Andrea Panzavolta e Cinzia Maroni agli Antichi Forni
Gabriela Lampa legge la poesia “Edipo” del greco Konstantinos Kavafis
di Marco Ribechi
(Foto di Fabio Falcioni)
“L’abisso in cui mi spingi è dentro di te”. Con le immagini e le parole dell’Edipo Re di Pier Paolo Pasolini si apre l’avvincente viaggio nel labirinto della conoscenza e della psiche umana offerto da Andrea Panzavolta al pubblico degli Aperitivi culturali di Macerata. Pubblico coraggioso poichè, come ricorda la stessa Cinzia Maroni, curatrice della rassegna: «Per arrivare agli Antichi Forni avete dovuto attraversare il calore del deserto» alludendo al caldo più che tropicale che regna in città. Ma una volta entrati corpo e mente hanno trovato ristoro nella freschezza ambientale e intellettuale dell’incontro che ha ampiamente ripagato le fatiche grazie ai suoi ricchissimi spunti inerenti alla cultura occidentale attraverso i secoli e le arti. Poesia, cinema, mitologia, ermeneutica, psicologia e praticamente ogni altra attività umana che abbia a che fare con la conoscenza. Andrea Panzavolta, musicologo e filosofo non ha celato alcun segreto trasformando l’appuntamento in una lectio magistralis di rara bellezza.
Edipo e la Sfinge di Gustave Moreau
Argomento l’enigma e la possibilità di svelarlo alla conoscenza e alla parola umana. Protagonista la fredda Turandot. Punti di partenza il quadro “Edipo e la Sfinge” di Gustave Moreau e la poesia “Edipo” del greco Konstantinos Kavafis, recitata magistralmente da Gabriela Lampa. «Il poeta a differenza del filosofo – spiega Panzavolta – possiede un terzo occhio capace di donare un surplus di chiaroveggenza. Edipo nel quadro non guarda gli occhi della sfinge che lo fissano perchè sa che avrà altri enigmi più complessi da affrontare nella sua vita». Inizia a delinearsi così l’analogia tra la Sfinge e la Turandot: «Entrambe sono vergini -continua il filosofo – entrambe guardano, bellissime e impossibili, con freddezza gli occhi di coloro che osano sfidarle. Entrambe hanno voci seducenti ma anche ardue da comprendere. Infine entrambe hanno una doppia natura, per il loro canto si avvicinano agli uomini ma per la loro ferocia sono assimilabili alle bestie».
Entrambe sono legate a due divinità apparentemente simili ma anche contrastanti: «La sfinge rimanda al dio Apollo – continua Panzavolta – cioè colui che non nasconde ma parla per enigmi. La Turandot invece è più dionisiaca e anche il suo palazzo richiama il labirinto del Minotauro che appunto la Grecia classica identificava con Dionisio. Questo è un dio della conoscenza ma anche della caccia che insegue le sue prede e le fa a brandelli. Apollo e Dionisio non sono però scindibili, uno si sovrappone all’altro nell’arte di trarre divinazioni e raggiungere la conoscenza». Apollo però possiede un’arma in più, il Logos cioè la parola. «E’ la freccia che gli permette di uccidere e trarre in sciagura gli uomini senza avvicinarsi – precisa il filosofo – Non sono così anche gli enigmi della Turandot? Apollo è il dio della conoscenza che però ha bisogno della parola per infonderla agli uomini. Ha bisogno di un medium che la trasmetta e di interpreti che la disvelino. Ma nessuno può dire quale sia l’interpetazione corretta quindi si crea una discordia tra gli interpreti, questa è la trappola della conoscenza».
Un momento della spiegazione
Se da un lato il poeta è colui che per attitudine comprende e svela l’enigma dall’altro l’eccessivo uso della logica filosofica porta alla tracotanza della ragione e alla discordia delle verità. Difendere la propria interpretazione significa creare un idolo feticista e cadere nella cecità. «Tornando alla lirica – aggiunge Panzavolta – Turandot e Calaf sono avviluppati nella loro logica e sono folli per conoscere ciò che non dovrebbe essere svelato. Il finale della Turandot non è glorioso come può sembrare, al contrario i due non hanno capito, al pari di Edipo, quali sono i veri enigmi che dovranno risolvere. L’unico personaggio che ha capito che Apollo parla per enigmi è Liù che fino all’ultimo sostiene l’enigma, quello dell’amore, perchè sa che non si potrà mai intenderlo attraverso una ragione di desiderio. Come afferma anche Ludwig Wittgenstein Su ciò di cui non si può parlare bisognerebbe tacere». Ecco il significato del mito: «E’ un racconto che non smette mai di dire ciò che ha da dire perchè ha uno spazio di oscurità – conclude Panzavolta – vano è quindi il tentativo di razionalizzare l’amore, che, citando Dante Non può comprendere la passione chi non l’ha provata. Così anche la Turandot dirà Il suo nome è amor , colpita dalle frecce di Apollo. E’ questo lo spazio mistico di ciò che non si può dire con il Logos/parola ma semplicemente vivere. Ecco svelate le scritte nel tempio di Delfi dove risiedeva l’oracolo del dio Apollo. Da un lato la scritta Conosci te stesso, dall’altro Nulla di troppo vi sia in te».
Martina Buccolini della Sigi
Terminata la spiegazione il silenzio è rimasto negli Antichi Forni a testimonianza che la lezione di non abusare della parola e della ragione è stata compresa dal pubblico. La seconda parte dell’aperitivo, destinata a soddisfare il corpo, è stata offerta dall’azienda agricola maceratese Sigi di Martina Buccolini le cui pietanze sono state accompagnate da un calice di Ribona. Domani l’aperitivo sarà dedicato all’Africa e al periodo coloniale e post coloniale con la presentazione del testo “La grande A”. Presenti l’autrice Giulia Caminito e la direttrice di Popsophia Lucrezia Ercoli.
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