di Maria Stefania Gelsomini
Con un sospiro di sollievo, lo Sferisterio ritrova gli applausi grazie al Trovatore. La seconda opera verdiana in cartellone non ha deluso gli spettatori e ha restituito un po’ di smalto alla 49ª stagione lirica. Non che si sia assistito a un capolavoro, sia ben chiaro, ma del resto, anche non volendo, il paragone con la prima del Nabucco era inevitabile. E nel confronto, il Trovatore vince (facile) sei a zero: cast, regia, costumi, scene, orchestra, coro. Il Trovatore è di per sé un’opera più sanguigna, intrisa di quello spirito drammatico che la rende musicalmente trascinante ed emotivamente coinvolgente. E l’utilizzo ben calibrato di qualche effetto speciale, ma senza eccessi, ha soddisfatto la voglia di spettacolarità della platea.
Un Trovatore nel complesso rigoroso, essenziale, curato nei movimenti delle masse e nella recitazione dei solisti, certo lontano anni luce dall’ultimo Trovatore visto allo Sferisterio, quello classico e opulento di Enrico Job del 1990. Nel suo allestimento il regista messicano Francisco Negrin, pur in una ambientazione tutto sommato atemporale, mantiene e sottolinea le tinte cupe e fosche che ammantano la storia, ambientata nell’Aragona tardo-medievale. In questo allestimento il muro è quello fra nobili e zingari, ma anche fra due fratelli. Le divisioni sono quelle dell’odio, della vendetta, della morte. L’idea registica, secondo quanto spiegato dal direttore artistico Francesco Micheli nella presentazione della prova generale, era quella di ricreare le atmosfere di un thriller psicologico contemporaneo nello stile cinematografico di film come Shining o The Others, raccontando una vicenda ricca di fascino in cui i fantasmi del passato emergono e restano presenti. Anche qui, come in Nabucco, le risorse erano limitate, anzi ridotte all’osso. Ma la messa in scena risulta coerente e meglio confezionata, e soprattutto risparmia agli spettatori le solite sfruttate proiezioni sul muro, che tra l’altro qui è privo di qualsiasi apertura per cui coro e cantanti entrano sul palco solo dagli ingressi laterali o vi salgono dalla botola nel pavimento.
Il palcoscenico, privo di fondali scenografici, è attraversato da parte a parte da due lunghissimi tavoli di legno scuro, intorno ai quali e sopra ai quali si svolgono quasi tutte le azioni. Gli unici altri elementi sul palco sono una torretta posta in fondo a sinistra, sulla cui sommità compare nei momenti cruciali il fantasma della zingara arsa viva, e sette grossi lampadari cilindrici appesi al muro. Ma il vero protagonista dell’impianto scenografico è il violento gioco delle luci, che come evidenziatori macroscopici mettono in risalto i movimenti e i caratteri dei personaggi. Luci rosse, blu e bianche. Non c’è nient’altro. Le luci blu si riflettono sui volti dei coristi-zombie, le luci rosse esplodono dal muro su cui si stagliano le figure degli zingari disposti in fila e ritagliati come tante figurine di carta nera. Le luci bianche o rosse fosforescenti infiammano di volta in volta i bordi dei tavoli. E poi la luce del fuoco, che splende nel braciere, che brucia sul rogo, il fuoco della vendetta compiuta che nel finale incendia i due tavoli in tutta la loro lunghezza e sancisce il compiersi della tragedia.
Il Trovatore maceratese presenta, già nel preludio, tutti gli elementi simbolici che anticipano il dramma. La prima a entrare in scena è Azucena, straziata dal dolore, che attraversa tutto il palco. All’attacco dell’orchestra entrano strisciando i coristi avvolti da luce blu, mentre al centro della scena, in piedi sul tavolo bordato di luce rossa fosforescente, i due protagonisti Manrico e Conte di Luna (fratelli a loro insaputa) incrociano le armi: sono le grandi falci della morte dalle lame blu.
Nel palazzo dell’Aliaferia a Saragozza, il Ferrando spavaldo e minaccioso di Luciano Montanaro, avvolto in un lungo cappotto rosso fuoco, racconta l’amore del suo padrone, il Conte di Luna, per la principessa Leonora a un gruppo di bimbetti vestiti con tuniche nere bordate di rosso da chierichetti. E racconta la storia di una zingara arsa sul rogo quindici anni prima per aver stregato uno dei due figli del vecchio Conte di Luna, e di Azucena, figlia di quella zingara, riuscita a rapire il bambino e a gettarlo nel fuoco. Nel frattempo gli uomini, allucinati dalla luce fredda sui volti deformati, passano fra i tavoli in fila indiana e siedono per ascoltare l’“Abbietta zingara, fosca vegliarda”. La presenza dei bambini stempera, con la tenerezza e l’innocenza di reazioni piene di paura, la terribile drammaticità delle parole. Sulla torretta appare la zingara evocata da Ferrando, avvolta da una demoniaca luce rossa, e al grido del coro “Ah scellerata!… Oh donna infame!” il fuoco avvampa improvviso dietro di lei. La vecchia tiene legati ai due capi di una lunga corda rossa fosforescente Azucena e il bimbo bruciato: è il filo del dolore che lega i tre personaggi. E intanto s’incendia anche il braciere, simbolo del rogo su cui morì la zingara.
La scena cambia, è il momento dell’ingresso di Leonora con l’amica Ines. È il momento della confessione d’amore per il misterioso Trovatore, con l’aria “Tacea la notte placida”. La Leonora di Susanna Branchini, vestita con un semplice e austero abito nero, è una giovane donna ribelle, fiera e combattiva, pronta a tutto pur di difendere il suo amore. Il Conte di Luna di Simone Piazzola, che indossa una lunga palandrana nera di velluto bordata di rosso, canta “Tace la notte” sotto al balcone di Leonora, ma l’arrivo del Trovatore e la scoperta dell’amore di Leonora per lui lo rende furioso: “Di geloso amor sprezzato arde in me tremendo il foco!”. I due si fronteggiano e brandiscono le falci come nella scena iniziale, mentre gli uomini delle due fazioni cadono in terra come birilli. Cade anche Manrico, e viene creduto morto. A questo punto dell’opera, è salito dalla platea il grido di uno spettatore che non ha evidentemente gradito la scena: un doppio “vergogna, vergogna!”, ma è rimasta l’unica isolata contestazione della serata.
La scena successiva si apre con il celebre canto degli zingari “Chi del gitano i giorni abbella? La zingarella!”. Gli uomini stanno schierati lungo il muro, avvolti dalla luce blu, mentre le donne siedono a uno dei tavoli, con il capo coperto e vestite di lunghe tuniche nere, nere come la vedova evocata dalle parole del coro, la volta notturna del cielo. Azucena narra a Manrico (che crede d’essere suo figlio) la drammatica storia della madre arsa viva sul rogo perché accusata di aver operato un maleficio contro il figlio del Conte di Luna, e gli confessa di aver rapito il bimbo e di averlo gettato nel fuoco per soddisfare la sua richiesta di vendetta. Attacca la celeberrima “Stride la vampa!” mentre il bimbo morto, continuamente presente nella narrazione e sul palco, osserva seduto sul tavolo Azucena e Manrico, e sullo sfondo sfila il fantasma della zingara stretta nella corda rossa. Quando si lascia sfuggire di aver bruciato per errore il proprio figlio, Azucena stringe a sé dilaniata dal rimorso il bambino bruciacchiato, e l’immagine è di forte impatto, fino alla terribile invocazione finale “Mi vendica!”. È da lì che tutto ha avuto origine ed è lì che il destino arriverà a compimento. Manrico viene a sapere che Leonora, credendolo morto, vuole entrare in convento e decide di partire per impedirlo, contro la volontà di Azucena che non vuole lasciarlo andare. Quando Manrico scappa, il fantasma del bimbo bruciato ricompare.
Nella scena successiva, le religiose in processione che indossano dei lunghi veli di tulle rosso preparano Leonora a prendere i voti. Il Conte è pronto a rapirla (“Leonora è mia.. Ah l’amor, l’amore ond’ardo le favelli in mio favor!”) ma all’arrivo di Manrico è Leonora a cantare la sua gioia: “Sei tu dal ciel disceso, o in ciel son io con te?”. Bello il concertato, con i due innamorati al centro del tavolo bordato di rosso, il gruppo delle suore a terra sulla sinistra, il Conte e Ferrando in piedi dal lato opposto, i coristi schierati lungo il muro avvolti dalla luce rossa. È di nuovo lo scontro fra i due rivali, ma la mano di Manrico inspiegabilmente si ferma al momento di colpire a morte il Conte. Ed è qui che si conclude la prima parte.
La seconda si apre nell’accampamento vicino Castellor dove i soldati del Conte, coi volti sempre terrei e ammantati di luce blu, in piedi sui tavoli stringono i pugnali pronti all’assalto della fortezza. I bracieri vengono accesi, tutto arde di luce rossa, il dramma sta per compiersi. Il Conte di Luna vuole separare i due innamorati (“In braccio al mio rival!”). Mentre sulla torre brucia anche la zingara al rogo, il bambino morto si dirige verso Azucena che, catturata dagli armigeri, racconta la sua storia al Conte di Luna. Quando rivela finalmente di essere la madre di Manrico, e il Conte ha la possibilità di vendicare attraverso di lei la morte del fratello, resta avviluppata nel filo rosso che i coristi si passano uno ad uno e che la lega sempre più stretta, con il capo in mano al fantasma della zingara. Intanto Manrico e Leonora stanno per sposarsi e il giovane canta il suo amore (“Amor… Sublime amore”), ma gli acuti di Machado ballano e l’applauso qui è debole. Quando giunge la notizia della cattura di Azucena, Manrico corre dalla madre. Il momento clou si avvicina, risuona con impeto “Di quella pira l’orrendo foco” e la luce rossa avvolge i coristi schierati lungo il muro, i lampadari sinora abbastanza inutili si accendono a intermittenza, sui tavoli si combatte una feroce battaglia, fino alla cattura di Manrico. Che non conclude con un bell’acuto la sua aria.
Dopo l’aria di Leonora “D’amor sull’ali rosee” cantata con giusto dolore nella voce ma senza una autentica commozione, il lamentoso Miserere del coro accompagna Manrico incatenato in cima alla torre. Leonora cammina sui tavoli e al suo passaggio si illuminano i bordi di luce bianca. L’addio di Manrico alla sua amata è forte e appassionato, e qui il tenore si esprime al meglio: “Sconto col sangue mio l’amor che posi in te!…Non ti scordar di me! Leonora addio!”.
Leonora tenta di salvarlo dalla pena di morte con un gesto estremo: finge di concedersi al Conte in cambio della sua libertà. A questo punto, non si capisce perché, ottenuta la promessa da Leonora, il Conte la spinge via e la strattona quasi con disprezzo e violenza, per poi amoreggiare con lei appoggiato alla torretta. Leonora corre in carcere da Manrico per dargli la notizia, e i due giovani sono legati dalla corda rossa tenuta dalla zingara morta. Manrico intuisce il prezzo della sua libertà e la maledice (“Ha questa infame l’amor venduto”), ma scopre che Leonora ha bevuto del veleno per sfuggire al Conte. C’è un momento di speranza, troppo breve, in cui Leonora implora Manrico di fuggire, in cui Azucena vagheggia il ritorno fra le montagne della Biscaglia col figlio, ma tutti e tre verranno delusi. Si srotola il filo rosso che incatena anche Leonora, e muore fra le braccia dell’amato. In questa scena d’amore e morte, il Manrico di Aquiles Machado mostra qualche difettuccio ma il suo canto coinvolge. La Branchini svolge il suo compito correttamente e con notevole impegno, senza sbavature, ma potrebbe e dovrebbe emozionare di più.
Mentre in prigione madre e figlio attendono la morte, è tutto un accendersi di roghi, passati e presenti: Azucena invoca il rogo che la aspetta ed evoca quello della madre mentre il figlioletto morto si avvicina di nuovo, si accendono tutti i bracieri, tutto arde di luce rossa infernale, si illuminano i lampadari, brucia la strega in cima alla torre. Il Conte uccide Manrico e Azucena gli rivela che era suo fratello. I tavoli si incendiano. La vendetta è compiuta. Il fantasma della zingara, apparsa sullo sfondo, è finalmente vendicato.
Le prove dei cantanti sono piaciute al pubblico, ma gli applausi più scroscianti sono andati, meritatamente, alla mezzosoprano albanese Enkelejda Shkosa (Azucena) e al baritono veronese Simone Piazzola (Conte di Luna). La Shkosa è davvero brava e sfodera con personalità tutta la grinta necessaria per affrontare il ruolo di Azucena, convincente nel rendere il tormento del personaggio, grazie a una voce potente, scura, profonda ma ricca di sfumature.
Ottima prova anche per il giovane Piazzola, che ha sicuramente un bel timbro e ha saputo interpretare un Conte di Luna brillante e vocalmente sicuro. Buon successo personale anche per Aquiles Machado (Manrico), che torna a Macerata dopo l’Elisir d’amore nel 2002 e la Lucia di Lammermoor nel 2003. Il tenore venezuelano vanta ormai una consolidata carriera internazionale e la voce è bella, ma mostra, a tratti, dei problemi nelle note alte. C’è l’intenzione, c’è l’intensità, ma quando spinge gli acuti escono spesso traballanti.
Molto apprezzata anche la giovane soprano Susanna Branchini, che porta a casa una discreta interpretazione, ricca di piglio e temperamento. La voce ha squillo e un bel colore, mancano ancora forse quella raffinatezza interpretativa e quella maturità vocale, quelle morbidezza e quei mezzi accenti che danno intensità al canto e rendono sublime il racconto d’amore.
Buona accoglienza anche per gli altri comprimari Luciano Montanaro (Ferrando), Rosanna Lo Greco (Ines), Enrico Cossutta (Ruiz) e per l’orchestra diretta dal maestro Paolo Arrivabeni.
(foto di Alfredo Tabocchini)
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La recensione della prima del Nabucco (leggi l’articolo).
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Il Trovatore è stato bellissimo!!! Un sospiro di sollievo dopo l’orrore del Nabucco….
Grazie, Maria Stefania. E’ sempre un piacere leggerti.
Mi colpiva l’immagine del coro che striscia. E’ fortemente (non so quanto volontariamente) simbolica: restando il fatto che in tutto il Romanticismo (sia letterario che musicale) il coro è l’evocazione del popolo (con tutte le conseguenze ideali che comportava il periodo della prima metà dell’Ottocento), vedere oggi un coro che striscia… la dice lunga…
Da Nicoletta Budini Gattai riceviamo:
Purtroppo anche quest’anno ci sono cascata ! sono andata a vedere “Il Trovatore ” sabato 20 luglio. Appena entrata ho visto, cioè non ho visto una scenografia, perchè non c’era. Due lunghi tavoli e qualche sgabello !! Mi sono impensierita, non sarà come l’anno scorso, mi sono detta! Invvece era la stessa solfa: niente scene, niente costumi, niente colori ! Anni fa allo Sferisterio ho visto delle opere che erano un vero spettacolo! Ripensando a quei tempi, ho invitato e ospitato gente da fuori per vedere l’Opera allo Sferisterio, ma non credo che verranno più e neppure io verrò. Certo io non sono una che si intende di opera, né posso esprimermi con la terminologia del critico, però, semplicemente se vado all’Opera mi aspetto di vedere uno “spettacolo”, non un mortorio; se pago 70.00 euro il biglietto, vorrei vedere un ” bello spettacolo ” !!!
Letto il comunicato della Signora Nicoletta Budini Gattai, mi sento di dire che nel caso del Trovatore ,se non è rimasta soddisfatta dello spettacolo per l’assenza di vivacità di colore , di fasto sul palcoscenico, di leggerezza, non se la prenda con il regista, semmai con il librettista , al limite con Giuseppe Verdi che ha voluto musicare il dramma di Gutiérrez, o meglio ancora con chi ha scelto il titolo per quest’anno ( in effetti tra i meno adatti al secondo anno, quello più difficile e decisivo nel rilancio dell’Arena, benchè compreso nella cosiddetta trilogia popolare verdiana sarebbe stato meglio un Falstaff, allora, l’ultima Opera dell’ultimo Verdi, ispirato a ‘Le allegre comari di Windsor’ di Shakespeare; Scelta più opportuna anche da un punto di vista in ottica sperimentale, com’è nella strategia del nuovo D.A., ma non spetta a noi ) poichè dati i contenuti del melodramma , Il Trovatore è in sè un’opera cupa, a tinte fosche, quasi intimista.
In ogni caso, battute a parte, anche se neanche io come lei sono un critico teatrale, ma semplice spettatore abbastanza smaliziato, mi lasci dire che la bellezza di uno spettacolo è nell’insieme ,anche se la scenografia gioca un ruolo importante , non è certo l’unico aspetto sui cui fondare un giudizio estetico. A volte, anzi meglio inquadrarla solo come tramite . Ovviamente – mancherebbe- si è liberi di criticare ogni scelta di regia a seconda dei propri gusti con riferimento all’aderenza o meno alla stesura originale , “all’interpretazione autentica “ di un’ Opera, ma in questo caso il regista , Francesco Negrin, forse perchè a paragone col Nabucco, che per me altro non è stato che un boccone premasticato ( non mi piace personalmente di chi si voglia spettacolo, che il fattore etico domini su quello estetico – estetica ,ovvero capacità di sentire, percepire- in quanto tu regista , non puoi offrirmi uno spettacolo e impormi però anche cosa e come io DEVO sentire a senso unico, preferendo alla pappa omogeinizzata, finchè posso, masticare coi miei denti e digerire col mio stomaco ) a mio avviso ha fatto un ottimo lavoro interpretativo tutto incentrato in funzione referenziale del racconto , teso in primo luogo quindi a facilitare il pubblico nella lettura della complessa trama dell’Opera in questione , attraverso ” i segni”.
Quella che per lei è stata una scarna scenografia, i due tavoli con tanti sgabelli come li ha chiamati, nel momento in cui sono lì in primo piano, e fissi per tutta la durata dell’Opera , come anche le sette lanterne che sovrastano la scena ,poste come tanti accenti che si illuminano a seconda dell’enfasi narrativa, o la Torre, o il fil rouge che passa di mano in mano, scorre a più tratti sul fondo , vorrei far notare ,non sono più semplici oggetti in scena, ma veri e propri elementi narrativi. Oltre quanto già espresso nella recensione della Gelsomini, la mia chiave di lettura dei pochi ma sostanziosi oggetti presenti, è stata infatti quella che il regista abbia voluto farne un utilizzo , ben artato, tutto in funzione esplicativa come a voler prendere per mano lo spettatore e guidarlo lungo il viaggio di un racconto spazio-temporale, che è allo stesso tempo , sempre, un viaggio anche interiore. Il palcoscenico era infatti suddiviso in più luoghi narrativi. Sul davanti i tavoli ,dove sopra e intorno si svolgeva ogni azione del racconto relativa al tempo presente con una sottolineatura di luci volta a concretizzare ogni aspetto materico della trama -il fuoco – o psicologico dei protagonisti attraverso il variare, a volte repentino, burrascoso, a volte lento, ritmico, graduato delle tinte dominanti simbolicamente rappresentate dai colori bianco, azzurro, rosso, giallo, a illuminare il ciglio del lungo tavolo – come lungo è il racconto, anche – sul retro , ogni altro elemento relativo all’intreccio avvenuto in passato ,come pure ciò che riguarda i bassi istinti, gli abissi , le profondità dell’animo umano, mentre nel mezzo ciò che lega passato e presente, ovvero i fantasmi del passato che incombono sulle vite dei vari protagonisti , mentre si consuma il loro dramma e la loro vendetta fino alla catarsi del tragico epilogo.
In questa chiave, il tavolo quindi è tutto fuorché un tavolo, ma un piano di racconto lineare, una tavola illustrativa, una chiara sceneggiatura visiva che va dalla premessa, al culmine, alla risoluzione , passando tra i diversi plot e subplot tipici di un racconto per suoni ed immagini.
Infine, e senza alcuna voglia di polemizzare, approfitto per replicare a quanti vanno dicendo ” Bella la libertà di dire tutto quello che ti passa in testa” oppure ” Facile criticare hè? ” , che criticare non è per niente facile, al contrario , facile è mandar giù, bersi, tutto quello che passa l’oste della sua cantina.