Energia e centrali:
copiamo gli americani

IL BIOGAS E LE ALTERNATIVE - Il vero cambiamento è l'autosufficienza energetica dei singoli edifici

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Fabio Fraticelli

di Fabio Fraticelli*

Tra le centinaia di articoli scientifici e libri che tengo nella mia biblioteca ve ne è uno che mi sta particolarmente a cuore. Si chiama “Interpretare l’agire, una sfida teorica”, di Bruno Maggi, uno dei più illuminati Professori che l’accademia italiana abbia mai conosciuto. In un passaggio chiave della sua teoria, il professor Maggi sostiene che c’è vero cambiamento quando si modificano i presupposti che condizionano le azioni umane implicate in un processo. Suona come una roba piuttosto teorica, ma mi è stata utilissima qualche anno fa durante una conversazione con Sheridan Steele, Superintendent all’Acadia National Park ed uno degli uomini chiave dell’intero National Park Service americano. Si discuteva su nuove forme di approvvigionamento energetico, per cercare di capire se la soluzione migliore fosse sostituire le attuali centrali elettriche con nuovi siti di produzione energetica “a più basso impatto” oppure rendere efficiente energeticamente ogni singolo edificio e dotarlo di pannelli fotovoltaici, pozzi geotermici ed altre soluzioni che lo facessero diventare energeticamente indipendente. Su questo punto negli USA non hanno avuto dubbi: indipendenza energetica mediante produzione distribuita.

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Una casa autonoma

In un recente documento strategico intitolato “A call to Action – Preparing for a Second Century of Stewardship and Engagement”, il National Park Service si è impegnato con la direttiva #23 – “Go Green”, a dimezzare il livello di emissioni di CO2 mediante l’efficientazione energetica e l’utilizzo di energie rinnovabili generate all’interno dei parchi ed utilizzate dalle loro strutture (uffici, centri visita, ecc). Parliamo di investimenti consistenti, destinati a diversi interventi fra cui installazione di doppi vetri, sostituzione di tutte le lampadine ad incandescenza con lampade a led, utilizzo di fotovoltaico, mini eolico e geotermico applicato sui singoli edifici. Recentemente ho saputo che quella direttiva è venuta fuori anche grazie alla discussione fatta con Sheridan, e dunque grazie alla teoria del professor  Maggi.

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Il segretario agli interni Salazar

Il cuore del mio ragionamento era questo: se tu sostituisci una centrale a carbone con una a biogas o con un parco fotovoltaico, non stai cambiando il paradigma, quindi non stai davvero risolvendo il problema. Il punto è rendere ciascun edificio indipendente energeticamente, in modo tale da trasformare le “centrali elettriche” in elementi non più indispensabili nella strategia energetica complessiva. Dal mio punto di vista (e ora posso dire anche da quello del National Park Service) se vuoi risolvere l’annosa questione energetica, devi rendere autonomi gli edifici, e per farlo devi distribuire le fonti di generazione dell’energia proprio nei luoghi in cui c’è bisogno di quell’energia. In questo modo i terreni coltivati continuano a fare il loro mestiere (cioè produrre cibo per gli uomini), le centrali “non green” vengono chiuse (e si contribuisce a rallentare il climate change), e gli edifici vedono comunque garantito il loro fabbisogno energetico (lasciando intatto il benessere di chi ci vive dentro). Ovviamente questa soluzione rappresenta una sfida grande, che mette in moto dinamiche complesse. A livello aggregato occorre studiare soluzioni che garantiscano un bilancio energetico complessivamente positivo e possibilmente “migliore” rispetto all’attuale. Sotto questo profilo la tecnologia può dare una mano: con la rivoluzione degli open data e l’avvento dell’internet of things (una realtà, oramai) i differenti edifici potranno “comunicare” e ottimizzare automaticamente (mediante “transazioni energetiche”) i livelli di energia prodotta-consumata rispetto a quelli di energia prodotta-ceduta. A favore della produzione energetica “distribuita” c’è infine la questione della path-dependency: ogni scelta “a basso fattore di convertibilità” (come una strada, un ponte o una centrale) condiziona il percorso di sviluppo di un territorio per gli anni a venire. Mentre si può dibattere sulla convenienza energetica ed economica di un parco fotovoltaico o di una centrale a biogas, non possono esservi dubbi sul loro impatto in termini di modificazione permanente delle peculiarità dei territori che le ospitano. Anche per questo il National Park Service ha scelto di percorrere la strada della produzione energetica distribuita anziché centralizzata. La scelta contraria avrebbe avuto l’increscioso inconveniente di modificare quasi irreversibilmente i meravigliosi paesaggi dei grandi parchi americani che tutti conosciamo.
fraticelliRiportando questo punto sul terreno domestico, nessuno di noi può realisticamente prevedere quanta parte della nostra economia sarà sostenuta dal turismo “eno-gastronomico, culturale ed ecologico” negli anni a venire (nonostante i dati sembrino supportare una tendenza positiva a riguardo). Di certo c’è che un perseguimento “spinto” di logiche di produzione centralizzata dell’energia (caratterizzate dalla costruzione di nuove centrali) altererebbe pesantemente l’assetto del territorio così come lo conosciamo oggi e così come rappresenta un’attrattiva unica (come ci hanno recentemente dimostrato le fantastiche riprese dal famoso video di David Kong). Tutte queste considerazioni e la mia esperienza americana si sono condensate nei miei pensieri leggendo le cronache locali e nazionali che da Brescia a casa mia, Macerata, vedono scontrarsi sostenitori e detrattori del biogas. E’ evidente che io non sia un esperto di queste tematiche e chiaramente non ho la pretesa di avere una risposta definitiva a problemi così intricati: come ricercatore e specialist per il National Park Service americano posso però condividere un metodo che ho visto funzionare bene oltre oceano. Pensare “fuori dalla scatola”, analizzando il problema a livello sistemico, confrontandosi con i migliori del settore a livello mondiale (uno per altro è un’azienda marchigiana che si chiama Loccioni ed è un caso di studio planetario), cercando di capire tutti insieme se possono esserci strategie in cui tutti vincono: residenti, costruttori e agricoltori. Anche in questo possiamo “copiare” qualcosa dagli Americani: due anni fa ho partecipato ad un caucus di esperti con il segretario degli interni Salazar, United States Secretary of the Interior nell’amministrazione Obama (l’equivalente del nostro Ministro degli Interni). In questo confronto sono emerse alcune possibilità “scientificamente accettabili” riguardo alle politiche di conservazione di un’ampia porzione di terreno nel nord del Maine. Quelle possibilità sono state poi discusse in una serie di assemblee pubbliche in cui le varie “forze in gioco” si sono “scornate” con l’obiettivo comune di trovare la migliore soluzione per la collettività. Un grande esempio di democrazia (per altro ulteriormente facilitato dall’uso di internet) che potrebbe di sicuro essere “importato” anche a casa nostra per affrontare la questione con l’unico atteggiamento che mi appare possibile: la tutela del bene comune.

* ricercatore e specialist per il National Park Service americano (leggi l’articolo)



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