Quando la morte
diventa spettacolo

La televisione, i giornali, gli applausi ai funerali, la profanazione dei suicidi. Una volta non era così.

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liuti-giancarlodi Giancarlo Liuti

Non so in voi, ma l’addio dell’estate suscita in me pensieri di malinconia  su un argomento che di lieto ha davvero pochissimo: la morte. Magari inconsapevolmente, diceva Leopardi, ma questo presagio ce l’abbiamo dentro tutti fin da quando cominciamo a chiederci qualcosa sul destino. E beati gli animali, diceva ancora, che ignorando lo scorrere del tempo hanno il privilegio di non pensarci mai, alla morte, e non calcolano le età, e non celebrano i compleanni. Ma basta. Ciò che m’interessa, stavolta, è il modo con cui i giornali, tutti, danno notizia della morte di qualcuno – non, necessariamente, di qualcuno molto noto o che rivesta importanti incarichi nella società – e infine dei suoi funerali.

In passato non era così. In sintonia coi costumi di allora e per addolcire quel po’ di cinismo che caratterizza questo mestiere, in noi giornalisti c’era, sulla morte, un minimo di pietoso pudore, di commosso riserbo, di attonito e sgomento rispetto. Se ne dava notizia, certo. Ma senza spingersi al di là della cronaca nuda e cruda, senza entrare nella sfera segreta e privatissima dell’amarezza che affligge i congiunti e gli amici di chi li ha lasciati per sempre. Patetica nostalgia di un certo modo di fare informazione? Può darsi, e non nego che il mio giudizio, ora, appartenga a una visione del mondo ancorata a vecchie chiusure, vecchi tabù, vecchi stili di vita. Ricordate il silenzio dei lenti cortei verso il camposanto e, sui marciapiedi, le donne che si facevano il segno della croce e gli uomini che si toglievano il cappello? Il mondo, me ne rendo conto, è cambiato, la qual cosa non significa che sia cambiato in peggio. Tuttavia non riesco a liberarmi dalla perplessità che mi coglie quando vedo, ascolto e leggo cos’è oggi diventata la morte.

Forse c’entrano tante cause e tanti effetti. La televisione, certo, che per sua natura è teatralità, amplificazione, esaltazione dell’attimo, implacabile denudamento, contaminazione dei linguaggi fra telegiornali, fiction e talk show (penso alla domanda “cosa prova?” che i cronisti del piccolo schermo rivolgono alle madri o alle spose davanti al cadavere, ancora caldo, sulla strada, di figli o mariti). Ma anche, a monte,  lo smemorato edonismo conseguente al benessere economico e i progressi della scienza che inducono noi occidentali a immaginarci di poterla negare, la morte e, siccome la morte non può essere negata, a trasformarla, da inesorabile qual è, in qualcosa di cui sia possibile attribuire la colpa a qualcuno (sempre più numerose sono le denunce per ipotetici errori dei medici) o, addirittura, in qualcosa di festevole, come accade, ad esempio, per lo scrosciare degli applausi all’apparire della bara, nel sagrato delle chiese, dopo la funzione funebre. Non nego, intendiamoci, che questa sia una sincera e spontanea manifestazione di affetto per il defunto e che gli occhi di chi batte le mani siano lucidi per un autentico cordoglio. Tuttavia l’applauso è pur sempre un esibito e corale segno di approvazione. Che cosa, dunque, applaudire? Non certo l’arrivo di lei, la ferale madama con la falce. E allora? Chissà, forse si applaude la nostra rasserenante ma vana dimenticanza degli agguati della fatalità.

Vengo al punto: i giornali. Mai come da qualche anno la spettacolarizzazione della morte sta trovando ospitalità e incitamento nell’informazione televisiva, cartacea e on line. Incidenti stradali,  infortuni, malattie vanno sempre in prima pagina, e con grossi titoli, e con nomi, cognomi, indirizzi, elenchi dei familiari, e con ipotesi sulle cause e sulle colpe, e con dettagliatissime descrizioni dei funerali, e con frequenti e insistiti proclami di lutti cittadini. La morte, insomma, è diventata protagonista, vivissima, dell’audience e della diffusione in edicola e nel web. Ripeto: non pretendo di convincere i miei lettori che ciò sia un male, anche perché, forse, non lo è. Ma, ripeto ancora, sono scomparsi quel pietoso pudore, quel commosso riserbo e quell’attonito e sgomento rispetto che in qualche modo, una volta, intenerivano il lavoro di noi giornalisti.

Almeno una cosa, però, vorrei denunciarla come spregevole senza se e senza ma. E riguarda i suicidi. Se c’è un solo caso in cui la morte non dico meriti ma esiga il massimo di silenzio, esso riguarda le motivazioni di chi decide di farla finita con la propria esistenza. Nessuno può saperle, forse neanche lui, nel buio che gli si è spalancato dentro. Metterle in piazza, accendervi i riflettori della curiosità popolare, indagarle, avanzare ipotesi e piegarle perfino a speculazioni politiche a me pare la profanazione più grave che possa compiersi nei confronti dell’anima, dell’animo, della coscienza e delle memorie di colui che con quel gesto ha voluto chiedere a se stesso e a noi un assoluto, definitivo, quasi sacro silenzio. E la notizia? Quella sì, poche righe, forse le sigle. Ma nient’altro. E apprezzo molto la scelta  Matteo Zallocco,  direttore di Cm, che per i suicidi ha deciso di comportarsi con sensibile sobrietà. Purtroppo, però, l’andazzo non è questo. Vi sono organi di stampa per i quali un suicidio è come un’appetibile ciliegina sulla torta della cronaca quotidiana, e giù titoloni, giù intere pagine, giù dettagli, giù indiscrezioni, giù fotografie, giù locandine. Non mi piace indossare la toga dell’accusatore, fra l’altro non ne sono capace. Stavolta, però, ho sentito il dovere di farlo. Ma la vita continua, lo so. Lasciatemi allora concludere con un paio di citazioni dalle quali traspare, sulla morte, una gentilezza ironica e affettuosa. La prima è un verso sul 2 di novembre del grande poeta dialettale milanese Delio Tessa: “L’è el dì dei mort, alègher!”. La seconda è una scritta che comparve sul muro del cimitero di Poggioreale dopo l’entusiasmante festa della città, nell’estate del 1987, per il primo scudetto del Napoli: “Guaglio’, che vi siete persi!”.



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