PAGLIACCI – Rafael Davila
È il classico che non passa mai di moda. Il dittico da cartolina d’antan Cavalleria Rusticana-Pagliacci, a giudicare dagli applausi, piace più del Rigoletto. Un successo, quello decretato ieri sera alla prima dal pubblico dello Sferisterio, dovuto alla combinazione di diversi elementi: un’idea registica che non indulge a troppi fronzoli e senza strafare sa trovare felici intuizioni, una conduzione musicale intensa e coinvolgente, la voce e il temperamento di Anna Pirozzi, autentica stella di un doppio cast all’altezza del compito. Le opere di Mascagni e Leoncavallo vengono rappresentate in coppia da quando lo stesso Mascagni le diresse insieme alla Scala nel 1926, e il regista sudafricano (ma di papà anconetano) Alessandro Talevi, formatosi alla Royal Academy of Music di Londra, ha saputo imbastire fra l’una e l’altra un filo conduttore tale da farle sembrare due pagine di uno stesso racconto. Dimostrando che si può ancora trovare un modo originale e non necessariamente polveroso di riproporre un allestimento tradizionale, una visuale fresca che permetta di innestare lungo la narrazione idee registiche nuove senza stravolgere l’impianto originario del libretto.
L’azione di entrambe viene spostata in avanti di qualche decennio, dalla seconda metà dell’Ottocento ai primi del Novecento, ma si resta nel Meridione d’Italia. Sono memorie da cartolina quelle proposte da Talevi, incorniciate da una grande balaustra di ferro battuto in stile liberty che domina la scenografia. Sono fermi immagine di vecchie foto di famiglia, conservate gelosamente dai figli degli emigrati italiani di fine Ottocento grazie ai racconti nostalgici di genitori e nonni. I paesini della Calabria e della Sicilia nei quali sono ambientate le vicende veriste di Cavalleria e Pagliacci diventano stereotipi folcloristici di un profondo Sud Italia che fu, ma senza caricature o forzature, piuttosto con garbo, affetto e rispetto. Luoghi in cui però, alla bellezza dei paesaggi e al ricordo idealizzato di isole felici, fanno da contrasto sentimenti violenti e drammi d’amore, condizioni di vita aspre tutt’altro che idilliache.
La cura particolare nei dettagli, dai costumi ai movimenti di scena, rende il tutto particolarmente gradevole. Le scene di Madeleine Boyd sono sì essenziali ma eleganti e funzionali al racconto, dominate dalla grande ringhiera decorata che incornicia uno spazio soprelevato, un lungo corridoio nel senso della lunghezza che scende con una scalinata fino al palcoscenico. Uno spazio che viene sfruttato al massimo da masse e artisti, specie in Cavalleria. Bell’effetto d’insieme anche per i costumi di Manuel Pedretti, più seriosi e giocati sui toni del bianco e nero in Cavalleria, alleggeriti da bustini, grembiuli e accessori colorati in Pagliacci. Le luci sono disegnate da Alessandro Verrazzi. Entrambe le opere sono affidate alla brillante bacchetta del maestro americano Christopher Franklin, che ha saputo valorizzare i due spartiti con piglio e personalità, e che torna allo Sferisterio a dirigere l’Orchestra Filarmonica Marchigiana dopo Sogno di una notte di mezza estate nel 2013. Franklin, specializzato nel repertorio barocco e contemporaneo, si divide tra lirica e sinfonica, e questo nei preludi e negli intermezzi sinfonici si sente.
Cavalleria rusticana, melodramma in un atto del compositore livornese Pietro Mascagni su libretto di Giovanni Targioni-Tozzetti e Guido Menasci, rappresentato per la prima volta nel 1890 a Roma, è tratto dalla novella omonima di Giovanni Verga. L’azione si svolge nel giorno di Pasqua, in un paesino della Sicilia. Il meraviglioso preludio carico di dolcezza, che si fa via via più cupo e drammatico, anticipa i temi più forti dell’opera. Protagonista assoluta è Santuzza, una strepitosa Anna Pirozzi, soprano napoletana dalla carriera in rapida ascesa nei teatri di tutto il mondo dopo il trionfo di due anni fa al Festival di Salisburgo nei panni di Abigaille con Riccardo Muti (nel febbraio 2016 il debutto alla Scala ne I due Foscari accanto a Placido Domingo sotto la direzione musicale di Michele Mariotti).
Una voce calda, imperiosa, impeccabile nella tecnica, emozionante nella sua drammaticità. Santuzza, la giovane contadina fidanzata di Turiddu, entra in scena con un grande fiore in mano e lo posa in terra accanto agli altri già disposti in circolo sul pavimento. Indossa una gonna di colore rosso scuro, un bustino e uno scialletto nero. Sgrana un rosario fra le mani, il suo viso e il suo vagare sono inquieti. In lontananza si sente la serenata d’amore (la Siciliana) di compare Turiddu a Lola, la donna di cui è da sempre innamorato ma che, al ritorno dal servizio militare, ha scoperto sposata col carrettiere Alfio. È un duro colpo per Santuzza, che assiste folle di dolore e di gelosia all’incontro d’amore clandestino attraverso le ombre giganti dei due amanti ritrovati proiettate sul muro dello Sferisterio. Ma le campane suonano, è un giorno di festa, i contadini accorrono nella piazza del paese, si affacciano dalla lunga ringhiera e scendono giù, vestiti con gli abiti buoni, le donne con camicie bianche e gonne nere bordate di rosso e di bianco, gli uomini in giacca o gilet, coppola nera e fazzoletto rosso al collo. Le contadine raccolgono i fiori e ballano in coppia con i mariti intonando un canto soave, “Gli aranci olezzano”, e gli uomini rispondono con un canto d’amore (“O belle occhi di sole”).
Esclusa da questa atmosfera gioiosa, Santuzza che se ne sta in disparte in un angolo. Finito il balletto, quando tutti escono di scena, entra Lucia (il contralto Chiara Fracasso), mamma di Turiddu. Santuzza disperata le chiede notizie del figlio, vuole sapere dov’è (“Dite, mamma Lucia”), la supplica, ma Lucia non lo sa e la invita ad entrare in casa ma Santuzza rifiuta, non può (“Sono scomunicata”). Si viene catapultati in un lampo nel dramma, la tensione è al massimo e la Pirozzi dà subito dimostrazione delle sue qualità vocali (squillo, potenza, bellissimo timbro, non manca nulla) e interpretative. Intanto fa il suo ingresso compare Alfio (il baritono Alberto Gazale) che canta con baldanza l’aria “Il cavallo scalpita”, e i paesani gli rispondono con la celeberrima “O che bel mestiere fare il carrettiere”. Alfio fa un po’ il piacione nel suo elegante abito blu e le donne del paese gli si fanno intorno, ma lui strafottente le avvisa “M’aspetta a casa Lola che m’ama e mi consola”. Ma quando chiede a Lucia il vino per la festa e questa gli risponde che se ne occupa Turiddu, le rivela preoccupato di averlo visto la mattina vicino casa sua.
È l’ora di entrare in chiesa per la messa di Pasqua. Il quadro è semplice ma molto suggestivo: tutte le paesane al buio tengono in mano un cero acceso e inneggiano al Signore, mentre gli uomini fanno da corona sulla balaustra. Anche Santuzza, isolata, in ginocchio, canta “Inneggiamo al Signore risorto” ma quando fa per avvicinarsi viene scacciata dalle donne in malo modo. Tutti entrano in Chiesa – l’enorme lampadario acceso si intravede oltre l’apertura di fondo – restano fuori solo Lucia e Santuzza che finalmente le rivela la verità: Turiddu l’ha disonorata, l’ha illusa, e poi è tornato fra le braccia di Lola. Il suo “M’amò, l’amai” è carico di dolore, impreziosito da un bellissimo acuto finale. Ma vuole supplicare ancora una volta Turiddu (il tenore Rafael Dàvila) e chiede a Lucia di pregare per lei. I due fidanzati si incontrano dando vita a un duetto carico di tensione e di drammaticità. Santuzza gli chiede spiegazioni, dov’è stato, se è stato da Lola, se la ama, ma lui nega, non vuole parlarle. Lo implora in ginocchio ma viene scansata (“Bada Santuzza schiavo non sono di questa vana tua gelosia”) e disperata risponde “Battimi, insultami, t’amo e perdono”. Elegante nel suo abito viola e con aria impertinente, Lola (il mezzosoprano Elisabetta Martorana) se ne va a messa intonando “Fior di giaggiolo”.
È il triangolo in scena: le due rivali si stuzzicano, poi Lola se ne va e restano Turiddu e Santuzza, e il duetto cresce di intensità. Alle implorazioni di lei rispondono il rifiuto e il disprezzo di lui, fino alla maledizione (“Bada!”, “Dell’ira tua non mi curo”, “A te la mala Pasqua, spergiuro!”). In un pianto disperato, Santuzza rivela poi la tresca di Lola e Turiddu ad Alfio (“Turiddu mi tolse l’onore e vostra moglie lui rapiva a me”) che promette vendetta (“in odio tutto l’amor mio finì”): è il duetto dei due traditi che prelude alla tragedia. Santuzza però si sente in colpa (“Infame io son”), ed è a questo punto, durante l’intermezzo sinfonico che segue, che il regista Talevi stupisce il pubblico con un piccolo coup de théâtre: in cima alla ringhiera compare la Madonna, una figurina che sembra staccarsi da un quadro, con le braccia aperte, la veste bianca, il manto celeste intessuto d’oro e la corona in testa. Percorre lentamente il corridoio soprelevato e scende verso Santuzza in lacrime, la quale si inginocchia e si prostra ai suoi piedi. Anche Maria si inginocchia e la aiuta a rialzarsi, poi ritorna indietro e la invita a seguirla, finché entrambe scompaiono all’interno della chiesa.
Risuonano di nuovo le campane, la Messa è finita, gli uomini e le donne scendono festosi sul palco (“A casa, a casa, amici” “A casa, a casa, amiche”). Fra loro anche Lola e Turiddu, che invita gli amici a bere con uno dei più famosi brindisi della lirica: “Viva il vino spumeggiante, nel bicchiere scintillante”. Rafael Dávila, tenore americano cresciuto in Porto Rico, che vanta un repertorio di 60 ruoli e ha già cantato Cavalleria e Pagliacci al San Carlo di Napoli, offre una prestazione generosa e non si risparmia dall’inizio alla fine, la voce ha un bel colore ed è possente ma non priva di qualche problema nella tenuta delle note alte: lo sforzo si sente e il suono spesso balla (come nell’ultimo “S’io non tornassi”).
Quando Turiddu offre del vino anche ad Alfio questi lo rifiuta furioso scagliando in terra il bicchiere, i paesani se ne vanno e i due rivali rimasti soli si affrontano. Il morso dell’orecchio è il segno della sfida di Turiddu, sebbene confessi che il torto è suo, e raccomandi ad Alfio di prendersi cura di Santuzza nel caso dovesse morire. Dopo il doloroso addio a mamma Lucia, e la nuova raccomandazione per Santuzza il duello mortale si compie, con le ombre gigantesche dei due sfidanti proiettate sul muro. Alfio pugnala il rivale, e mentre Lucia e Santuzza pregano cariche d’angoscia irrompe l’urlo agghiacciante di una popolana: “Hanno ammazzato compare Turiddu, hanno ammazzato compare Turiddu!” Le due donne urlano di dolore, e il dramma si compie così, con mamma Lucia accasciata al suolo e Santuzza piegata in ginocchio. Il pubblico riserva lunghi e calorosi applausi a tutti i cantanti, ma il trionfo personale è tutto per Anna Pirozzi che non interpreta Santuzza, è Santuzza. Buone prestazioni anche per il resto del cast, la Lucia di Chiara Fracasso, il compare Alfio di Alberto Gazale, e la Lola di Elisabetta Martorana.
Giusto una mezz’ora di intervallo, e per Anna Pirozzi e Rafael Dávila, impegnati nel doppio ruolo di Santuzza-Nedda e Turiddu-Canio, è subito tempo di trasferirsi dalla Sicilia in Calabria per calarsi nei panni della coppia di attori girovaghi protagonisti di Pagliacci, dramma in un prologo e due atti (ma qui ridotto a uno) su musica e libretto di Ruggero Leoncavallo, rappresentato per la prima volta a Milano nel 1892 con la direzione di Arturo Toscanini. La scenografia, con la grande ringhiera, è la stessa di Cavalleria. Entrano dai due lati i contadini e le contadine e si abbigliano per la festa di mezz’agosto. Le donne aiutano gli uomini e i bambini, si allacciano i grembiuli decorati in vita, annodano fazzoletti intorno al collo, sistemano cappelli di paglia. Gli abiti seriosi di Cavalleria si arricchiscono di dettagli colorati, di giacche a righe bianche e rosse, di bustini dalle tinte pastello. Nel frattempo il commediante Tonio, affacciato dall’alto, si rivolge al pubblico del paese (“Si può? Si può?… Io sono il Prologo”), enunciando i principi veristi che ispirano l’opera che andranno a presentare.
Ottimo avvio per il baritono Marco Caria, fin dall’inizio perfettamente dentro la parte, come voce e come interpretazione. I paesani hanno finito di sistemarsi in piccoli gruppi familiari: le donne sedute coi bambini in braccio e i mariti in piedi accanto stanno come al cinema, in una fissità che ricorda le pose delle vecchie foto di famiglia, un’immagine resa ancor più poetica dai toni delicati degli abiti punteggiati di rosa e di albicocca, di giallo oro di celeste e di verde acido.
Grande animazione ed esultanza per l’arrivo degli attori, con i bambini che vanno incontro al carro festanti e gli adulti che si apprestano ad assistere allo spettacolo (“Viva Pagliaccio, viva Pagliaccio!”). La scena, pur con pochi elementi, riesce a trasmettere grande allegra e vivacità. Spuntando in cima al carro Canio annuncia alla folla lo spettacolo (“Un grande spettacolo a ventitré ore”). Il tenore Dávila forse un po’ stanco comunque non si risparmia, e non si risparmierà da qui alla fine con grande generosità, ciò che lo fa apprezzare dal pubblico e gli fa perdonare dei passaggi non proprio impeccabili. Nel frattempo viene montato il palcoscenico della compagnia ambulante e cominciano le prime schermaglie, scherzose ma non troppo, fra Tonio (innamorato di Nedda) e Canio, gelosissimo di sua moglie, il quale avverte: un conto è il tradimento sulla scena e un altro il tradimento nella vita reale, finché se ne va dopo averla baciata (“Adoro la mia sposa”). Arrivano gli zampognari e risuonano le campane della chiesa “Din don, din don”. Nedda è un po’ turbata dalle parole del marito e teme che possa scoprire i suoi veri sentimenti, ma poi si lascia andare ai suoi sogni d’amore: è innamorata di Silvio, un giovane paesano. Anna Pirozzi, al debutto come Nedda, è eccellente anche in questo ruolo, molto diverso da quello precedente. Stessa sicurezza e una voce bellissima, che lasciati da parte i toni esplosivi e foschi di Santuzza si immedesima nei toni più melodiosi e leggeri di Nedda (“Ah che bel sole”).
Mentre canta, quattro bambine alla sua destra e quattro alla sua sinistra muovono delle canne flessuose su cui sventolano degli uccellini (“oh, che volo d’augelli”) in un’atmosfera di bucolica serenità, interrotta però dall’arrivo di Tonio deciso confessare il suo sentimento a Nedda (“So ben che difforme, contorto son io”). Anna Pirozzi e il baritono Caria riescono a dare vita a una scena ricca di drammatiche sfaccettature, vocali e psicologiche. La derisione di lei, le minacce di lui fino al maldestro tentativo di baciarla con la forza, Nedda che lo colpisce e lo insulta e Tonio che giura vendetta.
L’arrivo di Silvio (il baritono Giorgio Caoduro, autore anche lui di una prova dignitosa), riporta in Nedda la felicità. Le chiede di abbandonare tutto e di fuggire con lui (“Decidi il mio destin”), Nedda esita (“Non mi tentar!”) ma alla fine gli professa il suo amore e accetta (“Tutto scordiam”, cantato con grande eleganza). Non sanno che Canio, avvertito da Tonio, li sta ascoltando di nascosto. Nedda cede all’amore e promette a Silvio di lasciare tutto per lui (“Sì mi guarda e mi bacia! t’amo, t’amo… Sì ti guardo e ti bacio! t’amo, t’amo”). Alle parole di Nedda “A stanotte e per sempre tua sarò”, Canio urla furente e Silvio scappa, mentre Tonio se la ride. La lite degenera e non riuscendo a strappare a Nedda il nome dell’amante Canio estrae un coltello (“Svergognata”) ma accorre Peppe, lo disarma e cerca di calmare gli animi. È tempo di recitare, la gente aspetta, tutto si risolverà. Anche Tonio lo consiglia di aspettare, per smascherare più tardi l’amante che di sicuro sarà fra il pubblico. Canio deve indossare la sua maschera tragica, il suo costume di scena, è il momento dell’aria più celebre “Vesti la giubba e la faccia infarina. La gente paga e rider vuole qua. E se Arlecchin t’invola Colombina, ridi, Pagliaccio… e ognun applaudirà!”. Il pubblico dello Sferisterio applaude a scena aperta, per l’interpretazione più che convincente, per le parole cariche di amarezza, di odio, di sofferenza.
Il genio di Leoncavallo e la fantasia di Talevi riescono a stemperare il momento forse più drammatico dell’opera con una scena di estrema tenerezza, una boccata d’aria fresca prima della tragedia finale. Entrano per mano due piccolissimi deliziosi bambini e mentre il maschietto si siede a guardare lo spettacolo, la bimba va a sbirciare dietro il sipario chiuso del teatrino e poi si appropria del piccolo palcoscenico accennando dei passi di danza. L’inchino finale della piccola non può che strappare un sonoro applauso.
Ora la commedia nella commedia può avere inizio, il pubblico impaziente si accalca davanti al piccolo palco, e mentre le contadine si accomodano sulle sedie e i bambini si siedono in terra, i contadini si posizionano intorno alla ringhiera (“Ah! s’alza la tela! Silenzio! Silenzio!”). Dentro una finta casetta delle bambole appare Colombina/Nedda, la moglie di Pagliaccio/Canio, sopra al carro spunta Arlecchino/Peppe (il tenore Pietro Adaini) e intona una serenata. Divertente la scenetta fra Colombina e Taddeo/Tonio che tenta invano di sedurla. Sembrano due figurine ritagliate nella carta e si muovono come marionette, Colombina con la sua gonna lunga e rigida, i movimenti a scatti e l’espressione fissa, Taddeo con la sua maschera dipinta e il costume colorato. All’arrivo dell’amato Arlecchino Taddeo si arrende e li lascia soli. I due, proprio come nella realtà Nedda e Silvio, progettano la fuga e Pagliaccio/Canio, sentendo la moglie pronunciare in scena le stesse parole pronunciate al suo amante (“A stanotte, e per sempre io sarò tua”), stravolto dalla gelosia dimentica la recita e si spoglia degli abiti di scena (“No pagliaccio non son”). Nedda è impietrita e anche il pubblico comincia ad allarmarsi per quella veemenza un po’ troppo veritiera.
Finzione e realtà ormai si intrecciano (“Sperai, tanto il delirio accecato m’aveva”), Canio insulta la moglie chiamandola meretrice abbietta, deciso ad annientarla. I paesani applaudono a tanta immedesimazione, e mentre lei tenta invano di riportare la lite sulla scena, lui la riporta nella vita vera. Vuole quel nome, ormai è furioso “Il nome, o la tua vita”. I due si sfidano, Nedda non cede (“Non parlerò a costo della morte”) e Canio la accoltella. Gridando aiuto invoca il nome di Silvio, che si slancia sul palco e viene a sua volta accoltellato a morte. A Taddeo non resta che annunciare la tragica conclusione: “La commedia è finita”! Anche Pagliaccio si uccide, prima che il sipario si chiuda per l’ultima volta.
Applausi per l’intero cast, completato dai due contadini Andrea Cutrini e Francesco Solinas, dall’Orchestra Filarmonica Marchigiana, dal coro lirico Bellini diretto da Carlo Morganti, dalle voci bianche Pueri Cantores Zamberletti dirette da Gian Luca Paolucci e dal complesso di palcoscenico Banda Salvadei.
Repliche il 24 luglio, il 2 e l’8 agosto alle 21. Rigoletto invece tornerà in scena il 25 e 31 luglio e il 9 agosto sempre alle 21, mentre domenica 26 luglio è in programma la prima de La Bohème di Giacomo Puccini per la regia di Leo Muscato, terza opera in cartellone del Mof.
(foto di Alfredo Tabocchini)
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OH! Questa è la riprova, che quando si ha talento registico e si è buon interpreti della tradizione, non serve sconvolgere nulla e non serve svenarsi in allestimenti faraonici. . Parole benedette quelle di Stefania Gelsomini al termine della sua introduzione alla critica , che spero vengano tenute a mente da chi ha in mano le chiavi della nostra Arena. Il botteghino che incassa non dice niente. Dice, LA QUALITA’ OFFERTA. Quindi basta, con Opere intrise di ideologismo politico; basta con l’essere ” alternativi ” ad ogni costo. L’Opera avrà anche radici popolari , ma va trattata come merita, da ” ottava arte”. Quindi, basta sottocultura, che il pubblico, in fatto artistico , è più svezzato di quanto creda chiunque pensi di potergli propinare di tutto spacciandolo per maestria.
L’allestimento classico e’ sempre gradito ma nulla e’ immutabile neanche la Lirica quindi ben vengano sperimentazioni registiche anche ardite.Ricordo con estremo piacere la Boheme del maestro Ken Russell davvero sublime!
Peraltro e’ il botteghino a comandare e se uno fosse attento lo capirebbe…il cinema cosi’ come lo sport ed il teatro vive del botteghino o dei diritti tv e non di altro specialmente adesso quindi a volte si e’ gioco forza costretti a seguire la corrente per non creare voragini economiche che non sarebbero minimamente colmabili.
Complimenti alla sartoria.
Bellissima giacca quella di Rafael Davila
Ceresani, scusa; ma per classico non s’intende stantio o scontato; come sperimentazione non è sinonimo di ricerca e innovazione. Giustamente tu porti l’esempio di Russell, ma lo scadimento di cui lamentiamo è rivolto a tutti quelli che , senza essere Russell, si cimentano in interpretazioni che vanno ben oltre la tenuta del Libretto. Recente esempio di scimmiottamento della Bohème di Russell, la Tosca di Franco Ripa di Meana col risultato che sappiamo, distante anni luce dalla originalità del Maestro.Russell. Questo detto, In linea di principio neanche io sono contraria alle rivisitazioni in chiave moderna, purché non si stravolga l’impianto organico dell’intera Opera, che quando avviene, inevitabilmente produce sconnessioni fra testo, musica e immagini sulla scena.
Sul botteghino, non mi sono spiegata come dovevo. Certo che conta, ma i numeri non misurano la qualità del prodotto, semmai misurano l’attenzione di un certo pubblico alla lirica, ai titoli in cartellone, ai nomi che si esibiscono, e allora, a parità di incassi, siccome quel che poi resta di una stagione è la tua offerta qualitativa , meglio dare il meglio, che poi te lo ritrovi anche sotto forma di diritti. Lo dimostra da più di 20anni dalla sua produzione La Traviata di Svoboda, sia a livello repliche che diritti. Una Carmen come quella andata in scena nel 2012, o un Trovatore nel 2013, o una Tosca nel 2014, quanto incassano ancora? E’ questo che volevo dire al di là degli incassi immediati .
Buongiorno Tamara…si ho capito il tuo punto di vista e lo condivido in pieno…ed infatti sono curioso/tremebondo di vedere la Boheme moderna di quest’anno.
Complimenti Sig.ra Moroni finalmente dei commenti non di parte ma coerenti e tecnicamente validi. Il Sig. Micheli grande organizzatore che ha riportato lo Sferisterio ai fasti degli anni 70/80, certamente non lo deve alle regie cervellotiche ma aver riproposto opere popolari che comunque fanno botteghino. Ebbene il Sig. Micheli dovrebbe essere attento a critiche. certamente costruttive, che vengono da non addetti ai lavori, ma da coloro che amano Macerata, lo Sferisterio e il melodramma.
Buongiorno Signor Pagnanelli, e scusi se non l’ho ancora ringraziata dei suoi apprezzamenti, ma solo adesso ho visto il suo commento, in cui ha detto bene che meglio non poteva. Un successo di botteghino dovuto non certo alle regie cervellotiche ma ai titoli popolari, ché sono quelli, che si acquistano al momento in cui si va a prenotare un posto nell’Arena. Speriamo proprio, che delle nostre critiche a fin di bene, da amanti dell’Opera, dello Sferisterio e di Macerata, chi nella stanza dei bottoni sappia farne tesoro. Un cordiale saluto.