L’ospedale di Macerata
e il “Giovane favoloso”

Un singolare ma non assurdo rapporto fra il Leopardi di Mario Martone e lo smembramento della medicina provinciale

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liuti-giancarlodi Giancarlo Liuti

Prima di cambiare argomento – cambiarlo, sì, ma fino a un certo punto – vorrei tornare sulle sorti dell’ospedale di Macerata, che secondo certi progetti non ancora definitivi dovrebbe perdere due reparti medici e chirurgici: l’oculistica a favore di quello sanseverinate e l’otorinolaringoiatria a favore di quello civitanovese. La qual cosa va a ledere la sua funzione di “ospedale generale provinciale”, com’ è ancora definito nei siti Internet e come mi permetto di continuare a definirlo io, cioè al servizio dell’intera “provincia”, un territorio in cui vivono quasi trecentotrentamila persone. A Macerata non sono mancate reazioni politiche, ad esempio la non malvagia idea avanzata da alcune liste civiche di recarsi in Regione con una delegazione di protesta guidata dalla figura istituzionale del sindaco Romano Carancini, un’idea che poi, vista l’indifferenza dei partiti locali, assai più interessati agli appuntamenti elettorali – e alle candidature – della prossima primavera, si è dovuta ridurre a una raccolta di firme. Acqua passata.
Qualcuno ora sostiene che gli “ospedali provinciali” non esistono più e che, “praticamente”, non esistono più neanche le Province. Vero è che in campo sanitario il concetto di “provincia” è stato sostituito da quello di “area vasta” – la numero 3, nel Maceratese – ma se non è zuppa è pan bagnato e, gira gira, la dimensione territoriale resta quella della provincia: cinquantasette Comuni e quasi trecentotrentamila abitanti, ognuno dei quali, in caso di malattie presumibilmente complesse, avrà pure il diritto (la “centralità umana” dell’individuo è un fondamentale valore anche in medicina) di ricorrere a un ospedale che – su scala provinciale o di area vasta che sia –abbia, come quello di Macerata, tutte le specializzazioni diagnostiche e terapeutiche in grado di collaborare tempestivamente fra loro. Non è vero, invece, che, “praticamente”, le Province non esistono più. Nel Maceratese, infatti, l’istituzione “Provincia” è viva e vegeta, con un Consiglio e un Presidente eletti nel 2011 e un mandato che scadrà nel 2016.

Una scena de "Il giovane favoloso"

Una scena de “Il giovane favoloso”

E adesso cambio argomento – ma, ripeto, lo cambio fino a un certo punto – e passo allo straordinario successo che sta avendo in tutta Italia “Il giovane favoloso”, il film di Mario Martone sulla vita di Giacomo Leopardi. Dal 16 di ottobre una ventina di film anche stranieri hanno debuttato nelle sale italiane e quello di Martone si è subito piazzato al secondo posto, preceduto soltanto da “… E fuori nevica”, la spassosa commedia di e con Vincenzo Salemme (174mila spettatori contro 192mila, un milione e 110mila euro di incasso contro un milione e 200mila). Ma con l’andar dei giorni l’opera di Martone ha effettuato il sorpasso e gli ultimi dati la trovano in testa, tanto che i produttori hanno deciso di aumentare le copie in circolazione. Mi rendo conto che queste cifre non bastano, da sole, a certificarne la qualità artistica. Ma deve pur significare qualcosa l’eccezionale risposta “popolare” a un film che per sua natura non intendeva e non intende adeguarsi ai “popolari” gusti di massa. E per le aspettative di “botteghino” la scommessa di Martone poteva apparire temeraria, né la gelida ed esterofila accoglienza della giuria della Mostra di Venezia gli aveva fatto da traino. Invece Martone l’ha vinta, questa scommessa. Merito suo, ovviamente. Specie per il “taglio” anticonformistico che lui ha saputo dare alla figura umana – esistenziale, poetica, filosofica – di questo universale genio recanatese (“giovane”, insisto) e collocabile, appunto come “giovane”, in un passato che sa di futuro.

Anticonformismo, ho detto. E in questo film ce n’è molto, specie rispetto all’immagine che in tanti anni ce ne ha dato la scuola. Si pensi al ruolo del padre Monaldo, di solito rappresentato come ottuso ed egoistico “padrone” di Giacomo e invece, nel film, pieno d’affetto per lui e timoroso che le insidie di quell’allora incipiente modernità – Monaldo, sì, strenuamente fedele allo Stato Pontificio – potessero avere il sopravvento su un figliolo così gracile e fragile. E, ancora, quel celebre verso di Giacomo che dice “è funesto a chi nasce il dì natale” e che per lungo tempo è stato attribuito ai tormenti delle sue malattie e invece è una ben più elevata riflessione filosofica sull’immutabile e incolpevole impassibilità della “natura” che, da “matrigna” qual è, riserva a tutti ogni sorta di male (il leopardiano “pessimismo cosmico”). Ma il Giacomo di Martone non si rassegna e per l’intera sua esistenza – perfino sfidando, da solo e piegato in due, le sordide notti dei bassifondi napoletani – si batte per la vita con una pur debole forza fisica ma con una forte tenacia spirituale e morale (“Non si attribuisca alla mia malattia ciò che si deve al mio intelletto”). Illusione, la sua? Forse. E sarà illusorio anche l’appello rivolto alle ginestre del Vesuvio (“La ginestra o il fiore del deserto” è il suo ultimo capolavoro poetico) che pur sapendo di dover essere incenerite dal vulcano trovano conforto nello stringersi insieme: “L’umana compagnia / tutti fra sé confederati estima / gli uomini, e tutti abbraccia / con vero amor porgendo”.

Vanni Leopardi all'anteprima del Giovane Favoloso

Vanni Leopardi all’anteprima de “Il giovane favoloso”

E vien da pensare all’Operetta Morale del dialogo fra Porfirio che intende suicidarsi e Plotino che lo dissuade: “Viviamo, Porfirio mio, e confortiamoci insieme: non ricusiamo di portare quella parte dei mali che il destino ci ha stabilita. Attendiamoci a tenerci compagnia l’un l’altro, e andiamoci incoraggiando, e dando mano e soccorso scambievolmente, per compiere nel miglior modo questa fatica della vita”. Ancora illusione? Certo, la “Natura è Matrigna”. Ma nel 1820, a ventidue anni, Giacomo scrisse: “O le illusioni riprenderanno corpo e sostanza in una vita energica e mobile, e la vita tornerà ad essere cosa viva e non morta, e la grandezza e bellezza torneranno a parere una sostanza, o questo mondo diverrà un serraglio di disperati, e forse anche un deserto”. Questo era Giacomo e questo torna ad essere nel film di Martone. Illusioni? Ne abbiamo un gran bisogno, oggigiorno. E ne hanno bisogno soprattutto i giovani. Ecco la ragione, forse, del successo di un film dal quale può giungere un messaggio sulla nostra attualità.
Ma per quale motivo, stavolta, ho iniziato a parlare dell’ospedale di Macerata e poi sono passato al film su Leopardi avvertendo i lettori che sono sì argomenti diversi ma lo sono fino a un certo punto? Vado a rileggermi il “Discorso sullo stato presente dei costumi degli italiani” che Giacomo scrisse nel 1824, a ventisei anni. “Gli italiani – diceva lui – hanno piuttosto usanze e abitudini che veri costumi”. E “ciascuno segue l’uso proprio, quale che sia”. E i “costumi generali e pubblici non sono seguiti che per liberissima volontà, determinata quasi unicamente dall’assuefazione e dall’averla veduta fare ai ‘maggiori’ senz’attaccarvi importanza alcuna e senza che l’animo né lo spirito nazionale vi prenda alcuna parte”. E chi intendeva, lui, per “maggiori”? Intendeva coloro che fanno politica, governano, detengono il potere. E ne deriva una società slabbrata, sfibrata, dominata da corporazioni e da caste, “ristretta al solo presente” e nella quale i “maggiori” hanno perduto “il senso dell’onore e non si vergognano di fare il male”. Ecco allora la mia conclusione: siamo sicuri che in tutto questo non c’entri, magari solo un pochino, anche l’ingiusto smembramento di un ospedale provinciale?

 

 

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