I sapori e gli odori
dei piatti di una volta

Le quattrocento ricette di Vincenzo Perini dove il primato non va alle spezie esotiche ma ai più familiari aromi dell’orto
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liuti giancarlodi Giancarlo Liuti

Mentre l’‘espressione che più d’ogni altra riguarda gli effetti della crisi economica è “stringere la cinghia”, dalla televisione, dalla carta stampata e dall’editoria libraria giunge invece l’invito ad allargarla, la cinghia, cioè  a mangiare, mangiare, mangiare.  “La prova del cuoco”,  “Ricette di famiglia”, “In cucina con Vissani, “Cuochi e fiamme”, “I menù di Benedetta”, “Gambero rosso”,  “Alice”, “MasterChef” e un’altra quindicina di canali e programmi tv sono  tutti incentrati  sui piaceri del mettersi a tavola. E il “Corriere della sera”, la “Repubblica”, “L’Espresso”, “Panorama” e tanta altra carta stampata non fanno che spronarci a commettere il peccato di gola – uno dei sette vizi capitali – suggerendo ristoranti, trattorie, menù e pietanze di garantita prelibatezza. E i libri? Sono ormai anni che con “Cotto e mangiato”, “Benvenuti nella mia cucina” e “Mettiamoci a cucinare” la garrula Benedetta Parodi  insidia il pur ferratissimo romanziere Andrea Camilleri nelle classifiche dei libri maggiormente venduti. E Antonella Clerici non le è da meno col suo “Le ricette della prova del cuoco”.  Ha ragione il comico Maurizio Crozza quando dice che all’epoca della “pornografia” è seguita l’epoca della “fornografia”. Stringere la cinghia? Nient’affatto.  Ormai, buco dopo buco, la cinghia non ce la fa più a contenere le nostre pance. Bisognerà sostituirla con le bretelle.

Ma non è di questo che oggi intendo parlare, giacché i tempi sono quelli che sono – confusi, disorientati, bugiardi, contraddittori, futilmente rabbiosi, rabbiosamente futili – e bisogna prenderne atto. Fino a un anno fa, per esempio, l’intramontabile Silvio andava dicendo che i ristoranti erano pieni  e lì  stava la prova che da noi la crisi economica era una finzione perfidamente orchestrata dalla Merkel  e da Sarkozy.  No,  oggi voglio parlare di un’altra cosa: la qualità. Mangiare? D’accordo. Anch’io, del resto, credo che una buona cena fra amici sia capace di far dimenticare le angustie e gli affanni. Ma cosa mangiamo? E di che sapore? Ecco il punto.

Non sono un esperto di arte culinaria ma mi ha colpito che nei programmi tv, nei quotidiani, nei settimanali e nei libri si stiano facendo largo le spezie e in particolare la paprika, il curry, il cumino, il coriandolo, il cardamomo, l’aneto, il rafano, la curcuma, lo zenzero. Odori forti, in gran parte provenienti dall’Asia. Come mai? Il  sospetto è che le materie prime – il pesce, la carne, le uova, le patate– non sono più quelle di una volta perché, prodotte in allevamenti artificiali, contaminate da fertilizzanti e additivi chimici, surgelate o importate da lontanissimi lidi, hanno perso il loro naturale sapore, ne hanno troppo poco o ne hanno uno diverso. Ecco allora il bisogno di odori forti che aggiungano sapore laddove esso non c’è o mascherino un sapore che altrimenti non sarebbe gradevole.  La questione, insomma, è che l’agnello non sa abbastanza d’agnello , il pesce non sa abbastanza di pesce, l’uovo non sa abbastanza di uovo, la patata non sa abbastanza di patata. E allora? Si mantenga il nome – agnello, pesce, uovo, patata – ma, con la scusa dell’innovazione, lo si  usi per nascondere la chirurgia estetica che c’è sotto.

E qui vengo, finalmente, alla mia “domenica”  di oggi. Che è dedicata a una persona scomparsa dodici anni fa : Vincenzo Perini, civitanovese puro sangue, esponente della Dc, vicesindaco ai tempi di Rodolfo Tambroni e poi segretario provinciale del partito. Che c’entra tutto questo? C’entra nel senso che la politica, per lui, non è stata una ragione di vita ma una serie di occasioni che gli son capitate e alle quali si è non dico rassegnato ma, pur di buon grado, adattato. Si ricorderà che negli anni sessanta i democristiani erano sarcasticamente definiti  “forchettoni” per i loro appetiti di potere. Ebbene, Vincenzo Perini  non fu  un “forchettone”, ma, piuttosto, una “forchetta”, cioè una “buona forchetta”, in quanto la sua vera passione non stava nella politica ma nella gastronomia intesa come ricerca storica, documentazione, insegnamento e, lui stesso ai fornelli  e a tavola, sperimentazione. Ne fa fede, ora, la “Antologia della cucina marchigiana, le ricette di Vincenzo Perini” che, a cura di Ugo Bellesi, delegato maceratese dell’Accademia della cucina, è un omaggio alla sua opera come sostenitore delle tradizioni culinarie della nostra cultura contadina e marinara.

Solo ricette? No, Perini ha lasciato – scritto a penna, con la biro – un intero libro diviso per capitoli  (antipasti, primi piatti, arrosti, fritti, funghi, tartufi, brodi, dolci eccetera eccetera) che comprendono circa quattrocento ricette, e ogni capitolo è preceduto da riferimenti storici, aneddoti, curiosità, considerazioni personali, battute di spirito. Un libro che avrebbe voluto pubblicare, se il destino gliene avesse dato il tempo, e che adesso vede la luce per iniziativa del sodalizio del  quale lui fu delegato provinciale e coordinatore regionale. Un libro che non è in vendita, ma può essere consultato e preso in prestito nelle biblioteche pubbliche.

Un altro libro di cucina, dunque. L’ennesimo. Ma in controtendenza rispetto agli altri che ho citato all’inizio. E non solo per certi nomi di piatti che fanno tornare alla mente e al palato la gioventù di chi non è più giovane (“riso curgo”, “potacchio”, “frittata rognosa”, “arrosto rencoato”, “tagliulì pilusi”, “fricantò”, “pistinco”, “misticanza”), e non solo per la costante presenza, fra i condimenti, del  lardo, ma per una circostanza che quasi simbolicamente separa l’attuale gastronomia televisiva e giornalistica, dove trionfano le spezie esotiche, da quella di Perini, in cui lo scettro va invece ai più miti, domestici e familiari aromi dell’orto. Niente paprika, curry, coriandolo, cumino, cardamomo, aneto, rafano, zenzero, ma salvia, maggiorana, noce moscata, cannella, alloro, finocchio selvatico, chiodi di garofano. Lui, insomma, non aveva bisogno di nascondere i sapori. E le materie prime che pazientemente cercava e indicava erano – o ancora sperava che fossero – genuine perché venivano  dai pascoli, dalle ghiande, dalle galline sull’aia, dalle reti gettate nell’Adriatico. Tornare a quei tempi? Illusione, specie si pensiamo al livello medio di ristoranti, trattorie  e agriturismi. Ma eseguire queste ricette non è difficile, la mano di “Vincé” funziona da guida sicura. Nostalgia? Può darsi. Ma la nostalgia, a volte, aiuta a intravedere un futuro migliore.



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