Ancora sul caso Isidori
e sulla parola “cultura”

Apparire o essere? Questo è il problema. Napoli, Civitanova e, per finire,”lu curatu de Ficana che riga e monda su”

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Giancarlo Liuti

di Giancarlo Liuti

L’apparire che prevale sull’essere è la tipica caratteristica dell’epoca nostra, segnata dalla fiction televisiva, dai reality senza realtà e dagli spot pubblicitari, un’epoca nella quale l’individuo soggiace al desiderio – perfino al bisogno – di mostrarsi non com’è ma con un “qualcosa in più” che lo riscatti dal grigiore della massa e gli dia la gratificazione della notorietà. Perdonatemi se c’insisto, ma, tornando all’episodio più recente e più clamoroso, è per questo, forse, che l’onorevole Eraldo Isidori, incurante delle sue enormi e incolpevoli lacune linguistiche, ha preso la parola nell’aula di Montecitorio e ha letto il seguente testo scritto da lui stesso sulla certezza delle pene: “Il carcere è un penitenziario, non è un villaggio di vacanza. Si deve scontare la sua pena prescritta, che gli aspetta. Lo sapeva prima di fare il reato. Io ritengo, come Lega, di non uscire prima della sua pena erogata”. Giusto il contenuto? Può esserlo. Ma la forma? Da rabbrividire.

isidori-0Poi, siccome c’è un limite a tutto, un’imprudenza a tal punto temeraria ha finito per esporlo a un dileggio di portata nazionale, rendendolo oggetto dei feroci sarcasmi di Maurizio Crozza, Luciana Littizzetto ed Ezio Greggio di “Striscia la notizia” (leggi l’articolo). Insomma, eletto un po’ fortunosamente nella compagine parlamentare della Lega Nord, il nostro onorevole non si è rassegnato a comportarsi da oscuro “peone”, ma, almeno per una volta, ha deciso di uscire dall’ombra e di ergersi a protagonista. Gli è andata male? Sì, da un certo punto di vista. Anche perché, con l’aria che tira, incombe su di lui il rischio di diventare il simbolo della sciatteria della politica. Ma non gli è andata male per la notorietà, se era questo che desiderava. Raggiunta la “fama”, non è escluso che gli arrivino proposte di partecipare a qualche programma tv nei panni della macchietta di turno.

L’onorevole Isidori si è dunque lasciato sedurre e infine tradire dal costume dei tempi, che consiste nel non sottostare ad alcuna regola pur di apparire, mostrarsi e conquistare la ribalta attribuendosi un “qualcosa in più” che, nel suo caso, non si ha, ossia la capacità di scrivere e di parlare non si pretende da grande oratore ma in un italiano minimamente corretto. Prima sedotto e poi abbandonato, come a volte accade nelle vicende d’amore. Ora giustifica l’infortunio (quelle parole le aveva scritte in fretta ma bene, e dopo, preso dall’emozione, le ha lette male) e reagisce alla derisione che gli è piovuta addosso dicendo di non capire tanto accanimento contro chi ha lavorato onestamente per tutta la vita. Ne prendo atto, comprendo il suo stato d’animo e gli sono umanamente solidale. Ma la questione non cambia.

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L’intervento alla Camera

Come ho già rilevato la settimana scorsa, mi pare semmai che al galantuomo (un po’ meno all’onorevole) vada concessa l’attenuante di essersi adeguato allo stile dei tempi. Cosa non si fa, oggigiorno, per attirare l’attenzione di una telecamera? Vi sono madri che senza pudore si gloriano di avere indotto le loro giovani figlie a prostituirsi in cambio di un contratto da “velina”. Vi sono deputati e senatori che pur di andare in prima pagina sparano sesquipedali e masochistiche castronerie. Vi sono ergastolani che forti della “fama” d’’aver commesso orribili delitti ricevono migliaia di appassionate lettere d’amore e scrivono (si fanno scrivere) libri da best seller.

Vero è che ogni cittadino ha il sacrosanto diritto di candidarsi al Parlamento a prescindere dal titolo di studio ed è vero che anche nei Parlamenti del passato entravano – ci mancherebbe altro! – artigiani, operai e contadini di scarsa cultura scolastica, ma essi, eletti  per rappresentare istanze sociali e non per eccellere come oratori, si erano formati nelle sezioni  dei partiti e negli enti locali, ne avevano assorbito il linguaggio e, giunti a Montecitorio o a Palazzo Madama, rispettavano le prerogative anche formali del ruolo e del luogo, e ascoltavano, e imparavano, e i loro interventi – orali o scritti che fossero – non erano mai improvvisati. Oggi no. Oggi si può tutto, e di più, e di peggio. Oggi, per dirlo in dialetto maceratese, ci si comporta come “lu curatu de Ficana che riga e monda su”.  Il galantuomo Isidori avrà pure sbagliato nel seguire l’andazzo dei tempi senza rendersi conto dell’inganno che vi si cela e del prezzo che ne consegue: apparire a qualsiasi costo, salire sul palcoscenico, recitare un copione fuori dalla sua portata. Ma chi può scagliare la prima pietra? Chi può dire che seguire l’andazzo dei tempi sia davvero una imperdonabile colpa? O non è forse l’andazzo dei tempi a dover figurare come il vero colpevole?

Lo scorso mese, in una riunione alla prefettura di Napoli sul tema dei rifiuti tossici, don Maurizio Patriciello, parroco di Caivano, si è rivolto al prefetto di Caserta, Carmela Pagano, chiamandola “signora”, al che il prefetto di Napoli, Andrea De Martino, gli ha tolto la parola sostenendo che quando ci si riferisce a un prefetto bisogna dire “sua eccellenza”. Secondo Sua Eccellenza De Martino, dunque, il termine “signore” o “signora” non è sufficientemente rispettoso di persone verso le quali occorre manifestare – ecco l’apparenza – il massimo dell’ossequio. Sbaglia dunque il primo comandamento del decalogo biblico (“Io sono il Signore Dio tuo e non avrai altro Dio all’infuori di me”) e sbaglia uno dei più noti canti alla Madonna (“Mira il tuo popolo, bella Signora, che pien di giubilo oggi ti onora”). Figure, queste, che potrebbero forse vantare un prestigio non inferiore a quello di un comune prefetto. Ma l’apparire conta assai più dell’essere e oggi, nel chiassoso splendore della civiltà dell’immagine, un qualunque titolo onorifico, accademico o nobiliare giova alla notorietà e rende meritevoli di pubblica deferenza più di quanto in realtà non si sia.

E mi torna in mente la futile polemica divampata a Civitanova  proprio sulla questione dei “titoli”, cioè, per l’appunto, dell’apparire e dell’essere. Tutto iniziò con la nomina di Francesco Annibali a portavoce del sindaco. E’ o non è, come lui stesso aveva dichiarato, un giornalista? Non lo è. Tale titolo, dunque, non gli compete. Apriti cielo! Intendiamoci, quell’incarico è totalmente fiduciario e non sta scritto da nessuna parte che chi “porta la voce” debba appartenere a un ordine professionale. Ma per quale motivo l’interessato ha sentito il bisogno di autoproclamarsi giornalista? Tutto deriva dalla necessità, oggigiorno, di mostrarsi un tantino “migliori” di ciò che siamo nella realtà e di credere che un titolo, qualunque esso sia, contribuisca a renderci, nel confronto con gli altri, più degni di apprezzamento: l’apparenza, l’immagine, la vernice esteriore.

Sempre a Civitanova è poi saltata fuori un’altra storia che stavolta ha riguardato il presidente del consiglio comunale. Sulla targa del suo ufficio è infatti comparsa la dicitura “dottor Ivo Costamagna” e l’opposizione  è insorta rilevando che lui non ha diritto a questo titolo perché, in base a certe ricerche d’archivio, non sarebbe laureato. Posto che per diventare presidente del consiglio comunale non è indispensabile essere laureati e che, dunque, la questione non ha alcun reale rilievo, Costamagna ha reagito dichiarando di avere ottenuto una laurea honoris causa dalla “Universitatis Internationalis Pro Deo” di New York e di averla conseguita nel lontano 1994 presso la “San Paolo Chapel” della Columbia University. Potrei chiedermi quali siano stati i motivi per cui un pur eminente uomo pubblico di Civitanova ha ricevuto un così prestigioso riconoscimento di livello internazionale e quale sia la reale autorevolezza di quell’ateneo, che le malelingue hanno osato paragonare al “Kristal” di Tirana, dove si è laureato Renzo Bossi, il “Trota”. Invece non me lo chiedo, giacché voglio tenermi fuori da tale groviglio di affermazioni, precisazioni, allusioni, indignazioni. Solo una domanda: perché quel “dottore” su quella targa? Non bastava il semplice nome? Non bastava, implicitamente, la lunga e non secondaria milizia politica che quel nome porta con sé? Ma lasciamo perdere e torniamo al punto. Essere o apparire? Questo è il problema, direbbe Amleto (“C’è del marcio in Danimarca!”) se comparisse nella nostra attuale Danimarca, dove il marcio, ahimè, non manca.

(Il caso Isidori ha suscitato un interessante dibattito fra i commentatori di Cm sul significato della parola “cultura”.  Permettetemi, allora, di aggiungermi a loro. Cos’è, dunque, la cultura? Solo quel più o meno ampio bagaglio di nozioni, fra le quali l’uso corretto della lingua, che si acquisiscono in più o meno lunghi percorsi scolastici? Non solo. Anzi, conosco dei laureati che sono assai meno colti di tanti illetterati. Lo studio serve, ovviamente. E ben venga il diritto allo studio, ben venga l’obbligo scolastico. Ma la parola “cultura” comprende qualcosa di molto più ampio, qualcosa che attiene alla natura dell’uomo come essere raziocinante e pensante, qualcosa che via via si forma in lui per effetto delle proprie esperienze di vita e della capacità di ricondurle a un coerente sistema di valori – la distinzione fra il bene e il male, un’idea della nascita, un’idea della morte, un’idea di bellezza, la fede, gli affetti, il rapporto con gli altri – al quale attenersi e sul quale impostare la propria esistenza. Si pensi alla secolare “cultura” della civiltà contadina – gente non laureata e neanche, un tempo, alfabetizzata – rispetto alla quale tutti noi, specialmente noi maceratesi, dobbiamo sentirci debitori).



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