Quanto vale un piccione? Niente, se vive allo stato brado sui tetti e svolazza qua e là in cerca di briciole. Quattro euro se lo si alleva in campagna per poi venderlo a chi non vede l’ora di mangiarselo ripieno. Mille euro se appartiene all’aristocrazia dei cosiddetti “viaggiatori” che portano messaggi su distanze di centinaia di chilometri. Pure fra i piccioni, dunque, esistono le classi sociali: la proletaria, la media, la ricca. E pure fra i piccioni è proprio quest’ultimo ceto a suscitare le mire dei ladri, come dimostra il furto di ben 750 piccioni viaggiatori sottratti anni fa a Porto Recanati. Una vicenda, questa, che è tornata d’attualità perché se ne sta occupando il tribunale di Macerata, dove è in corso un processo a carico di un giovane albanese imputato di aver compiuto lui quell’impresa, dalla quale, fatti i conti, si è ricavata – o si sarebbe potuta ricavare – la bellezza di 750 mila euro (leggi l’articolo). E i piccioni? Non si sa, e non si saprà mai, la loro sorte. Non felice, suppongo, a meno che non siano riusciti a scappare e a tornare, da viaggiatori quali erano, nelle loro pur lontane colombaie.
Premesso che non c’è una netta differenza razziale fra i piccioni comuni e i piccioni viaggiatori, i quali lo diventano grazie a particolari selezioni e ad addestramenti da parte dei proprietari, la conclusione è che sono tutti piccioni, sia i campioni da mille euro sia gli umilissimi frequentatori da zero euro dei nostri cornicioni. Ecco perché la storia di Porto Recanati mi ha fatto pensare a questi ultimi, che da tempo immemorabile, a Macerata, son chiamati “pistacoppi” (zompettano sulle tegole), e tale definizione si è via via estesa agli esseri umani, tanto che gli abitanti di questa città portano anch’essi l’appellativo di “pistacoppi”. E quando, da Jesi dov’ero nato, i miei si trasferirono a Macerata, gli amici jesini mi prendevano in giro: “Sei diventato un pistacoppo?”. E quando, alle prime armi da giornalista, feci sul Carlino una periodica rubrichetta scherzosa, mi firmavo, per l’appunto, “Il pistacoppo”.
Un nomignolo, questo, che resiste nell’immaginario popolare e di tanto in tanto fa la sua comparsa pubblica negli sfottò della rivalità sportiva, specie calcistica, allorché si disputa il derby fra la Maceratese (i “pistacoppi”) e la Civitanovese (i “pesciaroli”), ma che, stranamente, non ha avuto gran successo a livello per così dire artistico o letterario. Si pensi a Mario Affede, il più celebrato dei poeti vernacolari, che a cavallo fra l’Ottocento e il Novecento si occupò del carattere dei propri concittadini ma non li definì mai “pistacoppi” e prendendosi gioco della loro spaccona parsimonia preferì chiamarli “vrugnulù” (da un unico osso di prugna si dicevano capaci di costruire quattro tavoli e, col legno avanzato , un confessionale), e si pensi al grande incisore Luigi Bartolini, nelle cui opere non compaiono “pistacoppi” ma semmai “pistacoppe”, cioè le procaci lavandaie di Fonte Maggiore.
E allora, prendendo spunto dal fatto di Porto Recanati e dando sfogo alla più paradossale dalle fantasie, immagino che 750 “pistacoppi” abbiano deciso di passare alla superiore categoria dei “viaggiatori” e dopo duri allenamenti di andata e ritorno dal centro storico di Macerata alle rive del Chienti e del Potenza si siano lanciati in volo verso il litorale adriatico, notoriamente più portato agli agi del lusso, per riscattarsi con ciò dal ceto dei proletari ed entrare a far parte di quello dei ricchi (la loro meta, a mio avviso, era Civitanova, e purtroppo sono stati bloccati dal furto, ma si sa che gl’impeti rivoluzionari non sono privi di rischi). E perché questa smania di abbandonare Macerata? Il salto di classe sociale non avrebbero potuto farlo anche qui, trasformandosi in “viaggiatori” e meritandosi oltretutto la gratitudine della gente per la maggior puntualità, rispetto alle poste, nella consegna di lettere e telegrammi?
E qui salta fuori un’altra plausibile ragione per quel loro emigrare, una ragione che non sta più nella lotta di classe ma, invece, nella richiesta di asilo politico. Me ne parla Fernando Pallocchini, cultore delle tradizioni locali e direttore del mensile “La Rucola”, il quale ricorda che intorno agli anni settanta il Comune decise di far guerra ai “pistacoppi”, colpevoli fra l’altro di danneggiare la vernice delle auto coi loro copiosi processi digestivi, e gli scatenò contro un’invasione di corvi, ma gli esiti non furono quelli sperati giacché i “pistacoppi” si batterono con coraggio e pure i corvi, del resto, non difettavano di frequenti deiezioni. Ma la guerra non cessò, passando dai corvi a certe reti e agli spuntoni metallici applicati all’ingresso dei nidi, col risultato che i “pistacoppi” con le ali si resero definitivamente conto di esser divenuti odiosi ai “pistacoppi” coi piedi. Ecco, allora, l’emigrazione, con annessa richiesta di asilo politico. La conferma mi viene dal poeta dialettale Goffredo Giachini, che con un pizzico di malinconia scrive: “Chi adè che martorizza i pistacoppi? / Che jé pijesse un corbo finché core …”. E ancora: “”Sta òrda te saluto, Macerata, / prima che tutti li picciù sderazza / mejo se vaco a ffà ‘na scampagnata. / Ce parìa de sta’ tranquilli / su ‘sta Civita Maria, / ma ogghj comme ogghj, / sarrà mejo a jisse via”.
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Solo per precisare, per rigore letterario riguardo al componimento di Mario Affede, che con “l’osso de vrugna menzanellu” ci si poterono realizzare in prima battuta “un confiscionale”, e “co lo ligno che je ce ‘vvanzo’, ce fece quattro sedie e un credenzo’ !”