Lauro Costa
«Fino al 2013, Banca Marche era patrimonializzata. Poi, in tre anni ha perso tutto: su tutti quei cantieri e quelle gru arrugginite che si vedono ancora oggi si potevano trovare delle soluzioni. Non si è più data una lira a nessuno e non sono state portate avanti attività per cui la banca era vocata come, per esempio, il recupero crediti». Così Lauro Costa, ex presidente di Banca Marche fino alle dimissioni rassegnate nell’aprile 2013, nel corso del processo per il crac dell’istituto di credito, dove è imputato con altre dodici persone. L’ex presidente ha risposto prima alle domande del pm, poi a quelle dei legali delle parti civili e all’avvocato difensore Giancarlo Nascimbeni. Costa, che ha tenuto a dire di «aver sempre rispettato le regole», ha precisato l’iter che portava il cda a concedere le aperture di linee di credito. Le autorizzazioni avvenivano dopo un iter composto da «sei step, a partire dalla filiale. Se un singolo consigliere mostrava dubbi, la pratica retrocedeva per svolgere ulteriori accertamenti e verifiche. A volte, prima dell’approvazione, le istruttorie tornava indietro anche tre o quattro volte». Costa ha rimarcato la correttezza delle pratiche sia sul piano formale che su quello del rispetto delle procure. Sul periodo del commissariamento: «Bankitalia – ha detto Costa – non ha più accompagnato gli imprenditori» a cui Banca Marche aveva concesso i crediti, pur nel corso della crisi immobiliare, come contestato dalla procura. «Vista dall’esterno, dopo il 2013, la banca era un istituto che non stava facendo più niente». Il deficit si sarebbe accumulato con «la svalutazione dei crediti (poi venduti, ndr) che potevano essere recuperati dall’ufficio legale e dagli accantonamenti spropositati».
(F. Ser.)
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