La Parima, dunque, ha cessato di esistere. Era l’azienda più nota di Macerata, soprattutto perché produceva pane (dacci oggi il nostro pane quotidiano, dice il Pater Noster che purtroppo non è una legge sui contratti di lavoro). Quando è morta? Sabato 13 luglio, all’improvviso, esalando l’ultimo respiro con una vaga telefonata fatta da un caporeparto. E domenica 14 luglio -nei panifici si lavora anche di domenica – i dipendenti si sono regolarmente presentati ai cancelli sperando che quella telefonata non fosse un annuncio di morte ma, al massimo, un annuncio di malattia dalla quale la Parima potesse, anche grazie a loro, guarire (liberaci dal male, dice ancora quella preghiera). Ma i cancelli erano chiusi, sbarrati con catene e lucchetti. E i proprietari? Niente, non c’era nessuno a spiegare le cause della ferale agonia, gli eventuali tentativi di venirne fuori, le inevitabili ragioni di un così duro colpo al futuro di ventuno persone tra impiegati e operai. Tutto deciso, ormai. Cosa volete che contino gli immateriali sentimenti di un essere umano di fronte alla materiale commerciabilità di una pagnotta? I funerali, adesso, saranno celebrati lungo la strada per Jesi, dove la salma smembrata della Parima sarà trasportata con un nome diverso e continuando a fare profitti. Questa, per sommi capi, la storia. Una delle tante che la cronaca ci propone, in Italia e in altri Paesi alle prese con la crisi economica.
Domenica scorsa i dipendenti della Parima hanno trovato i cancelli chiusi (clicca sull’immagine per guardare il video)
Già, la crisi economica. Che ha i suoi prezzi, imprenditoriali e soprattutto sociali. Prezzi sui quali non sono in grado di soffermarmi, intuendone la gravità ma in totale confusione – non sono il solo, mi fanno autorevolissima compagnia perfino Premi Nobel e Capi di Governo – su quali potrebbero essere le giuste vie per superarla. Non metto in dubbio, dunque, che la Parima fosse progressivamente finita, come si dice, fuori mercato. E per un’azienda fuori mercato – conta poco il passato, le colpe, gli errori, le imprevidenze, le inefficienze dei proprietari o financo, casi rari ma possibili, dei dipendenti – non c’è che un destino: fallire, o fondersi con altre, o emigrare in luoghi dove i costi d’esercizio sono inferiori. E’ accaduto e accadrà ancora. Sempre più spesso, se nel cielo nazionale, continentale e mondiale non spunterà – ma quando? – la stella della crescita. Perciò non parlo di economia, un argomento che lascio a chi ne sa più di me. Né parlo del fatto che sull’area della Parima è aleggiato il fantasma delle mire edilizie – cemento al posto della farina? – portate avanti ai tempi della giunta Meschini e oggi nettamente e sdegnosamente smentite dal sindaco Carancini (ma quando riuscirà, questa povera Macerata, a scrollarsi di dosso la pesante e oscura eredità delle speculazioni edificatorie?).
No, parlo di un’altra cosa. E la mia memoria corre a ciò che il 2 novembre del 2011 accadde a Montefano e precisamente nello stabilimento della multinazionale americana Best che lì fabbricava motori per cappe aspiranti. In vista della Festa dei Santi ai centoventisei dipendenti era stato concesso qualche giorno di ferie e loro l’avevano considerato un omaggio alla loro alacrità. Poi, la sera del primo novembre, era circolata una telefonata: “Non tornate al lavoro”. Invece, allarmati, ci tornarono. Proprio la mattina della Ricorrenza dei Morti. E trovarono chiuso a doppia mandata, e seppero che durante la notte una parte dei macchinari era stata segretamente portata via a bordo di camion diretti in Polonia. La Best di Montefano, insomma, non c’era più. Nei giorni successivi si ebbero contatti fra la proprietà, i sindacati e i politici locali. Inutili. I rappresentanti dei proprietari ci andarono con la pistola sul tavolo, la pistola del fatto compiuto. Mi capitò allora di commentare questa vicenda e a prescindere dalle motivazioni strettamente economiche cercai di porre in risalto l’intollerabilità umana e civile di quel comportamento, dal quale risultava il disprezzo delle persone, la spavalda e arrogante certezza che una cappa aspirante conta enormemente di più – anzi, conta solo quella – della dignità di un essere umano.
Tornando ora alla morte della Parima, le analogie con quella della Best sono impressionanti. Certo, ci sono differenze. Socialmente più grave fu l’accaduto di Montefano: là centoventisei lavoratori in mezzo alla strada, qua solo ventuno. Ma con l’attenuante che a una multinazionale americana non si può chiedere grande sensibilità verso il destino di piccoli territori sparsi nel mondo. Attenuante, questa, che la Parima non ha, essendo nata maceratese e avendo tratto da Macerata l’anima stessa della propria esistenza. Però ripeto: lasciamo perdere queste considerazioni. E veniamo al modo: sbarrare all’improvviso i cancelli, porre i dipendenti di fronte al fatto compiuto, comportarsi come i padroni dell’Ottocento: “La roba è mia e ci faccio quel che mi pare” (mica vero: il padrone dà lavoro ma al tempo stesso lo prende, e sul piano del decoro personale lui e i suoi dipendenti sono uguali, hanno l’identico diritto al rispetto). Il modo, insisto. Dice Francesca da Rimini nel quinto canto dell’Inferno, barbaramente uccisa con l’amato Paolo da suo marito Giangiotto: “Il modo ancor m’offende”. Perciò condivido in toto l’immediata reazione del sindaco Carancini: “Chiudere la Parima in questo modo è inaccettabile, significa umiliare e ferire tutti coloro che vi hanno lavorato per tanti anni”.
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Mi scusi sig. Giancarlo ma Lei pensa veramente che tutto sia così semplice?
Pensa veramente che chiudere dei cancelli sia stato così’ semplice e superficiale?
Parliamoci chiaro. Ma Lei sa cosa significa essere “imprenditore”?
Sa cosa significa svegliarsi ogni sacrosanta mattina e pensare agli altri prima di se stessi?
Questa lotta al massacro verso chi ha lavorato per anni ogni dannatissimo giorno, con sacrificio, pensando ad una azienda senza certezza alcuna rispetto a chi sta in un bell’ufficio con uno stipendio sicuro, bhè è molto superficiale. Dietro ogni impresa c’è una vita.
Chiudere in questo modo?? ???? Ma Lei è sicuro che si sarebbe comportato diversamente?
Ne è davvero sicuro? al 100%?
Io ho rinunciato al mio lavoro ed ero l’unica dipendente. Ho capito la situazione, non potevo far altro.
Si chiama dignità. Anche gli imprenditori hanno dignità, basta guardali negli occhi.
Come mi disse tempo fa un grande imprenditore… credo ad una stretta di mano piuttosto che a mille contratti…ed aveva ragione.
Spero che questi lavoratori abbiamo i loro soldi e possano i qualche modo godere dell’esperienza per poter continuare il loro percorso lavorativo confidando in altre strade… come anche questi imprenditori… spero per loro che possano, in qualche modo, avere fiducia nel futuro e continuare ad investire… ci vuole coraggio.