Dal primo di agosto l’Adriatico è in fermo pesca e ci resterà per l’intero mese di settembre. Stavolta, dunque, il blocco delle attività ittiche è salito da trenta a sessanta giorni, ma sono anni che nel colmo dell’estate, ossia in piena stagione turistica, quando la popolazione dei centri balneari giunge praticamente al raddoppio, i frequentatori di ristoranti, trattorie e baracchini di spiaggia debbono – o meglio: “dovrebbero” – privarsi di pesce fresco pescato se non quello della piccola cattura sottocosta, che è consentita. Questa è dunque – o meglio: “sarebbe” – la situazione, motivata dall’esigenza di consentire al guizzante popolo del mare di vivere e moltiplicarsi senza correre il rischio di ridursi ai minimi termini o addirittura di estinguersi per l’eccessivo sfruttamento da parte dell’industria ittica. E se è vero, come affermano fonti ufficiali, che negli ultimi tempi il pesce dell’Adriatico è diminuito del cinquanta per cento, siamo in piena emergenza e sarebbe un delitto non adottare misure per invertire o almeno contenere questa tendenza. Ecco allora l’intervento del governo, che quest’anno ha stanziato ventidue milioni di euro sotto forma di indennizzo alle imprese e ha concesso agli equipaggi la cassa integrazione in deroga.
Ma perché ho usato quei condizionali? Perché, contrariamente a quanto logica vorrebbe che fosse nel periodo di fermo, nei nostri ristoranti e nelle nostre pescherie il pesce manca fino a un certo punto. Anzi, diciamo pure che in gran parte dei casi non manca affatto (i menù sono pressappoco gli stessi di tre, sei, nove mesi fa). Come mai? Viene dallo Ionio e dal Tirreno, mi dicono. Ma, allora, durante il fermo in Adriatico la produzione ittica dello Ionio e del Tirreno dovrebbe aumentare a dismisura, la qual cosa significherebbe che per tali mari non esistono esigenze di protezione biologica. E invece esistono, visto che il fermo scatterà anche per loro, sebbene nel solo mese di ottobre. Insomma, c’è qualcosa che non quadra.
Non sarà che a prescindere dal fermo, ossia in tutto l’anno, il pesce dei nostri ristoranti e delle nostre pescherie non viene né dall’Adriatico né dallo Ionio né dal Tirreno ma da altri mari nient’affatto italiani? Non sarà che la suddetta diminuzione del cinquanta per cento in Adriatico non riguarda il pesce vivente sott’acqua ma riguarda il pesce pescato perché pescarlo costa parecchio di più che importarlo? Non sarà che accanto alle motivazioni di carattere biologico il fermo pesca ne ha altre di natura strettamente economica? Non sarà che sopra di noi c’è sempre qualcuno o qualcosa – il dio mercato? – che comanda e, come dice il proverbio, il pesce puzza dalla testa?
Può darsi che queste domande siano dettate da una mia maligna propensione al sospetto e sono pronto a ricredermi. Tuttavia, come diceva Andreotti, a pensar male si fa peccato ma ci s’indovina. Sta di fatto che secondo il settore pesca della Coldiretti ben due terzi del pesce venduto in Italia non è italiano: l’anno scorso nel nostro paese ne sono state commercializzate poco meno di 900mila tonnellate con un giro d’affari di oltre un miliardo di euro, ma solo 280mila provenivano dai nostri mari. Forse perché nei nostri mari il pesce scarseggia? Sarà, ma qui giova ripetere il motto di Andreotti. Tant’è vero che, intervistato da Repubblica, il presidente di Legapesca Ettore Ianni si è espresso come segue: “I nostri pescatori lo porterebbero volentieri a terra, il pesce, ma il problema è che costa troppo e pochi grossisti lo comprano. Insomma, non è concorrenziale con quello importato”. Per cui i più grossi armatori che una volta si dedicavano alla pesca affrontando gli alti costi di natanti ed equipaggi si son trasformati in importatori. Ah, il mercato, il mercato! Beh, non sarebbe la prima volta che fra proverbi e modi dire il mercato ci prende a pesci in faccia, e noi restiamo interdetti e impotenti come pesci fuor d’acqua e non sappiamo che pesci prendere, un po’ addormentati (ma chi dorme non piglia pesci) e fatalisticamente rassegnati alla legge del pesce grosso che mangia il pesce piccolo, .
A questo punto, però, sorge un’altra questione. Ed è che noi consumatori siamo affezionati a certe specie e ci piacerebbe mangiare sogliole, spigole, rombi, cernie, merluzzi, dentici, bianchetti. E se non le troviamo, in pescheria e al ristorante, ci restiamo un po’ male. In che modo, allora, sedurci? Semplice: come dicevo tempo fa a proposito della politica, anche per il pesce basta cambiargli nome, ossia taroccarlo. Così può persino capitare che un certo pesce si chiama “cernia” ma in realtà è “pangasio” e proviene dal Mekong, un altro si chiama “sogliola” ma è “halibut” atlantico, un altro “pesce spada” ma è “squalo smeriglio”, un altro “dentice” ma è “pagro” egiziano, un altro “spigola” ma è “pesce serra” spagnolo, un altro “rombo” ma è “psetta maxima” dell’Islanda, un altro “merluzzo” ma è “pollak” dell’Alaska, un altro “bianchetto” ma è “pesce ghiaccio” cinese. Ah, il mercato, il mercato! Pesce d’aprile? No, di tutto l’anno. Da gennaio a dicembre.
E i sapori? Diversi, ovviamente. Il più delle volte non paragonabili neanche da lontano con quelli dei mari italiani (l’Adriatico, signori, era – e sarebbe – da gastronomia a cinque stelle!). E la freschezza? Con la congelazione e la surgelazione, è proprio il caso di dire vattelappesca. Fra l’altro pare che basti una spalmatina di certi additivi chimici e il pesce diventa brillante come se fosse quasi vivo. E infine, se non per la freschezza, che c’è, ma certo per il sapore, che è, come dire, più pallido o slavato, non si dimentichi il pesce d’allevamento.
Ricordo che un tempo una cena di pesce era l’ambitissimo premio per chi vinceva una difficile scommessa, per esempio, oggi, scommettere su quanto dura Carancini sulla poltrona di sindaco di Macerata. Giusto, perché le sogliole e le spigole dell’Adriatico erano un trionfo per il palato. Adesso questa storia della cena di pesce resiste ma sta diventando un banale modo di dire. I palati, fra l’altro, non sono più esigenti come in passato, quelli degli anziani per un inesorabile appannarsi della memoria e quelli dei giovani perché, non potendo fare confronti con ciò che non conoscono, prendono per buona ogni cosa che passa il convento. Tutti, del resto, siamo governati dalle “magnifiche sorti e progressive” del mercato. Ah, il mercato, il mercato! Ma di questo passo, fra pesce congelato, surgelato, importato, allevato e taroccato, immagino che l’autentico premio per la vincita di una scommessa dovrebbe essere una cena a base di carne in qualche ruspante agriturismo dell’entroterra.
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati
I prezzi dei ristoranti però non sono da pesce congelato…..
Un bell’articolo Dott. Liuti, che fa riflettere e spalancare gli occhi su questa realtà.
Vorrei solo rimarcare, che il fermo pesca – un provvedimento in vigore da diversi anni- nasce non certo per esigenza del ciclo biologico del mare in sè o dovuto al pescato “dei barchetti”, ma perchè anche qui, come per l’agricoltura , c’è stato uno sfruttamento intensivo negli anni da parte dei grandi motopescherecci e per riparare anche a quelle modalità di pesca vietate per legge , ma perpretate in altura, nonchè, per tutto quanto avviene a terra e si riversa in mare.
Segnalo in tal senso, per chi non avesse visto questo interessante documentario -diviso in tre parti – di Roberto Pezzan, la trasmissione di Michele Santoro dedicata all’argomento , dal titolo ” L’assassinio del mare”
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-875a98d3-c067-4ce5-8611-adfca997e07e.html#p=0
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-0cea61c6-1b4d-4591-aa86-2f909218715c.html#p=0
http://www.rai.tv/dl/RaiTV/programmi/media/ContentItem-df80db61-1750-47d9-ad73-ead09feb215b.html#p=0
ma con tutto quello che succede parlare di pesce fresco ….