La città di Macerata
e la mancanza d’amore

Alcune vicende: la candidatura di Urbino a “Capitale europea”, l’abolizione della Provincia, il muro sulla casa di Liviabella e le dimenticate bellezze di tanti negozi del centro

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di Giancarlo Liuti

Urbino, dunque, si candida al titolo di “Capitale europea della cultura” (leggi l’articolo). Chissà se riuscirà ad arrivare in finale. Il percorso è lungo, prima nazionale poi europeo. E in Italia dovrà battersi con Assisi, Matera, Ravenna, Terni. Però ci prova, lei e la sua terra. L’importante non è vincere ma partecipare, come disse Pierre de Coubertin, il fondatore delle Olimpiadi moderne. E partecipare significa impegnarsi, fare appello alle proprie forze, mettere insieme le migliori, credere in se stessi. Buone carte, a Urbino, non mancano:  Federico di Montefeltro e la sua prestigiosissima corte di artisti, letterati e filosofi che ben oltre i confini di quella signoria diedero impulso al fiorire del Rinascimento, lo splendore del Palazzo Ducale, l’aver dato i natali a Raffaello e molte altre, fra cui, oggi, il sostegno della Regione e l’essersi dotata, come presidente del comitato promotore, di Jack Lang, ministro della cultura francese ai tempi di Francois Mitterrand. Che ne pensano gli urbinati? Da loro – e non solo da loro, giacché questa impresa coinvolge un’intera provincia – non sono giunti dissensi, distinguo, velenosi sarcasmi. Qualunque sia la sorte di tale iniziativa, essi ne vanno orgogliosi.

Due mesi fa un analogo appello fu lanciato, per Macerata e il suo territorio, da Francesco Adornato, direttore del dipartimento di scienze politiche, comunicazione e relazioni internazionali dell’ateneo. Di che si trattava? Chiamare a rassegna tutte le energie – culturali, politiche, economiche, sociali – per elaborare le credenziali di una candidatura, certo ambiziosa ma non campata in aria, che, facendo leva  sulle eccellenze del passato e del presente, fosse plausibile, cioè degna di essere proposta. Una sorta, insomma, di corposo “curriculum” in cui confluissero non solo memorie storiche, bellezze architettoniche e la consapevolezza  di un antico e non perduto civismo,  ma anche la modernità innovativa del manifatturiero, il coraggio di singoli capitani d’industria, la paziente laboriosità già contadina dei “metalmezzadri”. Puntare alla vittoria? Sì, in teoria. Ma, soprattutto, dare prova di vitalità e di coesione. Ripeto: impegnarsi, fare appello alle proprie forze, mettere insieme le migliori, credere in se stessi.

Ebbene, sono trascorsi due mesi e nulla si è mosso. L’università aveva garantito la sua collaborazione, ma, a parte qualche vago entusiasmo iniziale, le altre istituzioni non hanno mostrato alcun interesse concreto. Pazienza, faremo il tifo per Urbino. Resta tuttavia singolare la circostanza per cui quell’appello sia venuto da un non maceratese che ama Macerata, e che esso sia stato accolto con illimitato favore, nel mio piccolo, da me, un altro non maceratese che ama Macerata. Qual è, allora, il problema? E’ che Macerata non si ama abbastanza. E non abbastanza la amano i suoi figli. Tantissimi, ora, se la prendono con la litigiosa vuotezza della politica e non hanno torto. Ma che c’entra? “Right or wrong, it’s my country” (giusto o sbagliato, è il mio paese) dicono gli americani. E ne sono convinti. A Macerata non è così.

Inutile e sciocco, adesso, fare confronti con Urbino su chi avesse più carne da mettere al fuoco. Raffaello? Figuriamoci, non si discute. Ma da noi c’è il gesuita Matteo Ricci, che secondo la rivista “Life” rientra fra le cento più importanti figure del secondo millennio per il progresso dell’umanità. Jack Lang? Gran personaggio. Ma per Macerata sarebbe potuto entrare in campo Dante Ferretti, il numero uno, in assoluto, della scenografia cinematografica mondiale. E via e via, attribuendo meriti, dando punteggi, stilando classifiche. Basta, lasciamo perdere. E’ invece significativo rilevare che quando fu reso noto quell’appello molti maceratesi storsero il naso e qualcuno, maceratese di puro sangue, lo definì addirittura “delirio di onnipotenza”. Forza, andiamo avanti su questa strada. Col magro conforto di piangerci addosso, imprecare per le buche nelle strade o il tunnel che ci piove e invidiare Civitanova e le sue “magnifiche sorti e progressive”, come sarcasticamente diceva Leopardi pensando al futuro del secolo suo.

Altri esempi? Abolire tutte le province, sostengono innumerevoli maceratesi. Niente da eccepire, è un’opinione rispettabile e per alcuni aspetti condivisibile. Ma capita che il governo intenda salvarne cinquantuno e cancellarne trentacinque, fra le quali Macerata. E allora? Come reagiscono i nostri irriducibili abolizionisti? Si ribellano contro qualcosa che sulla base di meri criteri aritmetici danneggerebbe pesantemente la loro città? Nient’affatto. Essi dicono: “Siccome noi siamo per abolirle tutte, le province, non ci va bene che ne restino cinquantuno ma, se così ha da essere, ci va benissimo che scompaia quella di Macerata”. Masochismo? No. Semplice mancanza di amore.

Giorni fa ho avuto occasione di parlare con un violinista noto e apprezzato per la sua intensa attività concertistica in Italia e all’estero: Lucio Liviabella, figlio di Lino, il compositore che s’impose come uno dei più rappresentativi esponenti della musica non solo italiana del Novecento. La famiglia Liviabella è tutta musicale e  tutta maceratese: da Livio, allievo di Rossini e maestro di cappella nella basilica di Tolentino, a Oreste, organista nel duomo di Macerata, a Lino e, adesso, a Lucio, i cui due figli, Fulvio e Hans, hanno primarie parti di violino alla Scala e a Lugano. La stirpe dei Liviabella risiedeva in via Santa Maria della Porta, dove il più illustre, Lino, nacque nel 1902. “Lo scorso giugno”, mi dice Lucio, “l’auditorium di Amburgo ha ospitato un concerto per le vittime del terremoto che ha colpito l’Emilia e furono eseguiti brani di Mascagni, Respighi e Liviabella”. Molto sensibile alle nostre tradizioni popolari e anche per questo amico di Giovanni Ginobili, l’ormai dimenticato cultore del dialetto e del folclore rurale, Lino, fra l’altro, compose il poema sinfonico “La mia terra”, in cui inserì echi di stornelli, saltarelli e le note della “Pasquella”. Ebbene, come lo ricorda la sua Macerata? C’è una piccola via di estrema periferia, a Sforzacosta (ma ce n’è una, più grande, a Roma, dalle parti della “Cristoforo Colombo”) e c’è una scolorita lapide dell’Accademia dei Catenati  sulla sua casa natale, al numero civico 39, ma l’ingresso non esiste più, l’hanno murato e il muro è da tempo imbrattato da un ignoto graffitaro. Liviabella poteva aspirare a qualcosa di meglio? Certo, ma, per l’appunto, è una questione d’amore.

E ancora. Recentemente la soprintendenza regionale per i beni architettonici e paesaggistici ha dichiarato meritevole di tutela e di vincolo la vetrina della “Guzzi” (in corso Cavour, sotto il nome di Primo Moretti, campione di motociclismo) che in tal modo diverrà la prima bottega storica della provincia. Ottimo. Ma l’architetto Gabor Bonifazi, uno dei pochi che davvero amano Macerata (un po’ meno, per la verità, quella di oggi), mi ha detto altre cose. Per esempio che nel centro storico vi sono vetrine degne anch’esse di tutela, come  quella della “Moda di Parigi” in corso della Repubblica (“Chiuso per piccioni”, avverte un amaro cartello). E che all’interno di questo e altri negozi  e ingressi di edifici giacciono affreschi e tempere di quel fecondo periodo artistico maceratese che fu rappresentato dal primo e secondo futurismo, con opere di  Bruno Tano e di un giovanissimo Wladimiro Tulli. Un “museo diffuso”, secondo Bonifazi, che potrebbe sollecitare la frequentazione anche turistica della città. E lui mi ha parlato anche di Redo Romagnoli, un ingegnere maceratese alla cui attitudine di scenografo si dovettero il decoro iniziale e il restauro di numerosi negozi , fra i quali l’allora caffè Venanzetti, l’allora Casa della Moda, la sartoria Pietrarelli, forse anche la “Guzzi”. E c’è un filo, mi ha spiegato, che lega Redo Romagnoli a Dante Ferretti e rivela una sorta di  vocazione naturale di Macerata per la musa del cinema. Lui, infatti, si trasferì a Roma e divenne scenografo e in alcuni casi regista di ben dodici film, fra i quali, nel 1940, “Piccolo re” con la famosa Evi Maltagliati. Redo Romagnoli, chi era costui? Mistero, l’ha sepolto l’oblio. E qui, ancora una volta, salta fuori una questione d’amore.



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