Macerata peggiora
Siamo al delirio culturale

OPINIONI - Il dibattito sulla candidatura a Capitale Europea della Cultura

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Ricci-Marco

 

di Marco Ricci

Con il termine delirio si indica una varietà di stati mentali in cui percezione e cognizione appaiono significativamente compromesse. Ne esistono varietà per tutti i gusti. Dal delirio di onnipotenza a quello di persecuzione, passando per il delirio religioso a quello di gelosia, tutti stati mentali piuttosto preoccupanti. Nel delirio, infatti, un elemento di realtà (conscio o inconscio) si espande a tal punto da prendere il sopravvento sulla realtà stessa: siamo insomma alla psicosi, patologia considerata fino alla prima metà del novecento sostanzialmente incurabile. Le malattie psichiatriche oltretutto, così come la maggior parte delle malattie, si evolvono con i tempi. Alcune scompaiono, altre vengono sostituite, altre si trasformano e, come esiste un filo invisibile che lega l’ottocentesca isteria all’anoressia moderna, ho il sospetto che Macerata sia preda di una nuova forma di delirio. Ossia di una via di mezzo tra il delirio di onnipotenza e il delirio di identità: il delirio culturale.

 

I primi sintomi di questa nuova malattia collettiva sono apparsi con l’uso spropositato della parola eccellenza riferita ad aspetti o attività della nostra città. Secondo il vocabolario Treccani l’eccellenza dovrebbe indicare la qualità di chi o di ciò che è eccellente: eccellenza d’ingegno; raggiungere l’eccellenza nell’arte (cioè il grado più alto, la perfezione), ma per l’evidente progresso della malattia a Macerata oramai tutto è eccellente. L’Università di Macerata – con tutti i suoi scheletri negli armadi, parlare con un docente per credere – è così passata da essere una (siamo generosi) discreta Università di media grandezza ad un’eccellenza. Eccellente ci raccontano sia anche la nostra sanità (ARGHH!!!), come un’eccellenza sarà addirittura il nuovo polo natatorio ed eccellenti sono il nostro centro storico, gli impianti sportivi, lo Sferisterio e tutte le nostre attività culturali. Insomma, a Macerata non esiste più nulla che sia, non dico così così, ma semplicemente normale.

 

A questo delirio di onnipotenza si aggiunge al nostro vecchio delirio di identità, popolarmente espresso con il detto Macerata granne, che ci ha posto (nel nostro immaginario) sempre un paio di gradini sopra il circondario. Così, mentre Civitanova Marche guadagnava abitanti, redditto, attività commerciali e cominciava una minima politica di riqualificazione urbana, Macerata granne perdeva abitanti, reddito, si imbracava in un’espansione urbanistica politicamente inquietante ed esteticamente oscena, ma rimaneva sempre Macerata granne, come se per diritto divino agli altri toccasse faticare e a noi no. E, mentre pomposamente si tuonava che un capoluogo di provincia di tal rango non può rimanere senza un Palazzetto dello Sport alla nostra altezza, senza un auditorium alla nostra altezza e senza una galleria alla nostra altezza e via dicendo, zitti zitti i centri storici dei paesi vicini venivano tirati a lucido, da Tolentino a Treia. E non voglio essere provocatorio nell’affermare che adesso, in tutta la Provincia, il nostro centro storico sia uno dei più malridotti insieme a quelli di Serrapetrona e di Statte. Girare per credere.

 

Sotto sotto però la realtà, questa guastafeste, prima o poi emerge. A qualcuno sarà disgraziatamente capitato di inciampare su una buca di Corso Matteotti o di sollevare lo sguardo verso un rudere del centro storico, a qualcun altro di fare disgraziatamente un giro in centro verso le dieci di mattina, ad un altro invece di passare qualche settimana all’ospedale cittadino. Ma invece di vedere la realtà per quello che è, cioè una cittadina di provincia che inizia ad avere seri problemi di reddito, di sviluppo, di servizi, Macerata si è chiusa in questo nuovo delirio che risolve d’emblée sia il problema della sua identità che la sua atavica mania di grandezza: il delirio culturale appunto, riassunto nella pomposa (e presuntuosissima) espressione Atene delle Marche, con buona pace di Socrate e Platone che, essendo veri saggi, ci perdoneranno l’involontario e offensivo paragone.

 

Passo dopo passo, come tutte le malattie non curate, il delirio ha fatto il suo corso. Così da Atene delle Marche ci siamo trasformati oramai nell’Atene d’Europa, ambendo (solo?) a diventare per un anno Capitale Europea della Cultura. Immagino che il passaggio successivo riguarderà le Nazioni Unite e l’Unesco e avrà probabilmente a che fare con Macerata Patrimonio Mondiale dell’Umanità o qualcosa del genere. Ma per adesso fermiamoci qui. All’Europa. In fin dei conti obiettivo niente male considerando che né Hitler né Napoleone sono mai riusciti a conquistarla. Non abbiamo cannoni ma, mi si obietterà, abbiamo un Padre Matteo Ricci che né Hitler né Napoleone potevano vantare.

 

Ricci1600-300x152Questo è vero, ma anche Padre Matteo Ricci, disgraziatamente, è entrato a far parte del delirio divenendone un tassello inamovibile, tanto da farcelo quasi sentire come uno di noi, qualcosa tipo il vicino di casa con la macchina appena un po’ più grande della nostra, macchina a cui abbiamo tutto il sacro diritto di aspirare. La verità, quella vera, è che nella sua eccellenza, un’eccellenza vera, Padre Matteo Ricci fu assolutamente differente da noi tipici maceratesi. Se osservassimo la figura del gesuita maceratese da questa prospettiva faremmo sia un atto di onestà e allo stesso tempo potremmo umilmente imparare qualcosa dalla sua figura assolutamente fuori dalla norma. Innanzitutto egli non si beò in panciolle della sua onnisciente cultura che spaziava dagli Elementi di Euclide alla teologia. Egli applicò la conoscenza acquisita con anni faticosissimi di studio per un fine chiaro e preciso: la conversione dei cinesi. E mise in pratica la sua conoscenza disegnando mappamondi, costruendo orologi solari, traducendo in cinese opere di Euclide, di Cicerone, disquisendo con successo, grazie alle sue doti e alla cultura, con i più grandi intellettuali cinesi dell’epoca. Non entrò a Pechino perché proveniente da Macerata granne o dall’Italia, entrò a Pechino con sforzi e fatica, con inossidabile temperamento ed inossidabile fiducia nella sua missione. E ci entrò con il tempo, migliorando progressivamente la sua cultura e acquisendo con il tempo, il tempo di una vita, l’autorità per farlo. Acquisì autorità, non visse di auctoritas altrui come noi pretendiamo di fare anche sulle sue spalle.

 

Ora, qualcuno mi spieghi per quale motivo particolare un tedesco (in sandali e braghe corte) debba preferire Macerata e le sue attività culturali ad esempio a quelle di Assisi, Pisa, Roma, Ferrara, Bologna, Ancona, Urbino, Milano e di un altro centinaio di posti qualsiasi sparsi per l’Italia. Oppure domandiamoci, senza scomodare popoli lontani, tranne che per lo Sferisterio quanti anconetani, ascolani, settempedani o fanesi giungono abitualmente qui attratti dalle nostre eccellenze culturali? E da Treia? Quanti autobus giungono da Treia per il cineforum nel cortile (afosissimo) della mestica, per il festival Licenze Poetiche o per ArteMigrante? E per le case di terra di Ficana? Gli stranieri vengono abitualmente qui per i prestigiosissimi convegni che ospitiamo? Per le nostre innumerevoli case editrici, agenzie fotografiche o per i nostri Centri Studi, per i nostri filosofi, per i nostri intellettuali o per le nostre compagnie teatrali? Ok, abbiamo un teatro. Un bel teatro, ma solo nelle Marche ce ne sono quasi un centinaio. Abbiamo un’Università. In Italia ce ne sono altre 62. Palazzo Buonaccorsi? E’ di prestigio, ma solo nelle Marche  esistono almeno un altro paio di dozzine di palazzi ugualmente belli. Ma siamo davvero sicuri che l’offerta culturale di Ancona o di Pesaro, solo per fare un esempio, siano così inferiori alla nostra? Come si fa ad affermare una cosa del genere? Su quali basi? Unicamente per lo Sferisterio e per un format, Musicultura, che oggi c’è e domani chissà dove finisce?

 

Insomma, ciò che offriamo è sufficiente per immaginare una candidatura (costosa) di Macerata a Capitale Europea della Cultura o questo non è altro che l’ennesimo sprofondo in cui siamo caduti nel tentativo di aggrapparci a qualcosa, ignorando la gravità della situazione e la perdita di identità della città? Francamente, per l’estrema serietà e pomposità con cui ci viviamo noi maceratesi, ho il sospetto che stiamo delirando e anche alla grande. Sognare, mi si obietterà, non costa nulla. Ma quando a sognare (o a delirare) sono gli amministratori, la faccenda comincia a preoccuparmi e anche molto. Con il mito di Macerata granne, con questa inflazione di eccellenza, negli anni passati ci siamo cotti a fuoco lento e continuiamo lentamente a cuocerci. Ieri abbiamo perso qualcosa, l’altro ieri qualcosa d’altro, un poco alla volta, grado dopo grado, qui finisce che ci ritroviamo bolliti senza neppure accorgercene e senza aver mai preso seri provvedimenti.

Puntare sulla cultura, certamente, può  essere una scelta magari anche vincente. Questo credo sia il senso dell’intervento dell’amico Bruno Mandrelli (leggi l’articolo) a cui non è sfuggito però, da uomo intelligente quale egli è, quanto una candidatura del genere sia velleitaria. Allora, invece di sognare paradisi lontani e inafferrabili, perché non cominciamo a mettere in discussione quello che stiamo facendo al fine, passo dopo passo, di migliorare? Perché non cominciamo con misure di dumping fiscale per attrarre aziende e capitali che operano nel mondo della cultura invece di perseguire con sovvenzioni a pioggia, programmi centralistici e inutili convegni che ripetono da dieci anni la stessa filastrocca? Perché, invece di ricoprirci di eccellenze, non osserviamo in maniera critica le nostre normalità, con tutti i loro pregi ma anche i loro tanti difetti, al fine di migliorarle e di renderle più adeguate? Perché non creiamo delle infrastrutture culturali che consentano alla cultura di emergere e di farsi anche impresa? Perché non la smettiamo di scegliere le figure guida anche della cultura in base alle appartenenze politiche?

 

Non saranno parole come eccellenza, distretto culturale evoluto (evoluto da cosa?), ad abbassare la temperatura della pentola. Per abbassare il fornello ci sarà bisogno di umiltà, di lavoro serio, di obiettivi precisi perseguiti passo dopo passo senza continue contraddizioni, avendo la tenacia di Padre Matteo Ricci ma sopratutto l’umiltà dei cinesi che, considerandosi nel cinquecento il centro del mondo, decisero un bel giorno di imparare da chi veniva da fuori. Apriamo gli occhi e smettiamo di delirare. Viviamo in una città in cui non c’è ancora una biblioteca per bambini, dove Romano Dezi manda avanti con la sua passione il Museo di Scienze Naturali ricevendo si è no mille euro l’anno dall’amministrazione comunale e dove non esiste neppure uno straccio di sito internet dedicato agli eventi culturali, dove l’eleganza del Campo dei Pini è stata massacrata da un’orribile cancellata in ferro, dove il paesaggio rispetto al mattone viene considerato meno di niente. Una città dove ancora non esiste una sala convegni decente, dove l’Università è un mondo a sé con le sue logiche criptiche, autoreferenziali e spesso poco onorevoli, una cittadina in cui agli appuntamenti culturali partecipa sempre il medesimo sottoinsieme di massimo cento persone appartenenti ad un altro sottoinsieme di mille cittadini, una cittadina dove infiliamo nello stesso calderone Padre Matteo Ricci, la sagra della papera, quella dei bovini marchigiani e le infinite notti bianche del consumismo.

Anche questa è la realtà. Una realtà  con cui dovremmo fare i conti, quella parte di realtà che il delirio culturale in cui siamo tragicamente caduti preferisce appunto costantemente ignorare.

***

P. S. Questo mio  intervento ovviamente non è legato alle proposte e alle persone da me molto stimate quali Giancarlo Liuti e il professor Francesco Adornato, quanto vuole essere una riflessione su un atteggiamento tipico di Macerata che rischia di essere controproducente e pericoloso.



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