di Luca Patrassi
La programmazione è sicuramente importante al pari delle competenze professionali: è anche vero che quando ti arriva un’emergenza come quella del Covid 19 il rischio che si corre, in assenza di agganci solidi alla realtà, è quello di essere travolti. Non è accaduto, non sta accadendo anche nei reparti più esposti come quello di Oncologia. L’unità operativa di Macerata ha al momento attivi diversi protocolli clinici riguardanti lo sviluppo di nuovi farmaci a bersaglio molecolare ed immunoterapici, un lavoro che procede al fianco evidentemente di quello di riferimento, la cura e l’assistenza al paziente. Poi, appunto, il ciclone coronavirus. Alla guida dell’Oncologia di Macerata, da circa un anno, è il dottor Nicola Battelli. «Più o meno direttamente, tutti siamo coinvolti. Un nostro oncologo sta lavorando nella struttura Covid di Macerata, tutti abbiamo dovuto incontrare o rapportarci al virus. Si sono modificati alcuni aspetti nel rapporto umano, emotivo e psicologico pur in un feeling che permane tra pazienti, familiari e medici».
Quali strategie avete adottato?
«La chemioterapia la stiamo facendo nell’arco della giornata e non più solo al mattina come accadeva prima dell’emergenza e questo per evitare sovraaffollamenti nelle stanze, un solo paziente alla volta e da solo, misurazione della temperatura, esame anche via mail delle analisi per evitare controlli ambulatoriali se non necessari, rinvio delle prestazioni non urgenti senza correre alcun rischio ma sempre in massima sicurezza».
Cambiato anche il sistema interno di comunicazioni?
«Premesso che abbiamo un sistema organizzativo e un personale sanitario che sono di rilievo nazionale, dico che non si fanno più le riunioni tra i vari specialisti per discutere tutti i casi: oggi ci si confronta via cellullare o webcam. Non ci si incontra più fisicamente, per forza di cose. Modificato il modo di lavorare: con la chiusura di Civitanova e lo spostamento a Macerata sono arrivati anche sistemi lavorativi diversi ed ognuno ha cercato di mettersi a disposizione. L’obiettivo resta unico: tutelare il paziente, basta un attimo per produrre danni irreversibili».
Certo, a prescindere da Covid 19, in un reparto come quello di Oncologia l’attenzione deve essere un punto di partenza…
«Esattamente, il livello di attenzione lo abbiamo alzato subito. Eravamo già abituati ad utilizzare i dispositivi di sicurezza e averlo fatto più diffusamente non ha suscitato allarmi, anzi ha dato maggiore tranquillità ai nostri pazienti. Posso dire di avere ricevuto molti messaggi di sostegno dai pazienti e dalle istituzioni: ci siamo mossi molto prima rispetto agli altri, abbiamo tutelato i nostri pazienti e noi stessi».
Segnali di attenzione, di sicurezza, ma qualcosa si è pure perso nella vita di tutti i giorni…
«Sì, non c’è più il contatto fisico. La stretta di mano, gli abbracci a chi scoppia a piangere e cerca un contatto: ecco il contatto umano per un malato oncologico vale più di ogni terapia farmacologica».
Una volta che, prima o poi, sarà passato il coronavirus cosa pensa debba rimanere in tema di sanità pubblica?
«Per dodici mesi all’anno siamo un Paese di allenatori di calcio e di politici, credo che un conto siano quattro chiacchiere al bar e un altro le decisioni che competono ai politici. Alcune riflessioni credo si rendano necessarie, oggi si leggono con un occhio più critico i tagli fatti in passato alle strutture e al personale. Bisogna imparare da quello che è successo per costruire il futuro. Non si può pretendere di dimezzare il personale erogando lo stesso servizio e chiedendo più qualità, basandosi sul sacrificio di medici ed infermieri. Non parlo dell’oggi, lavoro in un’Area vasta dove la direzione ha dato segni chiari di apertura su questo fronte. L’Italia ha un sistema sanitario tra i primi nel mondo, siamo un Paese fortunato ma l’esperienza avuta dice che qualcosa dobbiamo fare iniziando dall’incremento dei posti letto di Rianimazione».
Medici visti ora come eroi dall’opinione pubblica…
«In questo momento esiste questa percezione. Vivo ad Ancona e lavoro a Macerata: un paio di volte in questi giorni mi è capitato di essere fermato per controlli. Quando chi avevo di fronte ha visto che sono un medico è come se gli si fossero illuminati gli occhi. Facciamo questo lavoro con il cuore e rischiando la vita per aiutare gli altri. Fa parte del mio lavoro, è la mia missione. Chiediamo solo di poterlo fare al meglio».
Una cosa da fare?
«Abbiamo fatto vedere che possiamo progettare e costruire un centro Covid di eccellenza in pochi giorni. Ma lavorare in emergenza non è come progettare il futuro: per avere i medici che ora invece mancano, bisogna essere all’altezza di programmare per tempo. Siamo stati all’altezza nell’emergenza, qualche criticità c’è stata in fase di programmazione».
Possiamo dire solo grazieeee
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