La riconferma di Carancini
tra consenso, furbizia e fortuna

POSTO -VOTO, L'INTERVENTO - La lunga marcia elettorale che ha portato alla rielezione del sindaco. Tattiche e strategie usate per arrivare all'incoronazione di Romano II

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L'avvocato Giuseppe Bommarito

L’avvocato Giuseppe Bommarito

 

di Giuseppe Bommarito

Romano Carancini, anche se non potrà gioire perché l’altissimo tasso di astensionismo ha evidenziato un forte disamore pure nei suoi confronti, ha vinto e governerà per un secondo mandato la città di Macerata. Questo è un dato indiscutibile, così come è difficilmente revocabile in dubbio il fatto che Carancini abbia riportato la vittoria superando una serie innumerevoli di ostacoli che sembravano, almeno sino ad un certo punto, sbarrargli inesorabilmente la strada non solo verso la riconferma, ma addirittura verso la propria ricandidatura.
Molti ricorderanno infatti la clamorosa decisione del direttivo comunale del Pd, presa in occasione dell’ultima verifica di circa due o tre anni fa, di imporre a Carancini il passaggio delle primarie, mossa pesante, di fatto consistente in una larvata sconfessione e del tutto contrastante con la prassi consolidata di arrivare automaticamente ad una seconda ricandidatura per un Sindaco uscente.

Romano Carancini

Romano Carancini

Come è noto, in quel periodo in città, nella maggioranza di centrosinistra e nello stesso Pd, dilagava il malcontento verso Romano ed in tanti vi era la tentazione di spedirlo anticipatamente a casa insieme a tutta la sua giunta, ritenuta immobile e stagnante, incapace di affrontare i problemi della città e di realizzare anche in minima parte il programma elettorale del 2010, divisiva, sprezzante verso l’assise consiliare e verso tutti i partiti di maggioranza, Pd compreso. Poi però, per quell’istinto di autoconservazione che nel Pd maceratese è stato sempre molto forte, prevalse allora la tesi secondo la quale una maggioranza che si libera anzitempo del proprio Sindaco è condannata per lungo a tempo a marcire all’opposizione (sul punto Fermo docet, con la recente destituzione della Brambatti e la successiva debacle del centrosinistra ad opera di alcune combattive liste civiche). E così nei riguardi dell’inviso Carancini all’interno della maggioranza del Pd maceratese si optò per una linea più morbida, ma comunque stringente: non ti licenzio su due piedi come ti meriteresti perché sarebbe autolesionistico, ma ti obbligo comunque alle primarie, così tu, punto nell’onore, rinunzierai e, qualora (ipotesi assurda) non lo facessi, peggio per te, perché saresti comunque condannato ad una sonora e vergognosa sconfitta nella competizione interna.

Ma Carancini, per quanto oltraggiato, decise, sorprendendo tutti, che avrebbe partecipato alle primarie, attribuendosi furbescamente il merito (del quale – diciamo la verità – avrebbe fatto volentieri a meno) del “bagno di democrazia” che la consultazione interna avrebbe comunque determinato ed al quale anch’egli si sarebbe sottoposto. E proprio qui comincia la serie innumerevole delle fortune e delle furbizie che hanno contribuito alla rielezione di Romano, al di là di una fortissima determinazione, al limite della tigna, della quale gli va dato comunque atto. Una storia che, con i suoi fatti ed i suoi misfatti, merita di essere riepilogata.
Si comincia con i forti ritardi dei suoi avversari interni, i renziani della prima e della seconda ora (soprattutto di questi ultimi, divenuti in breve predominanti con Angelo Sciapichetti in prima fila), che, mentre Romano già era partito a tutto gas nella sua personale campagna elettorale utilizzando senza scrupoli ogni mezzo amministrativo a sua disposizione e chiamando a raccolta i suoi fedelissimi, persero nell’immobilità totale due o tre mesi nel vano tentativo di convincere Pietro Marcolini a scendere in campo. E così, quasi all’ultimo minuto utile si arrivò a candidare come sfidante Bruno Mandrelli, consigliere comunale uscente e già segretario cittadino del Pd, dimessosi nel 2012 proprio per i ripetuti contrasti del partito di maggioranza relativa con Carancini.

Romano Carancini con alla sua destra Giuliano Meschini, decisivo per la vittoria alle primarie

Romano Carancini con alla sua destra Giuliano Meschini, decisivo per la vittoria alle primarie

Sembrava comunque quasi una formalità, con gran parte del partito, del gruppo consiliare e degli alleati di centrosinistra schierati con Mandrelli. Ma qui ecco spuntare un’altra furbata caranciniana: con due soli candidati non ci sarebbe stato ballottaggio (utile, per chi come lui partiva svantaggiato, nell’ottica di avere qualche chance di rimonta in più), con tre candidati – salvo il caso improbabile della maggioranza assoluta raggiunta da uno dei contendenti – invece sì. Per questa carta di riserva serviva però un terzo “competitor”, che, guarda caso, spuntò fuori dal nulla con le sembianze di Giuliano Meschini, divenuto da poco leader dell’ormai inconsistente Idv e distintosi sino a quel momento per i continui distinguo da Carancini in seno alla maggioranza di centrosinistra, per la più volte sbandierata volontà di non partecipare ad ulteriori maggioranze ove alla testa ci fosse stato di nuovo Carancini, per i suoi ripetuti contatti ed incontri persino con forze di centrodestra al fine di costituire maggioranze alternative a Carancini. Sta di fatto che Giuliano Meschini – questa é ormai storia nota – benchè privo della benchè minima possibilità di vittoria, si candidò alle primarie nello stupore generale e quindi si prestò al giochetto.

Bruno e Mandrelli e Romano Carancini durante le primarie del centrosinistra

Bruno e Mandrelli e Romano Carancini durante le primarie del centrosinistra

Come pure si sa, al primo turno delle primarie Mandrelli risultò in testa, ma per meno di venti voti non ottenne la maggioranza assoluta e così due settimane dopo si andò al ballottaggio, stravinto invece da Carancini, autore di un’irresistibile rimonta. Merito suo e del consenso che seppe raccogliere nello scacchiere cittadino, certo, ma anche il frutto di astute tattiche, di una serie di fortunose circostanze di fatto e di attacchi quanto mai spregiudicati e velenosi alla figura di Mandrelli. Quest’ultimo, che scese in campo con i guanti bianchi mentre i suoi avversari interni usavano anche le armi chimiche vietate dall’Onu, venne infatti ingiustamente accusato da tutto lo staff caranciniano, a mezza bocca ma in modo che tutti sentissero, di essere un massone, un anticlericale, un non credente, di voler perpetuare la presa su Macerata di quei personaggi screditati del Pd (alcuni dei quali confluiti proprio su Carancini) che nei dieci anni di Giorgio Meschini – con lo stesso Carancini, si badi bene, capogruppo consiliare del Pd – avevano fatto a Macerata di tutto e di più, esclusivamente a proprio uso e consumo. Accuse palesemente ingiuste e diffamatorie, ma la calunnia è un venticello che tende a crescere e a lasciare il segno laddove passa, tant’è che l’abile Carancini, ormai completamente democristianizzato nel modo d’agire, nel ballottaggio delle primarie dapprima ottenne l’appoggio a questo punto conclamato di Meschini dell’Idv (c’è in politica chi si accontenta anche di un misero piatto di lenticchie, consistente nel caso specifico, a quanto pare, in un posto non di vertice in qualche società partecipata) e poi riuscì in extremis a convogliare su di sé il voto massiccio di alcune parrocchie maceratesi allarmate per il possibile arrivo dell’ateo massonico.

Una rielaborazione dell'opera San Giorgio e il drago, dipinto autografo di Paolo Uccello del periodo 1456-60, che è custodito nel Musée Jacquemart-André a Parigi

Una rielaborazione dell’opera San Giorgio e il drago, dipinto autografo di Paolo Uccello del periodo 1456-60, che è custodito nel Musée Jacquemart-André a Parigi. Con Giuliano Meschini/San Giorgio, Bruno Mandrelli/il drago e Romano Carancini/principessa Silene

 

Fortuna volle per Romano – come è ormai notorio – che a tanta spregiudicatezza si aggiunse anche la scelta insulsa di parte del centrodestra pantaniano di recarsi a votare e di appoggiare Carancini, nella stupida convinzione che lo stesso sarebbe stato più facilmente battibile nelle elezioni vere, quelle che poi ci sono state qualche giorno fa con il risultato che tutti ormai conoscono.

Il sindaco di Macerata Romano Carancini durante l'inaugurazione dell'orologio planetario in piazza della Libertà

Il sindaco di Macerata Romano Carancini durante l’inaugurazione dell’orologio planetario in piazza della Libertà

Quella vittoria nelle primarie, con il partito a questo punto riunificato (anche se “obtorto collo”, come dicono gli avvocati, per molti dei suoi componenti), fu determinante per Carancini, che da allora in poi, ripulito ormai da ogni colpa e da ogni omissione e messo da parte il saio della penitenza e dell’umiltà per indossare il vestito nuovo della festa, con fascia tricolore incorporata, è andato verso la vittoria finale con una strada sempre più in discesa, impiegando l’ultimo periodo a fare scrupolosamente tutto ciò che un bravo sindaco democristiano, per di più della corrente dorotea, faceva trenta anni fa, negli anni d’oro della Dc, durante i mesi ruggenti di una qualsiasi campagna elettorale amministrativa: inaugurazioni vere o farlocche, promesse a gogò, pacche sulle spalle, presenzialismo spinto, delibere strumentali, avvio di lavori pubblici per i quali improvvisamente i soldi vengono trovati, foto strategiche con il Vescovo, pubblicità tramite il giornalino del Comune, e così via strombazzando a destra e a manca, con tanto di pupi, trenini e orologi più o meno taroccati. E soprattutto – e qui c’è un punto cruciale non compreso sino in fondo da molti commentatori – con l’arma determinante dei servizi sociali, da sempre potentissimo strumento clientelare per chi ha in mano il relativo assessorato e la presidenza dell’Ircr: milioni di euro mai resi noti nelle effettive e specifiche destinazioni e nei criteri di erogazione, che potrebbero contribuire a spiegare improvvisi ribaltoni alle primarie, numeri elevatissimi di preferenze, voti per il centrosinistra espressi per riconoscenza o con il naso più o meno turato.

Deborah Pantana e Romano Carancini (foto di Carlo Torresi)

Deborah Pantana e Romano Carancini (foto di Carlo Torresi)

Poi il resto l’hanno fatto l’affidamento che una parte dell’opinione pubblica maceratese ha voluto ancora manifestare al centrosinistra, per motivi sia di incrollabile fiducia che di mancanza di reali alternative (come sarebbe andata se al ballottaggio ci fosse stato Momo Mosca o i 5 Stelle?), nonché gli errori, l’inconsistenza di parte del campo avverso e la frammentazione dello stesso (ma su quest’ultimo aspetto si è già scritto molto, ed è quindi inutile tornarci sopra).
A Romano va dato quindi onestamente atto di essere stato alla fine vincente, determinato, furbo, spregiudicato, ed anche fortunato, come i migliori democristiani dell’ancient regime. Ma, dopo un quinquennio che in ogni caso è stato deludente, la sua – come è dimostrato appunto dalla risibile percentuale di votanti in occasione del ballottaggio finale con la Pantana, notevolmente al di sotto delle già basse medie nazionali e regionali – non è stata la vittoria della passione, del merito, dei risultati raggiunti e orgogliosamente sottoposti all’elettorato, ma quella della furbizia, della tattica spregiudicata e della fortuna di competere pure nello scontro finale con chi aveva irresponsabilmente costruito una macchina che è sembrata fatta apposta per perdere.
Certo un ricambio, sia pure interno, sarebbe stato necessario per Macerata, sempre più indirizzata verso l’immobilismo e l’irrilevanza a seguito degli ultimi pessimi quindici anni a guida Pd. La speranza è che ora Carancini, più esperto e reso ormai più duttile dal secondo mandato comunque conquistato, una volta ultimati gli effetti speciali della campagna elettorale sappia ritrovare i valori della trasparenza, del confronto, della rapidità, della competenza, che furono alla base della vittoria di cinque anni fa, valori allora messi purtroppo quasi subito ad ammuffire in qualche cassetto della sua scrivania.



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