Un lungo muro del pianto
Nabucco non all’altezza dello Sferisterio

LA RECENSIONE DELLA PRIMA - Deludono regia, cast, scenografia e costumi. Sottotono anche il coro e l'orchestra. Positivo solo il botteghino

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nabucco prima sferisterio

di Maria Stefania Gelsomini

 Meglio togliersi subito il dente, inutile girarci intorno. Questo Nabucco sottotono non ha colto nel segno. Lo Sferisterio avrebbe meritato, com’è nella sua storia prestigiosa e nella sua gloriosa tradizione, ben altra apertura. Che le critiche non sarebbero state favorevoli lo si percepiva già dopo la generale, tanto che Francesco Micheli aveva dichiarato “potrà piacere o non piacere, ma c’è la profonda volontà di tutti gli artisti affinché Nabucco sia saga di popolo, di umanità in viaggio. Porrà interrogativi interessanti, farà discutere, perché il teatro è dialogo, non è un tribunale e non si giudica”. In effetti degli interrogativi questo allestimento li ha posti, ma bisogna chiedersi quali. A volte le buone intenzioni e l’uso dei simboli non bastano a confezionare un bello spettacolo. Sul fatto che il teatro non si giudichi ci sarebbe molto da discutere, poiché nel momento in cui un artista sale sul palcoscenico si sottopone necessariamente al giudizio del pubblico (e della critica), ed è il pubblico, attraverso gli applausi o i fischi, ad esprimere il gradimento e a decretarne il successo o l’insuccesso, a far percepire all’artista che il suo messaggio è stato percepito.

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Ieri sera il messaggio di Gabriele Vacis il pubblico non l’ha tanto percepito. Però chissà perché, ormai impera il politically correct anche a teatro e nessuno manifesta più il proprio dissenso, o quasi. A volte invece un sonoro fischio potrebbe essere più salutare di un tiepido e imbarazzato applauso di cortesia. Come quello di ieri sera. Le intenzioni erano delle migliori, per carità: aprire la stagione intitolata Muri e divisioni con un’opera densa di significati che pescassero nei disagi più profondi della nostra attualità. Il conflitto Ebrei-Babilonesi, la diaspora ebraica, l’auspicio di una pace finale. E poi il muro dello Sferisterio, spazio ideale cui sovrapporre il muro del pianto di Gerusalemme, la lavagna su cui scrivere i versetti del profeta Geremia, un muro ideologico che alla fine viene sgretolato dalle note del Va’ pensiero. Altro tema portante dell’opera era l’emergenza acqua. “Le guerre del passato si sono combattute per la terra. Le guerre del presente si combattono per il petrolio. Le guerre del futuro si combatteranno per l’acqua” è la citazione proiettata sul muro dello Sferisterio. E che spiega l’utilizzo di bottiglie e boccioni d’acqua di plastica nella scenografia, decine, centinaia, migliaia. Ma quando l’opera inizia la scena è nuda e vuota, c’è solo un telo giallo a terra, a ricoprire delle sagome indistinte. Sulle note del preludio iniziano a scorrere, sul muro, le proiezioni del panorama di Gerusalemme e diverse scene di vita quotidiana contemporanea, con strade affollate di gente, vie trafficate, negozi, studenti, lavoratori, e il muro del pianto. All’ingresso di coro e figuranti, quando il telo giallo viene sollevato, si scopre un plastico fatto di bottiglie di plastica: è una Gerusalemme in miniatura (riconoscibile per lo più dalla cupola dorata della moschea di Omar), costruita con bottiglie bianche in PET. La prima scena si svolge nel tempio di Salomone, ma è difficile capirlo. Gli Ebrei sono stati sconfitti da Nabucco re di Babilonia, che è ormai giunto alle porte di Gerusalemme. Il popolo e i Leviti in ansia sono rassicurati dal pontefice Zaccaria: la figlia di Nabucco Fenena è prigioniera degli Ebrei. Arriva però Ismaele che, innamorato di Fenena e già liberato da lei a Babilonia, le promette la libertà. Mentre i due decidono di scappare irrompe con un gruppo di soldati babilonesi la schiava Abigaille, ritenuta anch’essa figlia di Nabucco, che offre il suo amore ad Ismaele in cambio della libertà per gli Ebrei ma viene respinta. Si rifugiano nel tempio anche alcuni Ebrei, incalzati dall’arrivo di Nabucco e Zaccaria, per fermarlo, minaccia di morte la figlia Fenena ma Ismaele lo disarma e consegna la donna al padre. Zaccaria lo accusa di tradimento e Nabucco ordina la distruzione del tempio con il fuoco. E fin qui la trama della prima parte che si è svolta, nell’allestimento firmato da Gabriele Vacis, all’interno del suddetto labirinto di plastica, con evidenti difficoltà di movimento da parte di cantanti e figuranti, preoccupati di non inciampare e attenti a non pestare le bottiglie. In particolare le tre vergini che vengono rivestite con un grembiulino celeste e imbracciano timidamente il mitra, indietreggiano a stento tra gli edifici di plastica. Al termine del terzetto Ismaele-Abigaille-Fenena, la città viene smontata a pezzi (in un’atmosfera non si capisce perché quasi di gioia e di festa, da recita di parrocchia) e il telo su cui poggiava viene issato sul muro, mostrando la pianta disegnata della città. È il momento dell’ingresso di Nabucco, annunciato da Abigaille che tiene sotto tiro i nemici con la pistola e da un soldato che entra in scena a cavallo. Entra, si fa un inutile giretto di qua e un inutile giretto di là per intimidire gli Ebrei (che in realtà non sembravano così impauriti) e poi se ne va. Anche l’ingresso di Nabucco non incute quel terrore che ci si aspetterebbe: non è il re terribile ma un Che Guevara di Babilonia, con giacca mimetica gallonata, anfibi e basco rosso in testa, circondato da una schiera di fedelissimi che più che richiamare i soldati iracheni sembravano scagnozzi di un qualche dittatore del centro America. Al momento del grido di guerra “Mio furor non più costretto, fa’ dei vinti atroce scempio; saccheggiate, ardete il tempio, fia delitto la pietà!”, la pianta di Gerusalemme comincia ad animarsi e si spacca, si  sgretola, crolla, lasciando solo resti fumanti. Poco prima della fine della prima parte, e del concertato, entrano in scena, scorrenti su rotelle, i sei pannelli realizzati con i boccioni d’acqua di plastica, mentre sul telo appeso al muro un volo d’uccelli sorvola la cartina geografica spostando l’azione da Gerusalemme a Babilonia.

nabucco abigaille prima sferisterio 3

La seconda parte (L’empio) si apre nella reggia di Babilonia. Abigaille, scoperta la sua condizione di schiava, giura vendetta contro Nabucco e Fenena, nominata nel frattempo reggente della città. Venuta a sapere dal Gran Sacerdote di Belo che Fenena sta liberando gli Ebrei prigionieri tenta di impossessarsi del potere. Intanto Zaccaria annuncia la conversione all’ebraismo di Fenena, che cerca di fuggire da Abigaille ma è troppo tardi. Quando giunge anche Nabucco all’improvviso, e nel delirio di onnipotenza si proclama non solo re ma Dio, viene colpito da un fulmine lanciato dal Dio degli Ebrei e cade tramortito, lasciando la corona contesa nelle mani di Abigaille. In questa parte dell’opera gli elementi scenografici sono rappresentati dai soliti pannelli di boccioni (stavolta solo tre), che con un effetto simile a pareti di vetro-cemento si illuminano con luci di diversi colori, dal rosa shocking all’azzurro al giallo. Il santo codice di Zaccaria è una sorta di tablet che irradia una luce arancione, lo stesso colore delle tute (da meccanico?) indossate dai Leviti. Illuminata da led luminosi anche la corona tecnologica contesa tra Fenena, Abigaille e Nabucco, che alla fine la riprende pronunciando le parole fatali “Non son più re, son Dio!!” e cade fulminato.

Nella terza parte (La profezia), dopo l’intervallo, la scena si sposta nei giardini di Babilonia: Abigaille si è ormai impossessata del trono e approfitta delle precarie condizioni mentali di Nabucco debole e delirante per costringerlo a firmare la condanna a morte degli Ebrei. Resosi conto di aver condannato anche Fenena, ormai convertitasi, vorrebbe salvarla ma viene fatto imprigionare da Abigaille che si dichiara sua unica figlia. Gli Ebrei sono costretti ai lavori forzati sulle sponde dell’Eufrate e rimpiangono la patria lontana, ma Zaccaria li rinfranca annunciando la prossima fine di Babilonia. La quinta scenografica, anche in questa terza parte, è formata da quattro pannelli in vetro-resina plasticata, due centrali in piedi e due laterali appoggiati in obliquo: in ogni boccione è “piantato” un fiore rosso (ovviamente di plastica). Sono questi gli orti pensili di Babilonia di Vacis, più simili a serre asettiche che non a spazi rigogliosi. La scena è tutta d’oro. D’oro è la veste di Abigaille e d’oro sono i suoi gioielli, d’oro è il grosso globo del mondo che i giovani figuranti fanno scorrere davanti ai protagonisti reggendolo con le braccia sollevate, fino a portarlo addosso al muro, dove viene innalzato e resta sospeso sulla scena. L’attacco del Va’ pensiero, e quindi il canto nostalgico del popolo ebreo, il punto cruciale dell’opera, è preceduto dall’ingresso ai due lati del palcoscenico di un furgoncino scalcinato a destra (un furgoncino per il secondo anno consecutivo: si sarà forse riciclato quello di Bohème?) e di una vecchia vespa a sinistra, stipati all’inverosimile di povera gente (di colore), di pacchi e valigie ammassate. Il riferimento ai barconi dei migranti che funge da collegamento ideale fra passato e presente è parso sinceramente un trito cliché. Mentre gli Ebrei si struggono nel canto, si accendono pian piano le luci bianche che ogni corista ha in mano, come tante candeline nei canti della notte di Natale. Nel finale buonista il riflettore è puntato su un ragazzo di colore che si fa strada davanti al coro indossando una felpa bianca con la scritta rossa Italia. Ma forse avrebbe fatto più effetto se ci fosse stato scritto Baci e Abbracci, chissà.

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Nella quarta parte (L’idolo infranto), Nabucco in prigione prega il Dio degli Ebrei, rendendosi conto che la figlia Fenena sta per essere condotta a morte. Rinsavito e ripreso vigore, il vecchio re si mette a capo di un gruppo di suoi fedeli e irrompe nel tempio di Belo appena in tempo. Ordina la distruzione della statua del dio, che si schianta per terra. I prigionieri vengono liberati e Nabucco invita i Babilonesi a convertirsi a Jehovah. Abigaille sconfitta si suicida col veleno, ma non prima di chiedere perdono a Fenena e di augurarle di unirsi ad Ismaele. Mentre muore invocando il dio degli Ebrei, Zaccaria predice a Nabucco il regno su tutta la terra. Ieri sera, il povero Nabucco delirante viene fatto entrare in barella (una barella per il secondo anno consecutivo: si sarà forse riciclata quella di Bohème?), ma poi al momento della ritrovata lucidità indossa di nuovo i suoi panni da Che Guevara medio-orientale. Nella scena successiva ancora proiezioni sul lungo muro dello Sferisterio: stavolta sono tutte le bandiere del mondo, che compaiono una alla volta fino a formare un patchwork multicolore e multirazziale, e poi si dissolvono scomparendo una alla volta allo stesso modo. L’idolo che si infrange per ordine di Nabucco è il globo d’oro rimasto appeso sulle teste dei protagonisti. La pace è finalmente tornata, Ismaele e Fenena si abbracciano, tutti sul palco si schierano in faccia al pubblico, colpiti da una forte luce bianca sulle note di “Immenso Jehovah, chi non ti sente?”, mentre dei fasci di luce incrociati che partono dal muro dello Sferisterio e arrivano al loggione e viceversa formano un simbolico tetto sulle teste degli spettatori. Nella scena finale i pannelli di plastica si aprono per l’ingresso di Abigaille morente, mentre i coristi cantano tenendo in mano ognuno una diversa bandiera (in realtà sembrano più le sciarpette dei tifosi di calcio coi colori sociali). Alla sua morte i due pannelli centrali vengono ruotati e mostrano i fiori disfatti ormai nel sangue (purificatore?), mentre i coristi sventolano le bandierine.

nabucco sferisterio prima 5 sborgi2Insomma non è facile raccontare questo Nabucco, e non dev’essere stato facile per gli spettatori cogliere il senso di molti, forse troppi, riferimenti simbolici che il regista ha inserito nella sua lettura.

Le proiezioni sul muro sono ormai viste e riviste, e specialmente da quando mancano i soldi per allestimenti più ricchi e articolati sono diventate un po’ il refugium peccatorum di registi e scenografi.

In generale poco curati i movimenti delle masse, con un coro che quando non è schierato in fila sul proscenio o in fila di spalle lungo il muro del pianto, è impacciato e non convincente. Il coro nel Nabucco è protagonista, o almeno dovrebbe esserlo, soprattutto dal punto di vista canoro. Dovrebbe scuotere gli animi e le coscienze con l’impatto emotivo dirompente del suo canto. Purtroppo ieri sera non lo è stato, offrendo una prova scialba e a volte tecnicamente imprecisa, priva di qualsiasi pathos. Non ha entusiasmato nemmeno l’orchestra, diretta dalla pur prestigiosa bacchetta del maestro Antonello Allemandi.

I costumi, altra nota dolente. Gli uomini che arrivano con dei mantelli-poncho bianchi e celesti (con ovvio richiamo ai colori d’Israele) buttati addosso senza grazia, le donne col fazzoletto in testa vestite con dei grembiulini che neanche in terza elementare fanno tristezza.

Velo pietoso anche sul cast, non certo da Scala ma neanche da prima allo Sferisterio. I problemi emersi alla prova generale si sono riproposti, se non in misura maggiore, anche ieri sera. Il Nabucco di Alberto Mastromarino, baritono dalla lunga e acclamata carriera già applaudito allo Sferisterio in Pagliacci e Cavalleria rusticana nel 2003 per la regia di Massimo Ranieri e nella Francesca da Rimini l’anno successivo, non è incisivo, né carismatico, né possente. La sua voce purtroppo in questo momento non è a posto e i problemi si sono sentiti tutti, specie da un certo punto in poi, risultando alla fine imbarazzante. Di Valter Borin, giovane tenore nel ruolo (per fortuna piccolo) di Ismaele, si salva solo la dizione. Anche la voce è piccola, ma questo di per sé non sarebbe un problema (se non per il fatto che si canta all’aperto). Il problema sta nelle note alte, e purtroppo per lui e per gli spettatori non c’è stata una sola volta in cui salendo non abbia rivelato notevoli difficoltà, sin dall’inizio. Se la sono cavata senza brillare le due protagoniste femminili, la mezzosoprano Gabriella Sborgi (Fenena) e la soprano Virginia Tola (Abigaille), brillante e appassionata nell’interpretazione ma con la tendenza allo strillo negli acuti. La voce più bella, più corretta e sicura è sembrata quella del basso Giorgio Giuseppini (Zaccaria), che torna a Macerata dopo la Turandot di de Ana del 1996 e la Lucia di Lammermoor del 1997.

Lo Sferisterio avrebbe meritato una prima di ben altro livello. Osservare i volti impietriti dei giornalisti in tribuna stampa, che non hanno mai applaudito durante tutta la rappresentazione, è stato un triste spettacolo nello spettacolo. Ascoltare i commenti del pubblico su “una recita da oratorio di quarto livello” non è stato piacevole. Ma così è, nulla da eccepire. Il pubblico ha sempre ragione.

(foto di Alfredo Tabocchini)

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Il botteghino ha comunque registrato il tutto esaurito con circa duemila spettatori e 100mila euro di incasso.

 



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