Per tornare su un tema che ultimamente ha suscitato un certo interesse, cioè le differenze “caratteriali” fra gli autentici maceratesi e gli autentici civitanovesi (leggi l’articolo), vorrei citare due proverbi: “Chi troppo in alto sal cade sovente precipitevolissimevolmente” (attenti a non esagerare) e “Chi non risica non rosica” (senza rischiare non si ottiene nulla). Nel primo si riflettono la prudenza, l’accortezza e la pazienza della civiltà contadina, tipica dei maceratesi, mentre il secondo, che allude al rischio, alla sfida e all’audacia della civiltà marinara, è tipico dei civitanovesi (non a caso l’origine seicentesca di “chi non risica non rosica” è livornese, fra i pescatori del Tirreno). In entrambi i proverbi c’è del giusto, a patto che li si segua senza esasperarne l’ammonimento. E non ha senso considerarli incompatibili fra loro, giacché riguardano entrambi un pur diverso modo d’intendere l’esistenza, quell’esistenza che, in fondo, è uguale per ogni essere umano: nascere, vivere, vivere, vivere, morire. E ancor meno ha senso se si tenta, com’è accaduto per via di recenti e stravaganti esternazioni di un personaggio politico del litorale, di trarne motivo di competizione con Macerata. Ogni città deve sì competere, ma con se stessa, cercando di migliorarsi e di raggiungere il massimo equilibrio possibile tra innovazione e stabilità, tra la visione del futuro e la coscienza del passato. Altrimenti c’è il pericolo di “cadere precipitevolissimevolmente” (l’ingorgo d’auto causato, a Civitanova, dal centro commerciale “Cuore Adriatico” rimanda forse a “chi troppo in alto sal”, oltretutto su scale di cemento) oppure, all’opposto, di non “rosicare” nulla.
LA SALA DEI CATENATI – Una delle tredici sale di Arte antica dei Musei Civici di Palazzo Buonaccorsi a Macerata è dedicata alla storia dell’Accademia
Cambiando – ma non del tutto – discorso, vorrei ora parlare dell’Accademia dei Catenati, che nacque a Macerata verso la fine del Cinquecento – è ancora viva e vegeta– allo scopo di promuovere studi letterari, artistici, storici, giuridici e linguistici.
Perché “Catenati”? Denominazione bizzarra, questa, che si riferiva ai legami fra il cielo e la terra. Ma a quei tempi, in Italia, molte altre Accademie avevano nomi bizzarri: gli “Umidi, “gli Intronati”, “gli Infarinati”, gli “Insensati”, i “Rozzi”, gli “Acerbi”. Bene. E chi aderiva ai “Catenati”? Gli esponenti della classe dirigente – il “potere” – di allora, in gran parte formata da nobili, che per posizione sociale e risorse economiche potevano concedersi il privilegio di farsi un’ampia cultura. E in che modo se la facevano? Studiando, scrivendo, entrando in contatto, e ospitandoli, con letterati più illustri di loro, fra i quali Torquato Tasso. Ma oggi voglio soffermarmi su un particolare: i piccoli quadri – detti “imprese” – in cui ogni “Catenato” illustrava il proprio carattere e le proprie inclinazioni.
Di queste “imprese”, tutte del Seicento, ne sono rimaste ventitré, che l’Accademia ha gelosamente conservato, e, col contributo del “Rotary”, restaurato, dopodiché, entrate a far parte della collezione d’arte della biblioteca “Mozzi e Borgetti”, ora occupano una delle tredici sale del piano nobile di Palazzo Buonaccorsi riportate al loro splendore – questa sì, un’autentica “impresa” – dal Comune. Superfluo elencare i loro cognomi, ma va detto che alcuni – Acquaticci, Adriani, Antonelli, Compagnoni, Giardini, Lazzarini, Marchetti, Perugini, Silvestri, Ulissi – sono tuttora presenti in città, dimostrando la persistenza, a Macerata più che altrove, di remote e incrociate radici familiari.
Andateci, al “nuovo” Buonaccorsi, e sostate in questa sala, non tanto per ammirare la qualità pittorica delle “imprese”, che non è straordinaria, ma per riflettere – e qui riprendo il discorso iniziale – sull’indole atavica dei maceratesi, sul loro non vantarsi, non mettersi in mostra, fuggire i clamori, restare appartati, un po’ chiusi in se stessi. Un apparente “non risica”, insomma, che tuttavia non impedì a quella classe dirigente di affidare nel 1769 al Bibbiena il teatro poi intitolato a “Lauro Rossi” e nel 1827 – i “cento consorti” – di far progettare all’Aleandri l’arena dello Sferisterio. E non è un “risica” (sostanziosi investimenti in denaro privato) a favore della cultura e della bellezza? Certamente lo è, ma senza far chiasso, col passo secondo la gamba, quasi scusandosi di aver forzato il destino.
Tornando alle “imprese”, esse si presentano come “stemmi” che simboleggiano personalissimi ideali di vita. Non mancano gli irruenti o gli spavaldi, tipo Bernardino Adriani (soprannominatosi “Ardito”), Francesco Narducci (“Violento”) e Amico Ricci (“Infervorato”), ma sono in netta minoranza, giacché prevalgono i modesti, i riservati, i prudenti, quelli che avevano impressa nell’animo – tramandata fino ai giorni nostri – l’indole vera di Macerata. Giulio Acquaticci si definiva il “Custodito”, Giulio Antonelli il “Raffrenato”, Pietro Stefano Censi il “Ritenuto”, Francesco Adriani l’ “Imperfetto”, Evandro Aurispa l’ “Angustiato”, Luigi Bonaccorsi il “Macerato” (logorato, estenuato), Vincenzo Cassini l’ “Agitato”, Giuseppe Ciccolini l’ “Indifferente”, Pompeo Compagnoni l’ “Avvinto”, Francesco Maria Ercolani il “Ristretto”, Antonio Pompeo Gaucci il “Difeso”, Angelo Giardini l’ “Egro” (triste, malinconico), Francesco Maria Lazzarini lo “Smemorato”, Francesco Silvestri il ”Docile”, Filippo Troili l’ “Affidato”, Bernardino Ulissi l’ “Obbligato”. Oggi si dice che Macerata “non vola alto”. Può darsi, ma anche quattro secoli fa, se ci fidiamo di questa sfilza di autodefinizioni, il suo volo non superava le nubi. Vien da sorridere? Anche. Ma i membri di un’eventuale e improbabile Accademia seicentesca di Civitanova – audacia della civiltà marinara – avrebbero scelto, forse, appellativi meno schivi.
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