Ancora una verifica
sui posti di potere?

La crisi economica, le concrete ma poche possibilità di affrontarla, la necessità di far fronte comune? Niente, a quanto pare. L’eterna disputa fra le due “storie”, la nuova e la vecchia

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liuti-giancarlodi Giancarlo Liuti

Dopo il brutto colpo in consiglio comunale sull’aumento dell’Imu per le seconde case, il sindaco Carancini ha dichiarato di non essere disposto a tirare a campare fra le continue insidie della sua ipotetica maggioranza e ha chiesto una “verifica” che stabilisca se questa maggioranza è reale e non, come si nota da oltre due anni, meramente virtuale. La risposta gli è venuta dalle componenti più critiche nei suoi confronti, ossia dall’Italia dei valori e dai Comunisti italiani, che hanno confermato la loro intenzione di rimanere nello schieramento di centrosinistra, ma, hanno precisato, “ciò non significa dire sempre sì a prescindere” (in verità, e da parecchio tempo, il loro “sì a prescindere” non viene quasi mai). Oltreché da Pensare Macerata,  Federazione della sinistra e Verdi, il ritocco dell’Imu è stato inutilmente approvato dal gruppo del Pd, ma con l’eccezione di Luigi Carelli che si è assentato dall’aula prima di votare e chissà se soltanto per un suo tormento di coscienza oppure , visto che la sorte di quella delibera poteva dipendere da un voto in più o in meno, per qualcosa di più strategico. Su un fatto, comunque, non possono esservi dubbi:  fin dal suo nascere, la maggioranza che dovrebbe sostenere la giunta Carancini è solo virtuale – anzi, spesso non è neanche virtuale – e questa perdurante situazione di “quasi crisi” ostacola (impedisce?) il buon governo della città.

Ragioni? Torti? Ce ne sono e su ogni versante: sindaco, giunta, consiglio, forze politiche. E vengono da lontano:  anzitutto dalla circostanza che il Pd non è ancora riuscito a diventare un vero “partito nuovo” ma rimane il frutto di problematiche nozze fra l’ex Margherita e gli ex Ds, poi dalla mal tollerata discontinuità fra la “nuova storia” di Carancini e la “vecchia storia” delle precedenti amministrazioni Meschini, poi da duri contrasti sull’urbanistica, poi dalla delusione di chi ambiva a certi incarichi e non li ha avuti, poi dal comportarsi – sindaco, giunta, consiglio, forze politiche – come un frammentato arcipelago nel quale ogni isolotto diffida dell’altro e approfitta di qualsiasi occasione per proclamare una sorta di sua propria e aggressiva identità ( però attenzione: i sindaci sono nominati direttamente dal popolo e non, come accadeva una volta, dal consiglio comunale, e questo avrà pure un po’ d’importanza).

Eccolo, diranno i soliti propugnatori del “tutti a casa”: difende Carancini. So bene che con loro è pressoché impossibile ragionare, ma  la stessa posizione di oggi la terrei anche se il sindaco fosse Fabio Pistarelli e lo schieramento di centrodestra  gli creasse problemi pressoché quotidiani. E la tenni pure negli anni novanta, quando Anna Menghi, eletta sindaco del centrodestra, fu dissennatamente sfiduciata dai suoi. Stavolta, poi, c’è qualcosa di più. E sta nel fatto che Romano Carancini è diventato sindaco in virtù di un lungo percorso di consacrazione democratica:  dapprima con due “primarie” di coalizione, entrambe vinte su Massimiliano Bianchini, e infine con due voti popolari (primo turno e ballottaggio) che lo videro superare Pistarelli. E, visto che piaccia o non piaccia siamo ancora in democrazia, non capisco da cos’altro possa venire una piena e forte legittimazione a governare se non da un così ripetuto responso delle urne. Un responso che, certo, passerebbe in secondo piano se una giunta in carica incappasse in scandali, inchieste della magistratura, arresti, dimissioni a catena o addirittura nel ricovero del sindaco in clinica psichiatrica per un improvviso accesso di pazzia. Ma di tali evenienze non vedo neanche la più pallida ombra. E allora il voto popolare continua ad essere una sentenza da cui non è dato prescindere. Accade, purtroppo, che per una considerevole porzione del centrosinistra tutto questo, ora, non conti nulla, la qual cosa sarebbe sorprendente. Ma di che sorprendersi, oggigiorno, in tema di politica e di chi la fa?

Veniamo al dunque. Le ipotesi sono due: si stacchi la spina e si torni al voto, oppure si faccia una verifica seria – non la commediola tragicomica di due estati fa – e si giunga a un’intesa fattiva, duratura, tempestiva nello spiegare alla pubblica opinione le difficoltà di bilancio e consapevole delle responsabilità che derivano da quel quadruplice voto. Continuare invece con un tira e molla che logora gli uni e gli altri, si nutre di reciproche diffidenze e genera lentezze, sospetti, ambiguità ed errori significa soltanto una cosa: perdere di vista il “bene comune” e tradire i veri interessi della città che oggi, sotto i colpi di una drammatica congiuntura economica, dovrebbero figurare al primissimo posto per coloro ai quali è stato affidato l’alto compito di interpretarli, quegli interessi, rappresentarli e gestirli. Il che, se non avviene, giustifica la disaffezione e perfino la nausea di larghi strati dell’opinione pubblica. Tutto qui. Difendo dunque Carancini? Via, siate onesti. Nel mio piccolo cerco di difendere un’altra persona: Macerata.

Questa ulteriore verifica è già iniziata con un confronto tra il sindaco e i ben sette gruppi che dovrebbero sostenerlo e dei quali – aggiungo – lui dovrebbe comportarsi in modo da meritare il sostegno. Che cosa la gente ha il diritto di aspettarsi da un simile chiarimento sul presente e sul futuro di Macerata? In primo luogo, immagino, una presa d’atto dei colpi della crisi economica e delle effettive disponibilità finanziarie del Comune dopo i severi  tagli della “spending review”, compreso il prezzo da pagare anche in termini occupazionali all’eventuale ma probabilissima abolizione degli uffici provinciali. Poi un riesame delle priorità d’intervento che la straordinaria crudezza della realtà impone all’azione amministrativa. Inoltre la strenua ricerca di un’intesa – una sintesi politica e programmatica – fra le forze di maggioranza, un’intesa che sarebbe logica anche in tempi di vacche grasse ma che oggi, con vacche magrissime se non addirittura scheletriche, diviene ancor più doverosa. E non, si badi bene, per salvare la faccia del centrosinistra, la qual cosa non sta al vertice delle mie preoccupazioni, ma per delineare un percorso civico che tenga conto delle impietose durezze della crisi e, prospettandole con franchezza alla cittadinanza, eviti la demagogia dei sogni impossibili e tracci le vie per affrontarle e contenerne – faticosamente, con sacrifici – gli effetti.

Tutto ciò si sarebbe dovuto fare, con lungimiranza, anche nella verifica dell’anno scorso. Ma non fu fatto (ricordate quell’astioso documento in cui si parlava soltanto di un rimpasto di giunta?). A maggior ragione bisogna farlo adesso, quando la stretta dei tempi è divenuta molto più pressante.  Il nuovo segretario del Pd, Paolo Micozzi, ha detto che intende operare affinché nel partito si realizzi una leale comunanza d’intenti nel sostenere la giunta Carancini e quest’ultima non si chiuda in se stessa evitando un costante e necessario rapporto di collaborazione col partito. Impresa non facile, se si considera che proprio su questo l’ex segretario Bruno Mandrelli  ha dovuto issare la bandiera bianca della resa. Auguri, dunque, a Micozzi. Ma la nuova verifica, apertasi l’altro giorno, non ha lasciato emergere segnali confortanti, se è vero che dalla solita nebulosità di lamentele assai generiche è filtrata una sola proposta concreta: sostituire qualche assessore e rimettere in gioco gli organigrammi delle aziende partecipate. Siamo insomma alle solite: posti, incarichi, poltrone. Ma se questo ha da essere ciò che passa il convento, la città deve rassegnarsi ad altri mesi – o anni – di stucchevoli e paralizzanti baruffe tra giunta, gruppi consiliari, partiti e liste civiche che compongono – o scompongono – una così slabbrata maggioranza virtuale. Inutile prendersela, poi, con l’antipolitica. Una brutta bestia, d’accordo. Ma è l’altra faccia della politica.



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