di Lucia Tancredi*
La pietà verso i morti è uno degli uffici più sacri ed uno dei più civili. Anche se questa “corrispondenza d’ amorosi sensi” – direbbe Foscolo – serve più ai vivi che ai morti i quali, di sicuro, hanno bisogno di pace e vorrebbero essere lasciati andare accompagnati da pensieri grati e luminosi.
I morti sono inermi, zavorrati dai nostri sensi di colpa, dagli attaccamenti e dal nostro dolore che, spesso, non trova pace. Macerata non trova pace, questo è un fatto. Non riesce a superare il lutto, l’ombra terribile e dolorosa, la colpa di aver covato il Male che, come in una favola gotica, ha fatto a pezzi una ragazzina bella come il sole. Tutto quello che Macerata, con le migliori intenzioni e in buonissima fede, dedica a Pamela Mastropietro è un monito affinché non debba ripetersi, è il memento mori per ricordarci quanto siamo fragili e impotenti, è la rievocazione del suo sacrificio. È la nostra proiezione, ma dov’è Pamela?
Inevitabilmente, ogni cosa che le dedichiamo in questa città è toccato dalla disgrazia, da una bruttezza che rasenta il macabro. Qualcosa da cui si vuole distogliere l’occhio, come il giardinetto in via Spalato coi ceri, i santini, i palloncini, dove nessun bambino giocherà, nessuno siederà ad una panchina, dove i pensieri non possono essere grati e luminosi.
Il 30 gennaio, per ricordare la sua morte, ai Giardini Diaz è stata inaugurata una targa sopra un cippo. Un cippo morto in mezzo a tanti alberi vivi, i quali sono “alberi della memoria”, piantati per ricordare i caduti della guerra, giovani anche loro massacrati da un Male altrettanto bestiale e feroce.
Perché anche Pamela non ha avuto il suo albero, il segno della vita che si rinnova poiché niente muore se si confida in un Bene capace di mettere radici?
La storica panchina circolare è stata dipinta per metà di bianco, dalla parte del cippo, in mezzo a primule bianche.
Si rinnova ancora la simbologia del bianco come colore sacrificale del lutto, delle giovani morti innocenti.
La panchina metà bianca e metà scura crea un contrasto stridente, fantasmatico. I ragazzi non siedono più come prima, chi vuole leggere un libro preferisce la parte scura, pieno di soggezione. Qualche curioso si avvicina, scruta la targa.
Tra breve arriveranno i ceri, i palloncini, i fiori avvolti nel cellophane, quei segni della pietà dei vivi per i morti che, fuori contesto, segnati dalla disgrazia della bruttezza, non danno pace né ai vivi né ai morti.
Nel quartiere Re di Roma, dove Pamela è nata ed ha vissuto gli anni spensierati, invece hanno piantato un ciliegio. Immagino che Pamela sia stata felice, ma anche questa è una mia proiezione. Perché sono io oggi ai Giardini Diaz che non vorrei guardare da un’altra parte e avrei bisogno di un albero vivo per ricordarla. Non il cippo morto ma un ciliegio gemello a Macerata, senza lapidi e senza targhe, un ciliegio da abbracciare: l’albero di Pamela.
Come tutti gli alberi, capace di pensieri grati e luminosi verso gli umani.
*Lucia Tancredi, scrittrice e insegnante
«Pamela, non vogliamo dimenticare Serve una forte presa di coscienza» (FOTO)
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Complimenti per le belle parole che fanno riflettere
Mi piace la proposta di Lucia Tancredi. Un albero è vivo, come viva è la giovane Pamela, non solo nel ricordo dei suoi e di tanti amici. La magistratura dovrà ancora scavare a fondo in un vicenda, che ha tutte le caratteristiche della seguenza di un rituale sacrificale, tipico di riti demoniaci.
Cara Lucia,
a me pare comunque importante che le istituzioni cittadine abbiano fatto qualcosa: il ciliegio – ottima idea – si può sempre piantare, il terreno non scade; non solo ai Giardini Diaz, anche in altri giardini della città (e grazie a Dio ce ne sono molti).
Poi, a me non pare così scadente l’idea di una targa, ossia di parole che dicano, che prendano posizione, che in un certo senso rivendichino alla città la secolare mitezza popolare che la contraddistingue, e alla famiglia di Pamela i sensi di una compiuta solidarietà che peraltro c’è sempre stata, anche se nel segreto delle nostre vite quotidiane, sconvolte sì ma anche resistenti – in quello stesso silenzio luttuoso – a un’onda barbara a noi completamente estranea e straniante.
Voglio dire che non bisogna avere paura delle parole: che anzi esse servono, tanto alla memoria quanto alla formazione civica e umana. Mi sentirei anche io di citare proprio Foscolo, come hai fatto tu, perché è vero: Pamela non ha più bisogno delle nostre targhe. Ma tutti noi che restiamo e che passeremo di là sì. Abbiamo bisogno di ricordarci – dopodomani vicino a un ciliegio bellissimo di cui finiremmo per dimenticare per quale motivo si trova lì – che il più bel ciliegio è la vita. E il rispetto di ogni uomo e di ogni donna che come ciascuno di noi, come me e te, ogni giorno si imbatte in volti che solo in apparenza non gli appartengono; mentre invece fanno parte della stessa grande famiglia.
Proprio noi che abbiamo avuto in sorte dal destino quello di “lavorare le parole” non dobbiamo temerle. Ti pare?
Un abbraccio.
L’idea che la bellezza consista nel suo stesso svanire è raggiungibile dal ciliegio, ma inaccessibile a noi mortali…
Lavorare le parole è un mestiere per pochi eletti, mi piace leggere da sempre quello che scrivono Lucia e Filippo, per me sono dei rari casi di emozione.. Per quanto riguarda Pamela avrei voluto, lo dico senza polemica, leggere qualche parola vera la sera della fiaccolata appena una settimana dopo l’atroce delitto, invece intorno a me ho trovato il silenzio. Ora la targa o i fiori di plastica di via Spalato, incidono poco a mio modesto parere, nel sentire collettivo di questa vicenda, che ha sconvolto l’Italia intera, infatti non ho partecipato a nessuna delle due manifestazioni: nè quella di Carancini nel 2019 nè in questa di Parcaroli. Sarebbe necessario, lo dico da madre, aiutare i nostri giovani a trovare degli spazi di incontro felici dove poter vivere in pieno le loro giovinezze, come avevamo noi, non nel timore dell’incontro con chi vende la morte. Grazie Lucia e grazie Filippo per quanto sapete donare alla nostra comunità in termini di sensibilità e di crescita, non fermate il vostro istinto e il vostro cuore.
E’ importante che qualcosa ci ricordi ciò che è bene sia ricordato, sia esso un albero o una targa. Del resto nel ghetto ebraico di Roma è una targa di marmo a rammentarci la deportazione degli ebrei avvenuta il 16 ottobre del 1943.