«I nostri pazienti sono già fragili,
abbiamo attivato 3 percorsi
Futuro? Servono investimenti»

L'INTERVISTA - Franco Sopranzi dirige il dipartimento di Nefrologia e Dialisi dell'Area vasta 3. «Prendiamo tutte le precauzioni possibili. Già a febbraio nel reparto distribuivamo mascherine ai pazienti e c'era gel disinfettante nelle sale d'attesa. Per la ripartenza Medicina deve essere aperta a tutti e la formazione deve avvenire anche negli ospedali»

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Franco Sopranzi

 

di Luca Patrassi

E’ uno dei volti storici della buona sanità maceratese, una presenza trentennale al vertice del dipartimento di Nefrologia e Dialisi dell’Area Vasta 3 frutto non tanto dell’età ma anche di una carriera esplosa da giovane per il tramite di un concorso “per titoli e per esami” vinto a 43 anni nel 2005, dopo il primo incarico a Macerata nel 1993: si parla di Franco Sopranzi, maceratese di nascita e crescita, bolognese di studi universitari e specialistici.  Si parla di servizi erogati a pazienti già fragili, ancora più esposti al tempo di una emergenza come il Coronavirus.

Come vi siete organizzati?

«Sono pazienti fragili, obbligatoriamente devono venire in ospedale per ricevere i trattamenti. Siamo riusciti non solo a garantire le prestazioni ma anche ad aggiungere una sede operativa in costanza di personale. Tre i percorsi attivi e tutti con accessi ben distinti ed autonomi. Abbiamo i trattamenti erogati, sia per i cronici che per gli acuti, nelle strutture Covid di Camerino e di Civitanova, poi c’è il reparto No Covid a Macerata che ora assiste anche i pazienti di Civitanova ed infine il percorso “grigio”, cioè l’assistenza prestata al paziente di cui non si sa ancora se è contagiato o meno e che arriva con sintomi o con altre situazioni di rischio magari per essere stato vicino a un contagiato. Anche in questo caso abbiamo locali attrezzati ad hoc con percorsi dedicati e nessuna possibilità di contaminazione. Un grande sforzo organizzativo che ci vede presenti nelle strutture di Civitanova, Macerata, Tolentino, Recanati e Camerino».

Attenzione costante a un paziente fragile come il dializzato, impegno accresciuto per il coronavirus: attenzione ripagata dall’assenza di contagi. Pazienti ma anche personale da monitare…

«Domenica prossima – anticipa Sopranzi –  saranno fatti i tamponi a tutto il personale, parliamo di un centinaio di persone operative nelle varie strutture ospedaliere. Prendiamo tutte le precauzioni possibili ma alcune criticità rimangono: il paziente deve venire per forza in ospedale, il personale non può sempre rispettare la distanza di sicurezza visto che il dializzato va attaccato alla macchina e per 4/5 ore va controllato. Poi c’è l’organizzazione legata ai trasporti dei pazienti. In reparto ci siamo mossi già a febbraio dando mascherine ai pazienti e disinfettanti in sala di attesa. Poi dico sempre che al risultato finale concorrono tre fattori che sono la bravura del medico, la fortuna e la provvidenza divina».

Con i pazienti come sta andando?

«Non è cambiato molto rispetto al passato, non ci sono tensioni, anzi il rapporto è ottimo. Avanza anche la normale attività, nei giorni scorsi c’è stato un nostro paziente trapiantato a Bologna».

Con il personale e con l’Asur come va?

«Vanno ringraziati tutti. Il personale medico, i coordinatori, gli infermieri e gli ausiliari che hanno dimostrato professionalità ed hanno fatto squadra. Una squadra diretta con capacità dal direttore di Area Vasta Alessandro Maccioni».

Prima si parlava quasi esclusivamente di malasanità, ora la parola d’ordine è “medici eroi”…

«Sono due esagerazioni. Di eroi hanno bisogno i regimi totalitari, facciamo soltanto il nostro dovere di servitori dello Stato. Per il resto osservo quello che avviene nei paesi anglosassoni: i bianchi ricchi non fanno i medici perché il nostro è un lavoro pesante, fatto di turni di notte, di guardie. Gli inglesi hanno fatto la Brexit su tutto ma non sui medici».

Come dovrebbe essere la sanità dopo il coronavirus?

«Ripartire con gli investimenti sulle strutture e sulle persone. Medicina deve essere aperta a tutti, i giovani devono aver modo tutti di valutare nel tempo se è il corso che fa per loro. Mancano gli specialisti: penso che la formazione non debba essere un’esclusiva delle Università ma debba essere possibile anche negli ospedali. Infine dico che è basilare il ruolo del territorio, bisogna intercettare i pazienti nel territorio dando strumenti adeguati ai medici di base».

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