Si fa sempre più intrigante e fitta di misteri, in parte svelati in parte ancora no, l’avventura di Silvano Iommi alla riscoperta della Macerata antica e sommersa. Dopo il ritrovamento della fonte di San Giacomo (leggi l’articolo) e il reportage su fonte Bonaccorsi a Piediripa (leggi l’articolo) l’ex assessore comunale si è concentrato sul convento dei cappuccini e sulla chiesa di Santo Stefano poco fuori dalle mura cittadine. Alzando il sipario sulla “peschiera” del convento (oggi abitazione privata) costruita su una sorgente d’acqua di cui è ricco il sottosuolo cittadino, Iommi fa il punto sulla storia dell’antico sito e della vicina chiesa, dall’origine medievale fino all’età moderna.
«Nel versante est del poggio dove sorge la chiesa di Santo Stefano – scrive Iommi – si nasconde nella fitta vegetazione ciò che resta del primitivo cenobio dei Cappuccini. La costruzione (oggi trasformata in abitazione), risale al 1544 e fu realizzata direttamente sopra l’acqua sorgiva per alimentare la “peschiera” annessa (indispensabile rifornimento di pesce per i “giorni di magro”).
Sul perché il “Consiglio di Credenza” (la Giunta Comunale di allora) deliberò nel 1538 l’insediamento in quel sito il neonato “terzo ordine francescano”, resta in parte ancora un mistero – continua Iommi – Sicuramente si volle tenere i Cappuccini fuori dalle mura e allo stesso tempo non troppo lontani dalla città dove invece si erano insediati sin dal 1241 i “minori osservanti” con la loro grandiosa chiesa di San Francesco e il vasto convento (oggi palazzo degli studi). Altrettanto sicuro è che la generale mobilitazione popolare, che si creò per realizzare il modesto complesso conventuale dei Cappuccini, fu possibile solo quando cessarono le ostilità nei loro confronti.
Il convento costruito fuori dalle mura su una sorgente d’acqua alimentata da fonti e rivoli sotterrannei
Ostilità mosse dalla predicazione degli “osservanti che i maceratesi ebbero modo di conoscere più direttamente nel 1526, in occasione del trasferimento nelle carceri di Macerata di Fra Ludovico da Fossombrone (uno dei capi marchigiani del nuovo movimento francescano), accusato di apostasia ma poi assolto. Forse è anche da queste vicende che discendono le leggende ancora ricordate dagli anziani del posto. Leggende che parlano di “tenebrose grotte scavate nel tufo da silenti fraticelli che vivevano nel nascondimento, di tesori nascosti e di grandiosi saloni sotterranei, visti fugacemente dai più vecchi ma ormai obliati” (L. Paci la Pieve di S. Stefano…).
In effetti la presenza di gallerie che si incrociano proprio in corrispondenza della sommità del poggio (nello spazio esterno tra abside e canonica), è stata accertata dall’Apm (Azienda plurisevizi Macerata) un paio d’anni fa in occasione di uno scavo, mentre è ancora visibile in un locale dell’ ex edicola (oggi canonica), la botola di un pozzo (forse funzionale all’antico rito di immersione iniziatica), che immette in una galleria. C’è anche chi giura che una di queste gallerie giunge fino al vecchio convento. In ogni caso, i Cappuccini lasceranno definitivamente quel sito (più volte ristrutturato e ampliato) nel 1603 per trasferirsi in località santa Lucia (nell’ attuale obitorio). La piccola chiesa abbandonata (già intitolata a santo Stefano) verrà demolita nel 1644, mentre il convento passerà prima al vescovado e successivamente venduto. Nel 1682 venne costruita l’attuale chiesa di Santo Stefano, quasi a coprire la retrostante e antichissima edicola monumentale della “Madonna della Fede”, dalla quale proviene il lacerto dello stupendo affresco raffigurante la madonna col bambino fiancheggiata da San Giuliano e San Rocco.
In definitiva, però, per chi dalle “mura da bora” resta incantato dalla strabiliate bellezza paesaggistica che incornicia l’intero poggio di Santo Stefano ed ha sufficiente sensibilità, tutto ciò non basta a spiegare quel senso di mistero e sacralità che ancora promana da quel luogo. Allora, giova anche ricordare che al tempo dell’insediamento cappuccino il sito era indicato con i toponimi “sasso” (saxssano-Ercole), “sabbionicci o ciambrioli” (Ciambrione, Gambrioli, Ganveriana da Gan-Ver-Ana). Ma la strada che conduceva al convento, girando a destra prima di arrivare all’odierna chiesa, era denominata sin dal 1268 “gabba di Tavoleto”. In antico questo toponimo (che resisterà nei documenti sin verso la metà dell’ottocento), indicava l’intera area del colle delimitata ad ovest dal “rio solis” originato da “fonte Alliana”(Helios), ad est dal rio originato dalla confluenza delle fonti Ciambrione e Maggiore, e a nord dal torrente “Trutica”. Per lo storico Foglietti il nome “tavoleto” discende da”Tavalati” (ta-val-ati dove Val=”la forte”, Ati=”Attis”), uno dei nove “villaggi” di origine greco-picena che, seguendo un’ancestrale consuetudine insediativa si distribuivano a cerchio (senata) intorno ad un centro scelto comunemente e riconosciuto da tutti come “recinto sacro”. Non è certamente questa la sede per approfondimenti filologici e antropologici sui toponimi (ad es. “ma-cer-ati”, dove Cer=”la creatrice”) tuttavia secondo molti studiosi i nomi dei luoghi discendevano dai nomi delle divinità prevalenti e a loro volta i nomi delle persone discendevano dai nomi dei luoghi.
Oggi dell’antico convento dei cappuccini (trasformato in residenza privata dopo un pregevole restauro), restano solo il portico con le volte a crociera, la peschiera e alcuni capitelli in pietra (forse provenienti da materiale di spoglio di una costruzione tardo antica e parzialmente rimodellati in stile paleo-cristiano). Del pregevole bassorilievo rinvenuto in un muro interno del convento resta solo una immagine fotografica. Maggiori e più significative sono, invece, le tracce delle antiche tradizioni rimaste nel folklore locale. Si è, infatti conservata a lungo la tradizione delle feste lascive di “Flora-Majuma” (1° maggio). Feste che furono proibite già nel 399 d.C. poi ancora nel 1514, ma alla fine ritornate in uso in vario modo sino al secolo scorso.
Gli storici locali Paci e Spadoni concordano nell’indicare questa zona come quella da sempre preferita dai maceratesi per i rituali del 1° maggio: la “passeggiata galeotta” verso fonte Ciambrione -al termine del rito religioso- e il più “erotico” portare in trionfo “lu magghiu” davanti alle case delle ragazze. La documentazione fotografica del complesso architettonico, concessa gentilmente da Luigi Ricci, mostra lo stato ex ante della “peschiera”, mentre le immagini pittoriche sono estrapolate dalle due tele del seicentesco pittore maceratese Marcello Gobbi, per evidenziare i due significativi dettagli di un “sole splendente”. La pregevole rappresentazione dell’antica edicola è tratta dalla tela della pittrice contemporanea Rita Piermarini».
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Ricostruzioni davvero affascinanti. Sarebbe poi bello anche solo, da quelle parti, ripulire la “mattonata” che credo sia ormai sepolta dai rovi.
Ha ragione perché l’ammattonata fu realizzata anche per facilitare il pellegrinaggio dei devoti maceratesi per la venerazione della Madonna qui sopra riprodotta. È una delle piaggie di Macerata dimenticate. Sono anni che ricordiamo alle autorità cittadine lo stato di abbandono di questo territorio che comprende oltre Fonte Maggiore anche Fonte Ciambrione o delle Trippe e la Fonte Agliana.
Rinnovo quanto ti ho detto a voce. Metti insieme tutti i pezzi e pubblicali.
Silvano Iommi sta svolgendo un lavoro pregevole e sicuramente bprezioso per la città di Macerata, che, una volta completato, andrebbe valorizzato come merita con un’adeguata pubblicazione. Sta aiutando l’intera città a riscoprire siti ormai nascosti, miti perdutisi nel tempo e vecchie leggende rimaste vive sino a qualche decennio fa, anche grazie ad una tenace tradizione orale.
Sarebbe utile che tale lavoro venisse fatto conoscere anche ai giovani, agli studenti maceratesi, affinché essi, dalla conoscenza del passato, possano trarre linfa ed energia per mantenere in vita e proiettare verso il futuro una città dalle forti e robuste tradizioni, qual’è Macerata.
Quanto alla mattonata ed allo stato deplorevole in cui essa si trova, bisognerebbe rivolgere la domanda sui motivi di tanto sfregio ai competenti uffici comunali, che circa dieci anni addietro autorizzarono nei suoi pressi un vero e proprio obbrobrio, senza nemmeno poi vigilare sull’esecuzione dei lavori.
Una domanda, infine, a Silvano. E’ vero che nei pressi dei Cappuccini di Santo Stefano sbuca una galleria che parte da via don Minzoni n. 22 (sopra il bar Firenze, per intenderci), usata dai primi patrioti maceratesi per fuggire dalla città dopo il fallimento dei primi moti carbonari cittadini, avvenuti – se ben ricordo – all’incirca nel 1815?
Concordo con le proposte di cui sopra. L’amico Silvano Jommi sta facendo un lavoro appassionato e sentimentale. I Maceratesi, sensibili alle tradizioni e alla loro Storia, dovrebbero spingere l’Amministrazione comunale e la mia cara Stefania Monteverde, assessore, a prendersi cura della Macerata che sta scomparendo per l’incuria dei cittadini. Già l’orologio della Madonna della torre di piazza sta dando ragione a coloro che lo hanno voluto. Non è amore per le tradizioni cittadine, questo? Si continui…
L’Amministrazione non deve temere questi amanti del passato. Tra l’altro, costano meno della piscina comunale.
Si continui a sostenere l’architetto Jommi nella sua ricerca.
@Giuseppe,
Di quella particolare galleria non saprei dire, ma è certo che o all’interno della demolita chiesa dei cappuccini o nei paraggi arrivava una galleria. Altrettanto certo è che tutto il reticolo di percorsi ipogei che attraversa via Don Minzoni, fuoriusciva in diversi punti sotto le “mura da bora” in direzione delle numerose fonti e del poggio di S. Stefano. Per Libero Paci (la cui fondamentale ricerca storica è una fonte inesauribile), la piazzetta di S. Stefano doveva essere il luogo di incontro notturno per i rivoluzionari Carbonari che il 23 giugno 1817 si erano dati appuntamento. Contemporaneamente, altri si erano radunati nei locali di via D. Minzoni (attuale Università). Come si sa le cose andarono male e quelli di via Don Minzoni riuscirono a dileguarsi nella campagna (nonostante che a quell’ora di notte tutti i portoni di accesso alla città erano chiusi e ben sorvegliati).
L’interesse che sta suscitando questi tuoi interventi Silvano, è veramente significativo, segno evidente che la storia e le antiche risorse della città non debbono andare perdute.
Hai parlato anche delle antiche fonti ed i tuoi racconti si sono casualmente (o per destino) incriciati con la discussione sul mio Ordine del Giorno approvato dal Consiglio all’unanimità che atteneva alla manutenzione delle fontane pubbliche. Chissà che in Consiglio non si possa tornare sull’argomento con una proposta di riqualificazione anche delle fonti storiche, delle grotte, ecc. magari ricercando fondi regionali, statali o europei.
Aspettando il prossimo capitolo, ti saluto con grande apprezzamento.