Da sinistra Ania, Yulia e Natalia con l’avvocato Francesco Mantella che ha seguito l’ingresso in Italia delle due donne
di Laura Boccanera
Basta il suono delle campane della chiesa di San Pietro per intravedere uno spaesamento nello sguardo, un bagliore di terrore che ritorna irrazionale: «Questa settimana quando partivano le sirene per gli allarmi bomba anche le campane delle chiese suonavano». E’ così che un suono familiare, di speranza, di preghiera, diventa portatore di paura.
Ania Zotova
Sono i suoni della guerra, quella che la generazione nata in Italia dagli anni ’50 in avanti non conosce. Ma lo sanno bene invece Yulia e Natalia. Sono arrivate ieri sera dall’Ucraina e sono le prime profughe che giungono a Civitanova. Ad accoglierle è Ania Zotova, mamma di Yulia che ha appena 22 anni ed è arrivata in Italia con la suocera, Natalia. In Ucraina è rimasto il figlio di Natalia e marito di Yulia. Quattro giorni di viaggio fra l’incubo delle bombe a Luzc, il passaggio in Polonia e poi l’arrivo a Verona e infine a Civitanova. Un viaggio con solo una valigia al seguito, «di cui mezza di documenti e appena due paia di mutande e di calzini e una tuta di ricambio». Alle spalle hanno lasciato un’attività di estetista e la direzione di un asilo. A raccontare la fuga col sospiro di sollievo è Natalia. Vive a Civitanova da 11 anni e lavora nella clinica Villa dei Pini. Sua figlia Yulia che di anni ne ha 22 però viveva col marito a Luzc, a pochi chilometri dal confine con la Polonia quando all’alba di giovedì sono scoppiate le bombe. Le due donne non parlano italiano, a ricostruire e tradurre è Ania: «il 23 ho parlato fino a mezzanotte con mia figlia, poi all’alba ho visto i messaggi di amici e di Yulia che mi dicevano che era stato bombardato un aeroporto militare poco distante da casa nostra. E iniziavano ad arrivare le informazioni su Kharkiv e su Kiev. Ho subito cercato un modo per farla tornare da me».
«Non riuscivamo a ritirare contante, ogni bancomat erogava solo 100 euro – racconta Yulia – mio marito lavora per la polizia giudiziaria e ha il compito di scovare le spie russe ed è rimasto in Ucraina. Per strada ci sono bombe a forma di peluche pronte ad esplodere».
Yulia Tkachuk
Una situazione drammatica tanto che Ania cerca il modo per far arrivare figlia e suocera in sicurezza in Italia e contatta l’avvocato Francesco Mantella: «quando mi ha chiamato ho cercato di capire quali corridoio sicuri poter intercettare per farle arrivare in Italia e grazie ad un contatto in Polonia, l’imprenditore Luca Lambertucci siamo riusciti ad identificare un’associazione verificata e sicura che poteva condurre dal confine polacco fino in Italia le due donne e al contempo procurare dei documenti per lasciarle passare senza intoppi» racconta Mantella. E così sabato le due donne riescono a salire su quel pulman: «abbiamo portato solo una valigia con due paia di mutande, due di calzini e una tuta di ricambio, l’altra metà c’erano i documenti sulle nostre proprietà in Ucraina, abbiamo dovuto abbandonare tutto» raccontano le due donne.
Yulia, laureata in psicologia, gestiva un negozio di estetica, ha lasciato chiavi, soldi e prodotti dentro il negozio senza riuscire a ripassare dal locale. Natalia invece, direttrice di un asilo, prima di andarsene è tornata nella struttura per pagare tutti i collaboratori e dare loro la busta paga.
Natalia Tkachuk
«Ti porto tua figlia, ma poi io voglio tornare là» ha detto Natalia ad Ania che a sua volta però ha promesso a suo genero di badare alla madre e tenerla al sicuro. Il viaggio è durato quattro giorni: «c’erano donne che hanno affidato i figli a sconosciuti per farli passare al confine dove poi avrebbero riabbracciato dei familiari. Nel bus eravamo in 96, di cui 50 bambini – proseguono le due donne – poi una volta arrivate in Polonia siamo state inviate ad un altro pullman che ci ha portato a Verona». E’ qui che Ania le ha raggiunte e portate a Civitanova dove sono arrivate ieri sera. E ora vorrebbero anche rendersi utili, poter fare le volontarie per i gruppi che in queste ore si stanno formando per portare aiuti e raccogliere materiale aiutare, a loro volta, coloro che vogliono raggiungere familiari e parenti nelle Marche. Il sollievo per essere in salvo non acquieta però il dolore e la lacerazione per ciò che sta vivendo la loro terra: «loro là stavano bene – continua Ania- avevano una vita agiata, mai si sarebbe immaginato di dover lasciare tutto e scappare. La situazione era tesa dal 2014, ma in qualche modo ci si era abituati a questa tensione, nessuno immaginava un’escalation così rapida. Ora con il corpo sono qui, ma con la testa sono rimaste là, siamo tutte perennemente attaccate ad un cellulare per avere notizie di amici e parenti, un solo messaggio perché spesso non c’è corrente, in attesa che ci scrivano “siamo ancora vivi”.
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