e quando questo non ci basterà più cosa si cercherà?. Perché ci meravigliamo non stiamo forse vivendo i film degli anni 80 americani che ci facevano vedere? Famiglie separate, violenza, droga, alcol questo e quello che ci hanno preparato a fare. Certo il discorso sarebbe lungo e sicuramente impopolare on attirerebbe nessun utente o per lo meno pochissimi. La realtà delle cose la facciamo noi se non siamo capaci di essere più come prima e perché ci stanno insegnando diversamente e nessuno fa nulla per cambiare le cose. E alla fine avremo bisogno di overdosi, ma già siamo morti dentro. La cosa che mi dispiace di più e che tutto il buon senso rimane solo nei ricordi e tra un po’ non farà più parte neanche di questo. Questi articoli sono importanti risvegliano i sentimenti ma è anche importante coltivarli. Perché dalle risposte molti cercano ancora il bello e il buono della vita, ma non nascendo per caso è importante usarli nella vita. Perché lo dico perché tutti parliamo bene ma poi nell’agire facciamo tutti le stesse cose,, siamo vivi fuori ma morti dentro!
Ho letto con interesse l’articolo di Giancarlo Liuti; sono d’accordo con quanto scrive. I sentimenti che si provano quando muore qualcuno, a noi vicino o grande personalità, sono sempre personali e vanno vissuti con discrezione; sono occasione anche riflessione sul mistero della morte, momenti che il clamore mediatico disturba.
Dott. Liuti, grazie per la sua “lezione”, dopo averla letta appare persino ovvia. Voci fuori dal coro e dalla banalità sono sempre più rare. Abbiamo veramente molto da imparare da Lei. Ancora grazie.
Caro Giancarlo, concordo con quasi tutto quello che hai scritto. Sebbene siamo tutti quanti nati per morire, e sebbene la morte (intesa come passaggio ad un’altra vita) dovrebbe essere in cima alle nostre preoccupazioni se non altro per guidarci nella vita di tutti di giorni, ma anche per portarci a ragionare sulle domande “ultime” (chi siamo, da dove veniamo, cosa ci stiamo a fare in questo breve viaggio terreno, dove finiremo), oggi la preccupazione generale è quella di ignorare la morte sin che si può, di edulcorarla, di dimenticarla prima possibile, di banalizzarla.
Di questa banalizzazione, nel senso di spettacolarizzazione, fanno indubbiamente parte quei resoconti giornalistici dei quali tu hai parlato. La morte in questi casi viene vista come notizia, più o meno “spettacolare”, e non come l’evento centrale della vita di quella persona che è entrata in un’altra dimensione, sconosciuta e piena di mistero, e quindi meritevole del massimo rispetto.
Sai su cosa non concordo con quanto hai scritto? Sull’applauso, che tu critiche e che invece, secondo me, in qualche funerale sgorga del tuto spontaneo e con intenti e finalità a mio avviso non censurabili, come ricordo ed apprezzamento della persona che se ne è andata e come partecipazione e condivisione del dolore dei congiunti. Ti faccio un paio di esempi. Vedo proprio qui accanto un ritratto stilizzato del mio amico di infanzia Giorgio Marangoni, sopra la scritta “Energia creativa” in un inserto pubblicitario dell’Accademia delle Belle Arti. Beh, ai suoi funerali vi fu un lungo, caloroso, spontaneo e sincero applauso, che a me non è affatto suonato come non rispettoso della situazione e dello stesso evento “morte”.
Così come, ai funerali di mio figlio, tre anni fa, il lungo applauso che ad un certo punto esplose in chiesa portò a me un momento di sollievo e al tempo stesso di gratitudine verso le persone che erano venute a portare l’ultimo saluto a Nicola e un po’ di condivisione del nostro dolore.
Viviamo in una società giovanilista e analgesica, che cerca di nascondere la malattia e la vecchiaia in tutti i modi, il cui obiettivo finale è sconfiggere la morte, e il mezzo scelto è nasconderla, avvolgendola in un assordante silenzio o in irritanti metafore. Come nel linguaggio di quegli stessi giornali che sbattono il mostro in prima pagina, ma poi si muore sempre dopo lunga malattia, mai di cancro, e il tale non è morto, ma è mancato, si è spento…
Come se della morte non dovessimo parlare: non esplicitamente, meno che mai con il morente, ancora meno con i bambini. Non a caso per i più la morte non fa parte della vita, in maniera naturale, ma è vissuta come qualcosa di alieno: che non si capisce, e che ci lascia interdetti, senza parole, tanto è vero che, di fronte a una persona che muore, anche anziana, se non chiediamo propriamente “chi l’ha uccisa?”, ci chiediamo comunque “di cosa è morta?”, che è quasi la stessa cosa. Come se la morte fosse un giallo in cui bisogna trovare il colpevole, anziché la fine naturale di una storia (d’amore, spesso).
Una società vitalista e giovanilista non inciampa volentieri nei suoi morti, come del resto nei suoi vecchi. La morte, e con essa tutto ciò che può ricordarla (la vecchiaia, la malattia, il dolore) viene sempre più nascosta. Si muore sempre meno a casa, e sempre più spesso in ospedale. Il funerale lo si fa in chiesa; sparisce anche il corteo funebre nel quartiere, e si vedono sempre meno simboli esteriori (addobbi, paramenti). C’è un’eccezione: la morte dei vip, delle persone conosciute, che diventa essa stessa notizia, e rito collettivo.
La morte viene rimossa, insomma.
Ma l’altra faccia della rimozione è la sua spettacolarizzazione, e la sua banalizzazione.
Attraverso la morte seriale, da un lato: i nostri figli vedono ogni anno migliaia di cadaveri – nei videogiochi, nei cartoni, nei film – per lo più morti per una causa non naturale. E poi c’è il successo del genere horror, la necrofilia di tanto rock, fumetti e culture underground, fino alla diffusione dei teschi e degli scheletri anche nei giochi e nel vestiario per bambini (mio figlio di sei anni li porta orgogliosamente…). Abbiamo la sensazione che sia una risposta diretta a un bisogno di informazione, di esplicitazione, di consapevolezza, che viene negato dal discorso ufficiale della società, e cercato, e trovato, altrove. L’altra risposta sta nella spettacolarizzazione della morte reale. Ma casi celebri di suicidi o esecuzioni in diretta ci ricordano che questi sono eventi mediatici assai seguiti.
E’ la morte “vera”, che passa però ancora dagli schermi televisivi, anziché dall’esperienza diretta: che in occasione di una carestia o di una strage terroristica fa irruzione nelle nostre case attraverso i Tg della sera, all’ora di cena. Ma che è oggetto privilegiato di interi programmi basati in buona parte su un voyeurismo che ha nella morte il suo centro.
Forse la risposta vera a tutto questo sta nel rendere di nuovo normale, quotidiana, la morte vera, di chi ci è vicino, e preparare la nostra, senza pudori, pensandola e parlandone anziché fuggendola.
Perché la qualità della vita si misura anche dalla qualità della morte e dalla capacità di comunicarla nella normalità e semplicità del discorso quotidiano. A quel punto non avremo più bisogno delle morti eccezionali di qualcuno per ricordarcene. E potremo fare tesoro del suggerimento di una bella poesia di Wislawa Szymborska, relativa a immagini che tutti conosciamo, “Fotografia dell’11 settembre”: “Solo due cose posso fare per loro / descrivere quel volo / senza aggiungere l’ultima frase”.
La vita non è che un osso di teschio e
Una griglia di costole in cui
Noi immettiamo cibo & carburante –
solo per poter bruciare
furiosi e splendidi.
(J. Keruac, Viaggio in Groenlandia, 1949)