Brutte notizie su consulenze, tasse e gettoni

La “differenza” di Tiziano Ferro, Finmeccanica, consiglio comunale di Macerata e Leopardi negli Usa
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Leopardi-Giacomodi Giancarlo Liuti

Quattro notizie, negli ultimi giorni, mi hanno, come s’usa dire, intrigato. La prima riguarda il cantautore Tiziano Ferro, la seconda i traffici interni ed esterni della Finmeccanica, la terza i gettoni di presenza in consiglio comunale e la quarta Giacomo Leopardi. Notizia numero uno. Tiziano Ferro, poetico assertore, nelle sue canzoni, di alti princìpi morali e tuttavia residente in Inghilterra per motivi fiscali, ha ricevuto dall’agenzia delle entrate un accertamento di complessivi dieci milioni per imposte evase e relative sanzioni. Nel suo ultimo album c’è un brano che s’intitola “La differenza fra me e te”. La differenza, adesso, l’abbiamo capita. Canta in un altro brano: “Mi sentivo un carcerato”. Un presagio? No, per sua fortuna non siamo negli Stati Uniti. Intendiamoci, lui non è il solo a predicare bene e razzolare male. Ed è noto che la ragione per cui l’Italia si trova sull’orlo del fallimento dipende in massima parte dall’evasione fiscale (non a caso Riccardo Muti se l’è presa con quegli innumerevoli artisti o artigiani della musica che si trasferiscono all’estero ma poi vomitano fango sui difetti dell’Italia).

Notizia numero due. La Finmeccanica è un grande gruppo industriale che se la passa piuttosto male anche per via d’ignobili e danarose pastette con la politica – sono in corso indagini, qualcuno è già stato arrestato – e risulta che a un suo consulente incaricato di trattare l’acquisto dell’azienda americana Drs (pessimo affare, sembra, per Finmeccanica) sia stata liquidata una provvigione di circa quindici milioni. E qui, oltre al ritorno in grande stile di Tangentopoli, suscita scandalo sia l’incredibile enormità di certi compensi sia, come concausa del suddetto rischio di fallimento, l’impressionante e galoppante allargarsi della forbice sociale fra gli straricchi e gli strapoveri che tirano a campare con pensioni di quattrocento euro al mese (in mezzo c’è la grande categoria dei “benestanti”, come li ha definiti Berlusconi, ma l’Istat dice che pure loro sono sempre più “malestanti”).

Notizia numero tre: fino a oggi le sedute del consiglio comunale di Macerata sono state trentanove, vale a dire, se escludiamo la sosta estiva, quasi una alla settimana. Un record? Certamente sì. Basti pensare che al consiglio di Civitanova ce ne sono state appena quindici. E qual è la ragione di tanto stakanovismo? Non l’esorbitante numero di delibere della giunta, che anzi è accusata di farne troppo poche (infatti i nostri consiglieri vengono molto spesso chiamati a discutere – meglio, a conversare – di mozioni, interpellanze, ordini del giorno e varie amenità). E allora? Forse l’interminabile e ormai stucchevole ostilità fra il sindaco Carancini e la sua maggioranza? Può darsi. Oppure i ben dodici gruppi consiliari, ognuno dei quali pretende visibilità? Può darsi anche questo. Ma non è da scartare l’ipotesi che la ragione stia anche – se non soprattutto – nel fascino adescatore dei gettoni di presenza, il cui costo si aggira sui duemilaquattrocento euro a seduta (l’ultima è durata appena due ore ed è ruotata su argomenti che potremmo definire aria fritta). Non sarà questa, allora, la vera ragione? E se è questa, come la mettiamo con la disperante situazione del bilancio comunale?

La notizia numero quattro riguarda Giacomo Leopardi. Rieccolo, diranno i lettori. Stavolta, però, la scelta non dipende dal mio personale stravedere per il genio recanatese, ma dal New York Times, il quotidiano da oltre un milione di copie che nella classifica dei libri più importanti dell’anno negli Usa ha inserito al sesto posto (sic!) i “Canti” leopardiani tradotti da Jonathan Galassi e pubblicati dall’editore Farrar. Ecco un fatto sul quale riflettere, specialmente perché tale graduatoria si riferisce proprio all’anno in corso. C’entra qualcosa con le crescenti preoccupazioni dell’opinione pubblica americana per l’attuale situazione italiana? Forse sì. Non è da escludere, infatti, che alcuni versi della canzone “All’Italia” – scritta nel 1818, all’età di vent’anni – abbiano giustificato, nei lettori d’oltre oceano, l’allarme circa lo stato della nostra economia e più in generale del nostro vivere civile. Quali versi? Eccoli: “O patria mia, / oimè quante ferite / che lividor, che sangue!”. E ancora: “Piangi, che n’hai ben donde, / Italia mia, come cadesti o quando / da tanta altezza in così basso loco?”.

Ma se Galassi avesse tradotto e fatto pubblicare negli Usa anche il “Discorso sopra lo stato presente dei costumi degli italiani” – scritto nel 1824 – ben altre e non meno inquietanti informazioni avrebbero varcato l’Atlantico. Per esempio sul fatto che gli italiani “non hanno costumi ma usanze” (non princìpi etici, dunque, ma abitudini), e che “l’Italia è priva d’ogni fondamento di morale e d’ogni vero vincolo e principio di conservazione della società”, e che le uniche occasioni di stringersi insieme sono “il passeggio, gli spettacoli, le chiese e le feste sacre e profane”, e che “l’indifferenza di ciascuno verso gli altri è la maggior peste dei costumi e della morale”, e che vi si conduce “una vita senza prospettive di futuro, senza scopo, ristretta al solo presente”, e che “le classi superiori (dirigenti, ndr.) sono le più ciniche”. Eccesso d’individualismo, insomma, latitanza del sentimento di appartenere a un comune consorzio di diritti, doveri, responsabilità, impegni, prospettive. Questo nel 1824. E oggi? Mettiamole insieme, le quattro notizie. E tiriamo le somme.



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