di Gianluca Ginella
«Capacità criminale elevatissima, disumana insensibilità, condotta fredda e lucida, continui tentativi di depistaggio». Questo dicono i giudici della Corte d’assise di Macerata nella sentenza per l’omicidio di Pamela Mastropietro, con cui hanno condannato, il 29 maggio scorso, il nigeriano Innocent Oseghale all’ergastolo per l’omicidio aggravato dalla violenza sessuale. Una sentenza racchiusa in 54 pagine che sono state stilate nell’arco di sei mesi. I giudici della Corte d’assise, presieduta da Roberto Evangelisti, nella sentenza analizzano a lungo quanto emerso dall’autopsia e dai confronti tra medici legali e tossicologi che si sono svolti nel corso delle udienze. Per i giudici non c’è dubbio che il 30 gennaio 2018 Oseghale, nella sua casa di via Spalato a Macerata, abbia ucciso volontariamente la 18enne. Oseghale, dicono i giudici «abusava delle condizioni di inferiorità, quantomeno sicuramente fisica di Pamela, di cui era ben consapevole, per aver nell’abitazione un frettoloso rapporto non protetto» a cui la ragazza «non aveva acconsentito».
Da quel rapporto sarebbe nato l’omicidio: «l’imputato ragionevolmente per evitare che Pamela, una volta ripresasi, si allontanasse e lo potesse persino denunciare, subito dopo il rapporto le infliggeva le sue coltellate mortali, a distanza di alcuni minuti l’una dall’altra». I giudici definiscono poi le operazioni di depezzamento sul corpo con una condotta di Oseghale «fredda e lucida», «priva di emozioni», «dopo aver appagato il proprio istinto sessuale ed ucciso si allontanava tranquillamente da casa per svolgere il proprio “lavoro” (cedere stupefacente), salvo poi occuparsi, in un secondo momento, di un particolare che a lui doveva sembrare secondario (sbarazzarsi del cadavere di Pamela): freddezza disumana ampiamente dimostrata dalle modalità con cui Oseghale straziava il corpo della ragazza, turbato non dalle operazioni di disarticolazione, depezzamento e decapitazione ma solo infastidito, a suo dire, dall’odore che proveniva dai resti cadaverici». I giudici inoltre hanno bocciato la testimonianza dell’ex collaboratore di giustizia Vincenzo Marino ritenendo tra l’altro non credibile che Oseghale potesse avergli rivelato del delitto. Molto spazio è dedicato ai risultati delle perizie medico legali.
AUTOPSIA – «Operazione di distruzione di altissimo significato indiziario, specificamente concernente la cute interessata dalle due ferite di ingresso del coltello, ritenute mortali, volta ad ostacolare la puntuale ricostruzione della vicenda omicidiaria». Parlano di «un depistaggio accuratamente posto in essere che aveva gli effetti sperati dall’omicida». Un’arma a doppio taglio però perché i giudici ritengono che quelle operazioni giustificano la difficoltà incontrata dai consulenti della procura nello svolgere l’autopsia (e che al processo erano state criticate dalla difesa di Oseghale). Viste queste operazioni di depistaggio «non ha quindi alcun senso sollevare dubbi sulle cause della morte di Pamela solo per la difficoltà di effettuare ulteriori accertamenti in conseguenza delle condotte deliberatamente poste in essere dall’imputato per finalità inquinanti». I giudici sul depezzamento dicono che è stato effettuato «lucidamente, freddamente, con precisione da parte di mano esperta e non attingendo il corpo con coltellate vibrate a caso da parte di persona impaurita ed intenzionata soltanto a sezionare, in tutta fretta, un cadavere da introdurre nelle valigie». Si è trattata «piuttosto di accurata disarticolazione del cadavere, rarissima nella esperienza della medicina legale internazionale, che presuppone l’esatta conoscenza delle zone corporee dove intervenire».
DEPEZZAMENTO E MORTE – L’abilità «mostrata da Oseghale, tutt’altro che persona ingenua, sprovveduta o travolta dagli eventi, consente di escludere che questi abbia intenso soltanto procedere alla disarticolazione del cadavere e che a tale intento possano essere ricondotte le due ferite al fegato». Ferite che secondo i giudici sono «del tutto avulse e incoerenti dall’attività di depezzamento» ma si è trattato di due coltellate inflitte mentre Pamela era viva. Coltellate che hanno provocato «una emorragia acuta secondaria, conseguente a sanguinamento, che provocava l’evento mortale». Una delle ferite, detta C, prova la volontà di uccidere secondo i giudici perché «era prodotta vibrando la coltellata e ruotando o spostamento della lama nella zona attinta».
LE VERSIONI DI OSEGHALE – Si parla di «plurime versioni rese da Oseghale circa lo svolgimento dei fatti e di volta in volta adattate alle esigente difensive ed agli sviluppi investigativi denotanti le inquietanti capacità mimetiche e simulatrici dell’imputato». I giudici aggiungono che Oseghale, che durante il processo è sempre stato assistito da un traduttore, «aveva buona comprensione della lingua italiana», dato che emerge, dicono , dai colloqui in carcere con la compagna italiana. Inoltre, in base anche a quanto prodotto dall’avvocato Andrea Marchiori, che assiste il proprietario della casa dove Oseghale viveva, e che era parte civile al processo, il 30 gennaio 2018 erano in corso controlli al parco di Fontescodella proprio nelle ore in cui Oseghale disse di aver avuto un rapporto sessuale con la 18enne nel sottopassaggio del parco. «E’ inverosimile che nella zona interessata dal massiccio controllo delle forze dell’ordine Oseghale abbia deciso di avere un rapporto sessuale con Pamela». Dichiarazioni che secondo i giudici erano «volte a spostare il luogo dove era avvenuto il rapporto sessuale dall’abitazione al sottopassaggio».
VIOLENZA SESSUALE – Sulla violenza sessuale i giudici si domandano perché mai Pamela avrebbe avuto un rapporto non protetto con Oseghale nonostante avesse con sé dei profilattici. Secondo i giudici Oseghale «abusava della condizione di inferiorità, quantomeno fisica di Pamela, per avere nell’abitazione un frettoloso rapporto non protetto con la ragazza. Secondo i giudici è violenza sessuale avere un rapporto con una persona di inferiorità psichica e tra le condizioni rientrano anche assunzione di droga o alcol, sia che siano state assunte volontariamente o no. Sempre secondo i giudici, in base alla testimonianza del taxista che accompagnò Pamela ai Giardini Diaz e che ha aiutato le indagini, la ragazza era in stato confusionale il 30 gennaio, tanto che «avrebbe voluto condurla alla guardia medica». Il taxista disse «la ragazza parlava a rilento, e pertanto mi è sembrato non fosse nel pieno delle sue facoltà».
I COLLABORATORI – I giudici hanno riservato una parte della sentenza per parlare anche dei collaboratori di giustizia e di Vincenzo Marino in particolare (ex collaboratore). «Da un punto di vista logico risulta inverosimile che l’imputato (che sempre negava pervicacemente l’omicidio e che era approcciato in modo ostile da Marino che lo apostrofava, scagliandogli contro una bottiglia) – dicono i giudici – abbia deciso di confidare tutto ad un collaboratore di giustizia che certamente non era e non appariva persona riservata poiché Marino rivendicava platealmente contatti con magistrati e che ben avrebbe potuto rivelare le ammissioni all’autorità giudiziaria per proprio tornaconto». Inoltre, continuano i giudici, non è comprensibile come Marino possa avere avuto lunghi colloqui con Oseghale «visto che l’amministrazione penitenziaria gli aveva vietato ulteriori incontri» con il nigeriano. E ancora il fatto che Marino riferì che Pamela aveva sulle spalle e sul seno dei nei, non significa niente perché «moltissime persone presentano nei sulle spalle e sul seno» e inoltre «non ne descriveva caratteristiche anomale». Inoltre i giudici aggiungono che Marino, tramite un altro detenuto, Stefano Re, aveva potuto apprendere particolari delle vicende processuali di Oseghale «da utilizzare plausibilmente per accreditarsi presso l’autorità giudiziaria e tornare ad usufruire di quei benefici che gli erano stati revocati».
NIENTE GENERICHE – Sulle attenuanti generiche: «non si ravvisano elementi di segno positivo adeguatamente valorizzabili al fine di concederle laddove si tenga presente che l’imputato vive costantemente con il profitto di attività illecita quale lo spaccio di stupefacenti e che dimostrava capacità criminale elevatissima che connota l’omicidio di inaudita gravità abbinata a totale e disumana insensibilità, evidenziata dalla conduzione dell’attività di smembramento del cadavere, lucidamente protratta per ore». I giudici parlano di «uno scempio bestiale del cadavere».
LE PENE – Ergastolo per l’omicidio aggravato dalla violenza sessuale. A cui si aggiungono 7 anni e sei mei per vilipendio, occultamento e soppressione di cadavere. I giudici hanno applicato a Oseghale (che si trova in carcere a Forlì) anche la pena dell’isolamento diurno per 18 mesi, il massimo possibile. Il procuratore Giovanni Giorgio e il pm Stefania Ciccioli avevano chiesto proprio l’ergastolo per Oseghale nel tirare le somme di una indagine che è stata condotta dai carabinieri del Reparto operativo di Macerata e che ha portato ad una ricostruzione di quanto accaduto partendo dal rinvenimento, il 31 gennaio, di due trolley in viale Dell’Industria a Pollenza.
LA DIFESA – «Faremo appello – dice l’avvocato Simone Matraxia che assiste Oseghale insieme al legale Umberto Gramenzi -, riteniamo la condanna non al di sopra di ogni ragionevole dubbio in particolare per i reati di omicidio e violenza sessuale. Ci auguriamo che la Corte d’assise d’Appello di Ancona abbia il coraggio di sciogliere i dubbi emersi durante la fase dibattimentale, tanto da aver spinto la procura a dare parere favorevole all’espletamento di una nuova perizia medico legale, salvo poi tornare indietro».
Al processo erano parti civili i famigliari di Pamela, assistiti dall’avvocato Marco Valerio Verni, zio della 18enne, il comune di Macerata, tutelato dal legale Carlo Buongarzone, e il proprietario della casa dove viveva il nigeriano, assistito dall’avvocato Andrea Marchiori.
(Ultimo aggiornamento alle 13,25)
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Veramente non ha molto senso affannarsi a fare a pezzi per ore e ore un cadavere, asportando perfino la cute, per depistare le indagini e poi abbandonare i due trolley in bella mostra davanti al cancello di una villa. E’ probabile che senza il tassista che ha aiutato le indagini, indicando il palazzo in via Spalato, le indagini sarebbero state estremamente difficili e Oseghale non poteva immaginare neanche lontanamente l’esistenza del tassista, era convinto di essere insospettabile. E’ probabile che lo scopo del depezzamento non fosse il depistaggio.