Pettinari e Capponi,
caratteri a confronto

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capponi-e-pettinari-stretta-di-manodi Giancarlo Liuti

Ora che le pance degli elettori maceratesi hanno ripreso le normali funzioni digestive, vorrei soffermarmi sulle figure di Antonio Pettinari e Franco Capponi, entrambi espressione di una comunità colta e civile com’è quella di Treia, entrambi provenienti da quel grande serbatoio di consenso popolare che per oltre mezzo secolo è stata la democrazia cristiana, entrambi portatori di significative esperienze amministrative e politiche, il primo come vicepresidente della Provincia e segretario regionale dell’Udc, il secondo come sindaco di Treia e presidente della Provincia. Carte in regola, dunque. Anche sul piano del decoro personale.

Comincio da Pettinari e da una sorpresa. Nel tardo pomeriggio di lunedì scorso, quando la sua netta vittoria al ballottaggio era ormai ufficiale, un nutrito gruppo di amici lo attendeva in piazza Cesare Battisti per tributargli la festa di rito e lui è salito sul palco assieme al governatore delle Marche Gian Mario Spacca e al segretario regionale del Pd Palmiro Ucchielli. Allora ho ripensato al suo comportamento in campagna elettorale, che l’aveva visto sfuggire ai “faccia a faccia”, dribblare le domande dei giornalisti, partecipare ai comizi in modo direi defilato lasciando ad altri il compito di parlare o leggendo cose scritte da altri. Questione di carattere, mi dicevano quelli che lo conoscono: molto sensibile al parere di chi gli sta vicino, con una modestia che a volte può apparire timidezza. Ma un comportamento, quello, che pur non mettendo in dubbio le doti di amministratore, dimostrava una vistosa lacuna in fatto di visibilità ed esposizione in pubblico, difetto non trascurabile per un uomo politico. E mi sono detto: “Eppure ha vinto, evidentemente ha fatto centro questo suo essere poco estroverso”.

Poi la sorpresa. Pettinari è improvvisamente esploso. Un quarto d’ora di frasi appassionate, accalorate, d’impeto, ben costruite. Miracolo? Allora ho capito. Era la spontanea e incontenibile liberazione da qualcosa che nei mesi prima l’aveva mortificato proprio come uomo: l’accusa di essere un traditore, un voltagabbana, un assetato di poltrone. Come uomo, insisto. Perché Pettinari – basta guardarlo negli occhi – è una persona perbene, legata ai valori antichi della civiltà rurale, che tiene in gran conto la parola data e il rispetto degli altri.

Del resto quell’accusa era sì prevedibile, essendo lui stato fino a dieci mesi prima il vicepresidente della giunta Capponi, ma, sul piano individuale, non era fondata, perché (democristiano da sempre, prima con la Dc, poi col Ccd, infine con l’Udc) da un paio d’anni il suo partito s’era progressivamente staccato dal Pdl finendo all’opposizione del governo Berlusconi e aderendo all’alleanza col Pd nelle Marche (e lui, in linea col disegno strategico del leader Casini, aveva condiviso e promosso questa operazione di livello nazionale). Anche Capponi, se vogliamo, proveniva dalla Dc ma nel 2003 aveva aderito a Forza Italia. Tradimento? Nient’affatto. Significherebbe ignorare tutto ciò che è accaduto in Italia a partire dal 1994.

Lunedì pomeriggio, dunque, Pettinari si è rivelato oratore. Incredibile, per me. Che però non avevo riflettuto abbastanza sul significato di riscatto anche morale – per la persona, ripeto – dei 71mila voti (54,55 per cento) che gli avevano tolto quel peso di dosso. Un peso, intendiamoci, del quale un politico più rotto ai colpi bassi elettorali si sarebbe scaricato con tranquilla spavalderia. Quindi una debolezza, la sua? Forse, ma, sul piano umano, un titolo di merito.

Diverso il carattere di Franco Capponi. Più sicuro di sé, più decisionista, meno disposto a farsi condizionare dalle idee altrui, con quell’ottimismo che, magari sbagliando, lo induce ogni volta a una ferma fiducia nella vittoria (fu così per il ricorso al Consiglio di Stato contro l’annullamento delle elezioni del 2009, è stato così anche adesso). Comunque, a parte la poco elegante uscita di lunedì sera, con quell’ormai inutile insistenza nel chiamare Pettinari “il mio vicepresidente”, Capponi ha ottenuto un risultato sicuramente dignitoso, riuscendo, con quasi 60mila voti (45,45 per cento), a portare il proprio schieramento ben al di sopra delle catastrofi registrate in molte altre parti d’Italia. Ora si dirà – c’è da scommetterlo – che la colpa della sua sconfitta risiede in una campagna elettorale condotta – più da Roma che da lui – con toni smodatamente astiosi (i veleni portati qui dai troppi ministri e dai troppi big di partito, con assurdi riferimenti alla mafia, ai delitti politici e agli orientamenti sessuali – sic! – del centrosinistra), ma chi ragiona così non considera il dato fondamentale di questo voto, che è stato il crollo d’immagine di Silvio Berlusconi, logorato da tante vicende giudiziarie e di costume ma ancor più da una concezione padronale della politica che sta mostrando di aver fatto il suo tempo. L’anno scorso, alle elezioni per il sindaco di Macerata , il nome di Fabio Pistarelli, candidato del centrodestra, figurava, nei manifesti, più in piccolo di quello di Berlusconi. Stavolta non è stato così, non poteva essere così. E dappertutto abbiamo visto Capponi, Capponi, Capponi. Che ha affrontato il ballottaggio con la trovata dell’ultima ora di far scomparire perfino i simboli della sua coalizione. Solo il nome suo, come a dire che in lizza c’erano soltanto la propria persona e l’operato – da lui ovviamente ritenuto assai positivo – della propria precedente presidenza. Ma nel Pdl nazionale, regionale e locale si stava già insinuando la sensazione dello sgretolamento del carisma miracolistico di Berlusconi. Ed è questa, in definitiva, la principale causa della sconfitta. Che poi, in campagna elettorale, siano stati scelti – specie nel primo turno, e dovunque in Italia – toni esagitati, è stata una conseguenza, nel Pdl, della fondata paura di perdere e della quasi disperata esigenza di raschiare il barile di ogni pur deplorevole argomento persuasivo. Non una colpa, insomma, ma l’extrema ratio. E Capponi? Non c’entra, se non indirettamente. Per quanto gli è stato possibile, lui ha cercato di battersi sulle questioni reali contattando categorie economiche, associazioni, gruppi sociali. Ma, com’era accaduto a Giulio Silenzi due anni fa, stavolta aveva il vento contro. Un vento che soffiava forte, da Milano a Napoli. E, dimenticando la ferita del tradimento, bene ha fatto, Pettinari, a concedergli l’onore delle armi.



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