Emergency nel cuore del cratere:
«C’è depressione in questi territori
ma anche risorse inimmaginabili»

L'INTERVISTA DELLA SETTIMANA - L'associazione dall’8 marzo è attiva a Tolentino, Caldarola, Camerino, Visso, Muccia e Pieve Torina con l’obiettivo di fornire supporto alla popolazione. Un progetto partito grazie all’autofinanziamento e al protocollo di intesa con l’Area vasta 3. A raccontarlo Giovanna Bianco, psicologa e referente che in dieci mesi, insieme al team, ha aiutato 120 persone per un totale di 800 prestazioni

- caricamento letture

giovanna-bianco

Giovanna Bianco

 

di Federica Nardi

Nei territori colpiti dal sisma non ci sono solo edifici da ricostruire. Con un’equipe formata da una psicologa e psicoterapeuta e da un’infermiera, aiutate dal prezioso lavoro dei volontari dei gruppi locali, Emergency dall’8 marzo è attiva a Tolentino, Caldarola, Camerino, Visso, Muccia e Pieve Torina con l’obiettivo di fornire supporto alla popolazione. Si chiama “Progetto Sisma” è partito grazie all’autofinanziamento di Emergency e al protocollo di intesa con l’Area vasta 3. A raccontarlo Giovanna Bianco, psicologa e referente di progetto che in dieci mesi, insieme al team, ha aiutato 120 persone per un totale di 800 prestazioni. C’è depressione, in questi territori, ma ci sono anche risorse inimmaginabili tra chi lotta e resiste da due anni. Tra le situazioni più gravi da un punto di vista umano, quella dell’area container di Tolentino.

Che tipo di servizio fornite al territorio?

«Ci appoggiamo agli ambulatori dei medici di medicina generale. A Tolentino al Consultorio familiare e a Camerino all’ ospedale. Forniamo assistenza socio-sanitaria, psicologica ed infermieristica, gratuita e ad accesso libero. Metà dei nostri pazienti ha fatto direttamente la richiesta per il supporto psicologico, gli altri invece iniziano il loro percorso tramite una richiesta di valutazione di tipo infermieristica. Ad esempio per controllare i parametri vitali come la glicemia, la pressione arteriosa e il battito cardiaco: tutti indici fisiologici importanti da monitorare in situazioni come quelle riscontrate, che presentano forte stress dovuto alle condizioni in cui si vive, come le scosse continue e i problemi con le SAE (Soluzioni Abitative di Emergenza)».

Una cura di sé che parte dal corpo e arriva alla mente.

«Dal corpo si può partire per raggiungere gradualmente una consapevolezza anche sulle proprie emozioni, in una logica di unità psicosomatica. In contesti di normalità se un anziano per esempio viene a misurarsi la pressione potrebbe non essere significativo. Invece, in questo territorio questi atti assumono una valenza importante, perché l’anziano, così facendo, torna ad avere cura di sé. Dobbiamo ricordarci che molti di questi signori hanno passato circa due anni in albergo sulla costa, lontano dal medico di famiglia. A causa della distanza e delle circostanze dell’emergenza, molti hanno smesso di rivolgersi al medico di propria iniziativa. Per fortuna sappiamo che molti medici hanno raggiunto i loro pazienti, anche sulla costa».

Avete in cura solo anziani?

«No. Le fasce d’età sono tutte ben rappresentate. Per esempio, abbiamo dieci minori che fruiscono dello sportello psicologico. Il range di età più rappresentato è quello fra i 40 e 60 anni insieme agli over 60.
L’86% della popolazione è composta da italiani e il restante da cittadini extracomunitari (soprattutto nell’area container di Tolentino). La maggioranza degli assistiti sono donne».

sae-pieve-torina-2-225x400

Danni all’interno delle casette dopo la scossa del 10 aprile

Quando siete arrivati a marzo, due anni dopo il sisma, che situazione avete trovato?

«Una situazione critica. L’arrivo di Emergency è coinciso con il cosiddetto “controesodo”, quando la popolazione stava rientrando nelle sae. Il primo obiettivo che l’equipe si è posta è stato quello di supportare la popolazione nel rientro e aiutarla nella riappropriazione emotiva dei “propri luoghi”. Quando siamo arrivati c’era una sorta di “fase depressiva”, caratterizzata da una condizione particolare: gli abitanti volevano tornare nei propri luoghi di origine, ma ritornando si riattivava la paura, quella paura che solitamente si manifesta attraverso una attivazione fisica e psichica, propria delle situazioni in cui si è a rischio. A ciò si è sommato l’impatto con la realtà ritrovata palesemente mutata, dove non c’è più la propria casa e quella degli amici, dove mancano i riferimenti comunitari e ambientali ma soprattutto dove mancano “la piazza, la chiesa e i negozi del paese”.
Inoltre le sae, seppur necessarie, snaturano la normale quotidianità: si riesce a malapena a portare qualcosa dei propri ricordi, pochi mobili e pochi vestiti, una quotidianità artefatta. E ancora, la scossa del 10 aprile ha spaventato tutti. Si pensi alla popolazione come ad una gazzella: se il leone -il “terremoto” – la insegue senza mai decelerare, la gazzella avrà sempre meno velocità ed energia e sarà sopraffatta».

Quali sono i sintomi di questo malessere? Come si fa a sapere quando andare a chiedere aiuto psicologico?

«Partiamo da un presupposto: qui le persone sono molto consapevoli e sono abituate a “sentirsi”. La difficoltà può essere in alcuni casi quella di riuscire a formulare una domanda di aiuto e avere un contesto, vicino a sé, in cui poterlo fare. I sintomi riscontrati sono diversi: dai disturbi del sonno (difficoltà ad addormentarsi, risvegli continui o risvegli precoci) al mal di testa, mal di stomaco, disturbi della sfera gastro intestinale, che non corrispondono però a malattie vere e proprie. I bambini possono manifestare comportamenti di iperattività o ipoattività. Alcune sintomatologie si presentano anche nella sfera delle sindromi ansiose: attacchi di panico, crisi d’ansia. È il cuore che inizia a battere forte senza motivo, è la testa che gira. Ma anche su questo c’è consapevolezza. Le persone sanno che di fronte ai vari sintomi sopra descritti, oppure quando si sentono con meno energia e non hanno voglia di alzarsi dal proprio letto e a casa riescono a fare poco, devono attivare un campanello di allarme perché sono condizioni che esprimono situazione di difficoltà e fragilità».

giovanna-bianco-1-325x217

Giovanna Bianco fuori dall’ambulatorio di Pieve Torina

Può fare un esempio?

«Una signora di 85 anni ci ha telefonato per prendere appuntamento dicendo: “lei mi deve aiutare a strecciare la mente”. Era tornata nella sae e non riusciva a programmare la giornata, nemmeno a uscire per fare la spesa, mangiava latte e biscotti. L’anziano che cambia contesto di vita, come è successo a molte persone in questi territori, si disorienta facilmente. Figuriamoci stare due anni in albergo fuori da ogni routine e abitudine quotidiana come fare la spesa, cucinare, ricevere parenti ed amici. La popolazione, quindi, è consapevole del proprio malessere. La differenza è legata alla capacità di chiedere aiuto ma è anche determinata dal livello depressivo in cui si trova la persona stessa. Se sei troppo depresso non ce la fai a chiedere aiuto. E quindi è importante per noi essere dislocati e presenti sul territorio. Non solo nell’ambulatorio, ma anche con un monitoraggio costante delle sae e delle frazioni. Andiamo personalmente ad incontrare le persone, soprattutto la nostra infermiera insieme ai volontari locali. Lo facciamo quasi quotidianamente».

Come si sente chi abita nelle frazioni?

«Spesso chi abita nelle frazioni è rimasto da solo, si sente “vittima non considerata”. Per questo cerchiamo di essere il più possibile vicini, per accogliere le richieste di aiuto, monitorare il territorio e conoscere la popolazione».

Servirebbe attivarsi di più?

«La complessità del contesto di cui stiamo parlando richiederebbe una serie di interventi sanitari, sociali, amministrativi complessi e strutturali. Perché le azioni ci sono ma spesso rischiano di non essere coordinate. Emergency sta funzionando nell’ottica di una attività di rete, in cui l’Area vasta 3 si pone come coordinamento delle varie attività proposte sul territorio dalle varie associazioni presenti. Ad esempio, il Centro di Salute Mentale di Camerino fa un importante lavoro di raccordo delle associazioni che, come noi, operano sul territorio».

Si parla da due anni di aumento del consumo di farmaci ma non si parla mai troppo esplicitamente della depressione che sta colpendo la nostra popolazione. Perché? C’è uno stigma?

«Lo stigma non riguarda solo la parola depressione, ma forse anche tutto quello che ne può conseguire. La depressione rimanda ad aspetti interni che destabilizzano, turbano e preoccupano l’individuo. Forse per questo a volte sembra più facile ed immediato focalizzarsi sul farmaco. Intervenire sugli aspetti depressivi significa avere una progettualità di intervento multifocale e di multilivello, che parte dall’individuo e arriva alla comunità. All’approccio individuale in ambulatorio deve seguire quello comunitario sul contesto in cui la persona vive, e questo spetta anche alle istituzioni, a livello locale, regionale e di indirizzo nazionale».

PieveTorina_Pompieri_Demolizioni_FF-7-325x217

Demolizioni a Pieve Torina

Qual è uno dei problemi più rilevanti?

«Noi ci stiamo preparando a fare un lavoro di accompagnamento, anche fisico, rispetto alla fase della demolizione delle abitazioni inagibili. Vogliamo sostenere e accompagnare la popolazione in questa fase delicata, perché dal punto di vista psicologico sappiamo che vedere demolita la casa dove sei cresciuto o che hai costruito con anni di “sacrifici”, è come vedere una parte di te, del tuo corpo, “morire”. Pertanto vogliamo esserci, anche se sappiamo che l’elaborazione delle perdita sarà complessa e delicata».

I problemi strutturali alle sae aggravano la situazione?

«Appesantiscono fortemente una condizione preesistente di fragilità. Ultimamente solo a Muccia 33 casette sono da rifare. Le persone che devono uscire per l’ennesima volta sono quelle che magari la settimana prima dicevano “speriamo bene perché se io immagino di dover portare i mobili fuori mi sento morire” e sono anche persone anziane. Se la demolizione poteva rappresentare un importante elemento nell’elaborazione della perdita, con le problematiche legate alle sae siamo molto lontani da questa possibilità. Purtroppo è un po’ come tornare indietro. Se prima la domanda era: hai sentito il terremoto? Ora la domanda è: come sta la tua sae? Ci siamo avviluppati su un altro processo che è più difficile della demolizione. Il rischio concreto è che molti anziani partano e non tornino più, così come i giovani e i loro piccolissimi figli».

visso-sae-casette-muffa-5-325x244

Un sacco di lana di roccia estratta bagnata da una sae dell’area Villa Sant’Antonio a Visso

Perché non si solleva una protesta generale?

«La popolazione da tempo sta denunciando quello che accade nella propria vita quotidiana e forse questo dovrebbe essere preso in considerazione dalle autorità. Tuttavia, dobbiamo ricordarci che quando si è depressi non si può essere arrabbiati. Soprattutto quando la rete comunitaria fra la popolazione è debole e provata. La “protesta” per essere un atto costruttivo deve avere delle condizioni, delle premesse».

Quanto tempo ci vorrà per uscire dalla fase cosiddetta “depressiva”? Che cosa serve?

«Non esiste un tempo uguale per tutti, l’elaborazione della perdita (materiale, sociale, individuale, familiare) in questo territorio porta con sé anche il lutto della progettualità. Quindi l’elaborazione in questo contesto va di pari passo con la ricostruzione interna ed esterna, parliamo di un’unità psico-somatica ed ambientale».

Che qui ha un valore enorme, perché le persone sono affezionate al territorio.

«Una terra che ha ferito con il terremoto, ma in cui le persone vogliono tornare e rimanere. Non volevano neanche andarsene, se vogliamo dirla tutta. C’è chi trova il “senso” anche solo con il contatto con la natura circostante. Ma questa sensazione di essere respinti, ostacolati nel ricongiungimento, come sta avvenendo nel caso delle sae, aggiunge sofferenza alla sofferenza».

Quanto hanno influenzato questa condizione le promesse non mantenute della politica?

«Se “spoliticizziamo” la questione, in generale sappiamo che le promesse non mantenute coltivano la paranoia e il “retro pensiero”. “Ma allora vogliono che noi abbandoniamo questa terra?”, “E allora a cosa dobbiamo credere?”, si chiedono le persone. La ricaduta umana è la sfiducia. E non ha un colore politico. Soprattutto qui nelle piccole comunità. E quindi il tradimento è doppio. C’è da chiedersi se qui non abbiano fallito tutte le istituzioni».

Anche gli amministratori del resto sono umani

«Sì, e la criticità è anche legata al fatto che chi ha soccorso, sindaci, sanitari, protezione civile, erano anche loro vittime del terremoto, soccorritori e vittime. Per cui si fa ancora più fatica a essere lucidi quando si è coinvolti direttamente. Quindi, l’importanza di “innesti” esterni che aiutano il territorio è molto importante».

Dal terremoto ci sono stati 18 suicidi. Come affrontare una situazione del genere?

«La fenomenologia del suicidio deve essere letta globalmente, contestualizzata assieme alle fragilità ambientali e personali, la maggior parte delle volte preesistenti. Quindi il terremoto può essere considerato un importante fattore di rischio, ma non l’unico. È da considerare ovviamente tutto ciò che comporta la “perdita”, intesa in senso lato, legata a questo evento.
Ci sono le morti dirette e le morti indirette ma sempre e comunque legate al sisma».

Questo dopo il terremoto del Friuli ormai è letteratura scientifica.

«Penso di sì. In questo quadro il suicidio è un’altra forma di manifestazione e di aggravio di una condizione di fragilità già preesistente. E va inquadrato nella soggettività della persona che aveva una storia prima del terremoto che poi ne ha subito i contraccolpi».

area-container-tolentino-5-325x244

L’ingresso della mensa dell’area container di Tolentino

Le chiederei anche di descrivere la situazione nell’area container di Tolentino…

«Sono passati due anni da una “scelta” (che non avendo però un’opzione alternativa da parte della popolazione forse non può considerarsi tale) fatta in emergenza. Ricordo che ogni famiglia vive in una stanza unica, con bagni e servizi in comune. La situazione continua a essere molto critica. I bisogni primari sono soddisfatti (e gli ospiti lo riconoscono e ne sono riconoscenti), tuttavia vivere in questo modo mina il bisogno naturale di individualità, di intimità e di espressione delle proprie appartenenze. Qui siamo in una condizione “oltre” il problema del trauma da terremoto. Gli abitanti di questo luogo stanno facendo, in questa convivenza forzata, il loro meglio. Quasi un miracolo, considerando la complessità del contesto. Hanno doti umane e culturali derivate dalla loro storia passata, che li rendono capaci di esprimere capacità adattive incredibili. Il problema è il contenitore, non il contenuto. L’area container anche in questo è uno spaccato della vulnerabilità presente su tutto il territorio».

Articoli correlati



© RIPRODUZIONE RISERVATA

Torna alla home page

Quotidiano Online Cronache Maceratesi - P.I. 01760000438 - Registrazione al Tribunale di Macerata n. 575
Direttore Responsabile: Gianluca Ginella. Direttore editoriale: Matteo Zallocco
Responsabilità dei contenuti - Tutto il materiale è coperto da Licenza Creative Commons

Cambia impostazioni privacy

X