di Giancarlo Liuti
Macerata gode – o soffre, chissà – di un sentimento della vita che si perpetua giorno per giorno nel considerare la realtà col fatalismo di chi non la ama e al tempo stesso è convinto dell’impossibilità di cambiarla, il che le consente – o le impone, chissà – di sottrarsi alle avventure dell’utopia. La si può definire una città sorretta – o frenata, chissà – dal quieto conformismo delle abitudini e più incline a rimpiangere il passato (non a caso resiste in lei il fragile mito dell’isola felice di una volta) che ad affrontare gli azzardi del futuro. Una virtù, questa, o un vizio? Chissà.
Eppure, negli anni venti e trenta del Novecento essa è stata incredibilmente scossa da un impeto di dissacrazione contro i modi correnti di fare arte, musica, poesia e letteratura, e contro il linguaggio, l’abbigliamento, perfino la gastronomia. E ciò per effetto di un fulmine che piombato sulla Torre di Piazza e poi entrato nei vicoli e nelle cantine chiamò a raccolta giovani artisti, musicisti e poeti con la voglia di cambiare tutto: forme, colori, suoni, gesti e parole secondo un’dea di radicale rivolgimento. Un impeto di rivolta “antipassatista” che per Macerata non era mai stato naturale prima di allora e non lo sarebbe più stato dopo di allora. Fu il cosiddetto “Secondo Futurismo”, che rese Macerata protagonista oltre i propri confini e, grazie alla militanza artistica e culturale di alcuni suoi figli, le affidò un ruolo di avanguardia a livello nazionale.
I nomi: Ivo Pannaggi, Sante Monachesi, Umberto Peschi , Wladimiro Tulli, Giuseppe Mainini e altri, ai quali si unì, da leader, Bruno Tano, che non era maceratese ma, giovanissimo, lo divenne e lo rimase fino alla morte. E più tardi, per circostanze occasionali ma non disgiunte da una sorta di misteriosa affinità elettiva, un po’ maceratese lo diventò anche Tullio Crali, uno dei maggiori esponenti, con Gerardo Dottori, di quella linea estetica che nel segno delle eliche conquistatrici del cielo (Pannaggi prediligeva la scatenata irruenza delle locomotive e delle motociclette) prese il nome di “aeropittura”. Non Monachesi, adesso, ma tutti riposano nel cimitero di Macerata. E viene quasi da fantasticare che i loro spiriti si diano convegno, la notte, per ricordarci che l’anima di questa città nasconde energie sopite e latenti ma capaci – magari raramente, per un improvviso soprassalto degli astri – di esplodere in una loro prepotente vitalità. Da “passatista” com’è scritto nel suo destino, insomma, Macerata si tramutò, di colpo e per lo spazio di una stagione, in “futurista”.
E’ superfluo, qui, parlare del manifesto lanciato da Filippo Tommaso Marinetti nel 1909 come rifiuto dei costumi accademici allo scavalco del secolo (“Esaltiamo il movimento aggressivo, l’insonnia febbrile, il passo di corsa, il salto mortale, lo schiaffo, il pugno, il gesto distruttore, le idee per cui si muore, non c’è bellezza se non nella lotta, la guerra è la sola igiene del mondo”) che si diffuse in Europa, in qualche misura preparando il terreno, in Russia, alla Rivoluzione di Ottobre e più direttamente, in Italia, all’avvento del Fascismo. Non è questa, ovviamente, la sede per discutere di un fenomeno a tal punto complesso e contraddittorio. Sarebbe semmai interessante riflettere su certi tratti che accomunano la carica ribellistica del Futurismo a quella del Sessantotto e, oggi, a quella del Cinque Stelle, tratti che stanno nell’adesione in prevalenza di giovani e nella mancanza di organiche prospettive politiche (“Abbasso il chiaro di luna!”, tuonava, poeticamente, Marinetti, “Siamo realisti, vogliamo l’impossibile!” proclamavano, immaginifici, gli slogan del Maggio di Parigi, mentre oggi, con un drammatico scadimento del gusto, la parola d’ordine di Beppe Grillo si riduce a un triviale “vaffanculo!”).
Ripeto quei nomi: Pannaggi, Monachesi, Peschi, Tulli, Mainini. E, maceratese di adozione, Bruno Tano. E, maceratese per consuetudini familiari,Tullio Crali. Pochi giorni fa di Tulli è stato celebrato il decennale dalla morte con l’adesione di pubbliche istituzioni e una calorosa partecipazione popolare (leggi l’articolo). Giustissimo. Ma qui vorrei dire che Macerata deve qualcosa anche a Tullio Crali, alla sua statura d’artista e alla sua pur acquisita ed episodica “maceratesità”. Una tomba non basta, mi piacerebbe che la città ci mettesse dei fiori, ossia iniziative culturali che non senza una punta d’orgoglio per le memorie locali gli rendessero omaggio. Nove anni fa c’è stata una mostra delle sue opere nella Quadreria Blarasin, con presentazione, in catalogo, di Alvaro Valentini. Poi, ma anche prima, nient’altro. Così ne ho voluto sapere di più e mi sono affidato alla cortese disponibilità di Anna Crali Bartolozzi, vedova di Massimo, figlio di Tullio, una docente di storia dell’arte che risiede in corso Cavour ed è figlia della notissima modista Cloe, personaggio-bandiera del centro storico di una volta.
Quali e quanti sono stati i contatti con Macerata di Tullio Crali, nato nel 1910 in un piccolo paese del Montenegro e vissuto a Torino, a Parigi, al Cairo e da ultimo a Milano? “Mio suocero – dice la signora Anna – conosceva e stimava Ivo Pannaggi, col quale ebbe non pochi rapporti epistolari. Poi, nel 1943, da ufficiale, trascorse alcuni mesi a Macerata e abitò con la moglie Ada in corso Cairoli, nella ‘casa Pianesi’ che anni dopo sarebbe stata abbattuta per farci l’Archivio di Stato”. Qual era il suo incarico? Dirigere la mimetizzazione delle strutture militari. Ma si dedicò anche alla pittura, realizzando quadri importanti come “Paracadutista”, “Sgancio in caduta”, “Aeropaesaggio iridato”, “Il pilota”. Ricorda lei, sorridendo: “Mia suocera mi parlò pure di un affresco, in cucina, con delle scimmie volanti che le mettevano paura”. Dopo l’8 settembre i Crali lasciarono Macerata, ma vi tornarono più volte per nostalgia di quelle pareti, di quelle stanze che oggi non esistono più. L’anno successivo nacque Massimo e i suoi genitori – Tullio era un giramondo – si spostarono qua e là anche all’estero ma con residenza a Milano.
E Macerata? A riallacciare i rapporti, nel 1974, ci pensò il destino. La signora Anna – la ragazza Bartolozzi, allora – era a Tripoli per svolgere la tesi di laurea in archeologia e a Tripoli si trovava anche il geologo Massimo Crali. Si conobbero, s’innamorarono, si sposarono presto. Ancora Macerata, via Cavour, ma con lo spiritaccio di Tullio: sempre in giro, non solo in Italia, loro con Tullio e Tullio con loro. Anche a Macerata? Certo, a Tullio piaceva. Rapporti con i “futuristi” maceratesi? Il tempo cominciò a non consentirli più: a mano a mano morirono Pannaggi, Monachesi, Peschi e, nel 2000, anche Crali, che per desiderio del figlio e della nuora fu inumato qui. Lui, ora, ha un suo posto nella grande mostra di Forlì sul Novecento italiano e sue opere figurano nelle aste d’arte di New York. Un appello: Macerata non lo dimentichi.
Per poter lasciare o votare un commento devi essere registrato.
Effettua l'accesso oppure registrati
Ancora un eccezionale pezzo sul Bello che meriterebbe di trovare posto in qualche antologia. Bravo Liuti!
Scrisse Peschi di se che, guardando le colonne del dare/avere, era in pari.
Osservazione in perfetta sintonia con l’indole dell’artista: persona semplice ma dal carattere originale così come lo sono le sue opere. Questi personaggi hanno vissuto in prima persona le vicende italiche (la povertà, la guerra, la crescita economica) e dalla provincialità hanno tratto una risorsa.
Sarebbe veramente bello per ognuno di noi, all’epilogo della vita, poter dire di essere “in pari”.
Molto bello, Giancarlo, complimenti.
Bellissimo ed “energico” pezzo. Alla allegra Brigata futurista segnalata da Giancarlo vorrei aggiungere un altro maceratese, defilato, particolare e certamente riconoscibile : Rolando Bravi.