Il giallo di Sarnano
La verità non è un film

La ricostruzione di un giornalista

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La baronessa Jeannette Rothschild

di Giancarlo Liuti

Se dopo sessant’anni si riesuma il cadavere del bandito Giuliano nel sospetto che il vero lui sia ancora vivo, non deve sorprendere l’idea di riaprire, in un documentario, il caso della morte della baronessa Jeannette Rothschild e della sua governante Gabriella Guerin avvenuta trent’anni fa sui monti di Sarnano. E rispuntano le ipotesi verosimili o inverosimili che allora contribuirono a fare di questa vicenda un intricatissimo giallo internazionale con dentro ogni possibile elemento della più nera cronaca nera: gli oscuri rapporti di Jeannette con dei criminali dediti al traffico clandestino di opere d’arte, certi suoi segreti legami con la Casa Christie’s, il riferimento alla Banda della Magliana e perfino alla figura del banchiere Roberto Calvi, ucciso nel 1982 a Londra e impiccato sotto un ponte del Tamigi. Insomma, come s’usa dire per Gesù Cristo, sembra assurdo che Jeannette e Gabriella siano morte di freddo. E a sostegno di questa tesi c’è anche una dichiarazione giudiziaria del 1989 nella quale si parla di duplice omicidio premeditato ad opera di ignoti.

Di questa storia mi occupai molto, come giornalista, sin dalla scomparsa delle due donne da Sarnano la sera del 29 novembre 1980 e, successivamente, da quando, nella primavera inoltrata di un anno più tardi, un cacciatore di cinghiali ne trovò gli scheletri semisepolti dalla vegetazione in un boschetto del lungo e ripido declivio che dai Piani di Ragnolo giunge alla zona del lago di Fiastra. E da modesto osservatore dei fatti mi parve che la verità fosse molto più semplice e, se vogliamo, più banale: Jeannette e Gabriella erano morte proprio di freddo.

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Esse stavano trascorrendo una vacanza a Sarnano, dove Jeannette, che come tanti inglesi amava quei posti, s’interessava anche agli oggetti d’antiquariato – roba modesta, intendiamoci – che era possibile trovare nei dintorni. Quella sera salirono in macchina e presero la strada di Sassotetto incuranti delle cattivo tempo. Per quale ragione lo fecero? Non si è mai saputo. Un appuntamento d’affari? Chissà. Un’avventura amorosa? Chissà. Un salto ad Acquacanina o a Bolognola in caccia, poniamo, di una vecchia cassapanca? Chissà. Poi cominciò a nevicare. Forte. E la loro auto si bloccò. Nessuno le cercò, visto che lì, quando nevicava, si chiudeva la strada alle due estremità e buonanotte a chi fosse rimasto intrappolato nel mezzo. Una settimana dopo, quando le condizioni meteo lo permisero, un elicottero trovò l’auto semicoperta dalla neve, ma delle due donne nessuna traccia. Ancora più tardi ci si accorse che la porta di una baita era stata sfondata e che, lì dentro, qualcuno – loro? – aveva cercato un po’ di tepore dando fuoco a una sedia. Nient’altro.

Passò più di un anno e, infine, la scoperta del cacciatore. Scheletri scarnificati, probabilmente dai cinghiali o altri animali. Ma senza dubbio si trattava di Jeannette e di Gabriella, perché su quelle ossa c’erano i loro orologi, i loro gioielli, i brandelli dei loro vestiti. Poi l’autopsia accertò che non c’erano segni di violenza, né da armi da fuoco né da strangolamento. E per quale folle motivo, del resto, un eventuale assassino le avrebbe uccise lì o ne avrebbe trascinato i corpi fin lì? Così, deludendo le aspettative – forse anche le mie – degli amanti del giallo, si delineò quella verità più semplice e magari più banale di cui ho appena detto.

Eccola. La macchina non si muove, né avanti né indietro. Le due donne vi si chiudono dentro, cercano di scaldarsi col motore acceso. Passano le ore. Arriva la luce del mattino. Escono. La neve è alta. Vedono la baita. Basta una spinta, la porta si apre. Entrano. Non c’è niente da mangiare, ma si può far fuoco col legno di una sedia. Un giorno? Due giorni? Tre giorni? Non lo sappiamo. A un certo punto decidono di uscire, tentano una sortita. Avanzano lentamente, con affanno. Cento metri, duecento, un chilometro. Poi – forse è un pomeriggio inoltrato – intravedono, lontane, in fondo al declivio, le luci di Podalla. Cominciano a scendere. Neve alta, ripeto. Cadono, si rialzano, cadono ancora. Ogni passo è un terribile sforzo. Un.chilometro? Due? Più o meno. Vengono sopraffatte dalla fame, dalla fatica, dal freddo, dalla paura. Si accasciano, perdono i sensi. Nella neve si muore così, come nel sonno. Non c’è altro. E mi rendo conto che questa, forse, è la verità, ma non è roba da film.



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