Qual è l’origine dei nostri cognomi? E che cosa significano? Nell’antica Roma le persone libere – non gli schiavi – si chiamavano col “praenomen” (oggi il nome proprio) e col “nomen” (quello del padre o della famiglia paterna, oggi il cognome). Poi, nell’Alto Medio Evo, si diffuse l’usanza di chiamarsi col semplice nome, la qual cosa poteva andar bene nelle piccole o piccolissime comunità, ma creava equivoci se ci si allargava a territori appena più vasti. Ecco allora il bisogno di qualcosa che distinguesse meglio le singole persone e tornarono i “nomina” (gli attuali cognomi), riferibili ai genitori paterni, oppure ai loro mestieri, oppure alle loro caratteristiche fisiche, oppure ai loro difetti, oppure ai luoghi della loro provenienza. Inutile tirarla per le lunghe. Basterà dire che i cognomi, oggi, portano tutti queste impronte remote (“Di Matteo”, per esempio, o “Fabbri”, o “Biondi”, o “Sordi”, o “Genovesi”). Anch’io mi sono esercitato, anni fa, nella ricerca del significato del mio cognome, ambiziosamente sperando che in qualche modo si legasse a Liutprando, re dei Longobardi, o a un liutaio famoso come Stradivari o Guarneri. Purtroppo, però, mi sono imbattuto in un poco edificante detto popolare medievale – “Li uti e li puti” – sul senso del quale è prudente sorvolare. E non ho approfondito.
Mi resta tuttavia la passione per l’origine delle parole (anche i nomi sono parole) ed è per questo che ho consultato con grande interesse il libro di Adriano Raparo, già docente di lettere nelle scuole medie, intitolato “Dizionario etimologico dei cognomi del Maceratese, dell’Anconetano e del Fermano” (ma il Maceratese occupa quasi tutto lo spazio) ed edito dal “Lavoro editoriale” di Ancona. Una gran fatica, la sua, con l’elenco e l’analisi di circa 1.500 voci, da “Abelardi” a “Zura-Puntaroni”. Ma ne è valsa la pena, giacché le nozioni, le singolarità e le curiosità che ne derivano non possono non suscitare, anche per la scorrevolezza dello stile con cui l’autore le scrive, l’attenzione di una vasta platea di lettori. E su quali cognomi si è soffermata questa paziente ricerca? Su quelli che dagli elenchi telefonici nazionali risultano percentualmente più presenti nel Maceratese rispetto al resto d’Italia, il che già apre la strada alle ragioni profonde della loro stanzialità, della loro persistenza e della loro ramificazione. Di cognomi venuti da fuori, da noi, non ce ne sono tantissimi. Molto più numerosi appaiono, semmai, quelli che sono usciti dai nostri confini per spargersi altrove (Roma è piena di cognomi maceratesi). E qui c’entrano le vicende sociali ed economiche della storia, le quali ci hanno reso terra più di emigrazione che d’immigrazione.
Gli elenchi telefonici, dicevo. Ed ecco una peculiarità che distingue Macerata da Civitanova e in qualche modo conferma la diversa “indole” delle due maggiori città della provincia, la cui popolazione è praticamente uguale. Più stabilità (tradizione?)nella prima, più mobilità (innovazione?) nella seconda. A Macerata, infatti, sono frequenti i cognomi comuni a un alto numero di nuclei familiari: ben 65 i Giustozzi (da “justus”, di epoca cristiana), 63 i Moretti (avi scuri di pelle?), 57 i Gentili (avi aristocratici), 55 i Monachesi (avi appartenenti a ordini religiosi), 50 gli Angeletti (avi “messaggeri di Dio”), 45 i Salvucci (dal tardo latino “salvo in Dio”), 45 i Bianchini (avi precocemente incanutiti?).
A Civitanova, invece, è pur vero che svettano i 73 Marinelli (da “uomini del mare”) ma per il resto (Torresi, da paesi turriti; Gaetani, dalla marinara Gaeta; Ripari, forse da “ripa” come “riva”; Micucci, dal latino “amicus”; Capozucca, da un remoto e scherzoso soprannome) non si supera la quarantina e al di sotto ci si fraziona in tanti nuclei minori. Il che dimostrerebbe per un verso la maggior fluidità sociale dei civitanovesi e per l’altro verso la maggior continuità dei maceratesi nel loro passato. Un’ultima curiosità. A Recanati troviamo ben 84 Cingolani, la cui origine sta evidentemente nel luogo di provenienza, mentre a Cingoli non ce n’è neanche uno!
Un cenno a parte il professor Raparo lo riserva ai “trovatelli”, ossia a quei neonati abbandonati nelle cosiddette “ruote degli esposti” e affidati alle cure soprattutto di suore o imbarazzanti per le famiglie in quanto frutto di relazioni adulterine, bambini privi di cognome ai quali tuttavia, per ragioni anagrafiche, bisognava pur dargliene uno. Ma quale? Ce ne sono molti, di questi cognomi, e compaiono in quasi tutti i centri del Maceratese. Uno, in particolare, significa “illegittimo” e, risalendo a tempi passati, non va riferito in alcun modo alla condizione di chi oggi lo porta. Ecco perché preferisco non citarlo e lasciarlo nel “mare magnum” dei 1.500 che figurano nelle 235 pagine di Raparo. Vi piacerebbe saperlo? Munitevi del libro.
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati
io invece sono stato incuriosito da “li uti e li puti” ma ho trovato solo il “Ne’ uti, ne’ puti. Usato a maniera d’aggiunto. Non capace nè di bene nè di male” (tratto dal Vocabolario degli Accademici della Crusca, pag.243)
Ho letto con interesse l’articolo di Liuti sui cognomi storici maceratesi e, leggendo, non ho potuto fare a meno di riflettere sul fatto che mentre i cognomi hanno origine abbastanza recente, i soprannomi hanno origine antichissima e sono quelli con cui, ancora oggi, soprattutto nei paesi e nelle campagne, si conoscono gli uni con gli altri. Infatti, mentre i cognomi in gran parte sono stati imposti o confermati soprattutto sotto il dominio napoleonico per identificare meglio i cittadini in generale ed i chiamati alla coscrizione in particolare, i soprannomi c’erano già da prima. Del resto, anche a Macerata, come altrove, fino a non molti anni fa persone e famiglie erano conosciute più che per i loro cognomi, per i soprannomi. Io stesso ricordo che la suocera di una mia zia materna di nome Anna, la quale aveva una “cantina co lo vì jiu le fosse” era conosciuta come “Annetta de bevi”, così come ricordo che mio padre per dei piccoli lavori da fare a casa chiamava sempre un muratore, mingherlino, basso di statura e con due occhi neri pieni di furbizia che era soprannominato Sorice! Ugualmente se qualche anno fa si voleva trovare Nazzareno Valentini si doveva chiedere di Primo (perché il primo di tanti fratelli) Paccacèrqua. Come ha rilevato in un suo scritto il prof. Dante Cecchi “… basta scorrere l’elenco dei contadini tolentinati che nel 1744 raccolsero oltre 12 tonnellate di cavallette per trovare Antonio Passacantanno, Antonio Montedoro, Andrea Pettaccia, Maria Piattelletta, Saverio Nasone, Domenico Casamatta, Belardino Vignarolo, , Severino Boccadolce, Domenico Sprecapane, Maria Cepollara, Filippo Magnastrutto, Francesco Raspante, Francesco Pancotto e poi Abbrugiaferro, Casavecchia, Birichillo, Cantolacqua, Sbattuscio, Spadone, Coccetto, Trufarello, Benfondato, Trequattrini, Spaccapane, Capiscione e donne chiamate Pelosella, Carnevaletta, Beagna, Fiammozza, Piccione, Palomba, Fusara, Trappolona” Lo stesso Dante Cecchi ricorda poi come spesso i “soprannomi “cittadini” erano più razionalmente maliziosi di quelli “contadini”: Battilosse, Batoccu, Cacaccià, Cacaddosso, Cacciamà, Canestrellu, Carpifava, Chiappagguzza, Chiappettò, Chiappezozze, Cipollò, Cipollittu, Cococcio, Cutichì, Cuccumetta, Gajinella, Magnacà, Massacrò, Paccalossu, Pelaviocca, Panzì (chi non ricorda il venditore di semi allo stadio durante le partite della maceratese!), Pocciaditu, Purassà, Purgì, Recchiò, Suricittu Tajulì, Testò, e poi Lu Rafanusu, Lu Pontecanà, e addirittura Lo-saprò-io e Non-c’è-dubbio(!). “Bei tempi passati!” direbbe qualcuno. Non so se poi erano così belli, ma sicuramente improntati su rapporti personali più veri, tempi in cui ognuno conosceva l’altro anche e soprattutto per i suoi pregi e difetti. E permettetemi di dirlo: quanto erano più belli quei soprannomi rispetto ai nomi di cui si è fatto abuso in particolare negli anni 60-70, a volte anche storpiandoli in modo grottesco, come nel caso delle tante Cheti (Ketty) o Suelle (Sue Ellen di Dallas). Pierfrancesco Castiglioni