Chi sarà mai Verdi
se gli manca la G.?

Bene il nuovo “linguaggio comunicativo” dello Sferisterio, ma attenti alla differenza tra vera “fama” e futile “notorietà”

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di Giancarlo Liuti

Bentornato Sferisterio che fra quattro giorni riempirà di acuti il nostro cielo estivo! E che siano acuti non soltanto vocali lo sperano una città, una provincia, una regione. I segnali di una svolta non mancano. Basti pensare all’impronta frizzante data quest’anno al Macerata Opera Festival dal direttore artistico Francesco Micheli, un’impronta che si basa anche sulla “modernizzazione del linguaggio comunicativo” e la prova sta pure nel manifesto ufficiale che da mesi ne annuncia il cartellone. Disegnato come fosse uno spassoso gioco infantile, esso non fa venire in mente monumentali capolavori del melodramma ma piuttosto lo “Zecchino d’oro” del Mago Zurlì e un osservatore distratto può persino credere che lo Sferisterio sarà teatro di una gara di canto fra bambini dove al posto di “Pura siccome un angelo Iddio mi dié una figlia” e “Che gelida manina, se la lasci riscaldar” s’intoni “Quarantaquattro gatti in fila per sei col resto di due”. Scandalizzarsene? Gridare alla profanazione? Nient’affatto. Micheli ha ragione nel sostenere che era ormai giunta l’ora di dare all’arena dei cento consorti un’immagine più in linea coi tempi e di renderla più viva, fresca, invitante. Ossia, per capirci, più giovanile, come ha spiegato su Cm l’ottimo articolo di Maria Stefania Gelsomini (leggi).

  

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Il direttore artistico Francesco Micheli allo Sferisterio

Il repertorio non può che risalire all’Ottocento (anzi, rispetto alle scelte di Pier Luigi Pizzi il cartellone di quest’anno è ancor più legato alla tradizione). Stavolta, però, la parola d’ordine è che il “linguaggio comunicativo” non abbia nulla a che vedere con l’Ottocento e nemmeno col Novecento, ma entri a pieni polmoni nel Duemila. A quale scopo? Adeguarsi all’estetica della contemporaneità, a quell’idea innovativa, trasgressiva e magari sconcertante del bello che irrompe dalle sfilate di moda, dai programmi televisivi, dagli spot pubblicitari, da Facebook, da Twitter, dai sondaggi demoscopici e insomma dal trend planetario delle generazioni under cinquanta. Roba da prender sul serio, intendiamoci, perché mette insieme l’alto e il basso del modo d’intendere la vita e impone sia pur perplessi spunti di riflessione sul presente e sul futuro. E che non sia roba da schizzinosa raccolta di rifiuti lo dimostra il crescente successo di “PopSophia”, il festival ideato da Evio Hermas Ercoli al quale partecipano pensatori – perfino teologi – di riconosciuta autorevolezza culturale. “PopSophia” e, dunque, “PopMusica”. Ma lo scopo è anche un altro: far sì che un manifesto a tal punto inaspettato nella sua immediata confidenzialità stimoli l’affluenza di un gran numero di spettatori e ottenga che i quarantaquattro gatti, intesi come pubblico pagante, diventino parecchie migliaia. I conti, certo, si faranno alla fine. Ma l’aria nuova di Francesco Micheli merita fiducia. Molto buono, per esempio, l’opuscolo in cui si pone in rilievo il gemellaggio fra Stagione lirica e Musicultura, nella cui copertina spicca un fantasioso disegno un tantino “osé” che allude all’amore.

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   Sempre con gli occhi su quel manifesto, però, vorrei cordialmente rilevare qualcosa che non c’entra nulla con la modernizzazione del linguaggio ma, semmai, si apparenta a una sorta di burocratismo da funzionario dell’anagrafe. E mi riferisco all’elenco delle opere, che viene scritto così: la Traviata di G. Verdi, la Bohème di G. Puccini, Carmen di G. Bizet. Perché, mi chiedo, quelle tre “G” col puntino? Si temeva forse che il solo Verdi fosse confuso con un tal F. Verdi infermiere ospedaliero, e il solo Puccini con un tal Z. Puccini produttore di ciauscoli, e il solo Bizet con un tal R. Bizet, bagnante francese in vacanza a Porto Potenza? E se invece, con quelle tre “G.”, s’intendeva aggiungere qualcosina al solo cognome per specificare che non si tratta di persone qualunque ma di immortali poeti della musica, non sarebbe stato più decoroso – doveroso, direi – metterci i nomi per esteso, Giuseppe, Giacomo e Georges? No, troppo lungo. La grafica ha le sue leggi. E dell’immortalità se ne frega.
 Mi rendo conto che la questione da me sollevata può apparire di lana caprina. Ma non lo è, perché essa rientra in quel fenomeno che rappresenta il peggio della modernità in quanto si riduce a una sbrigativa e smemorata confusione circa il significato della parola “fama” e la si declassa a semplice “notorietà”. Oggi, per far capire a chi ci si riferisce, basta dire, che so, Scilipoti, Scajola o Del Piero senza alcun bisogno di aggiungervi la “D.” di Domenico, la “C.” di Claudio o la “A.” di Alessandro. Sono arcinoti? Certo. Ma fra trent’anni lo saranno ancora? No. Dunque non meritano di essere famosi. E sta qui l’inganno della “fama” mediatica, una “fama” improvvisa e precaria come un fuoco di paglia, una “fama” che non nasce dalla gloria di durevoli e consacrati valori, una falsa “fama” che, ahinoi, finisce per avere il sopravvento sulla vera “fama” di Verdi, Puccini e Bizet, i quali, poveretti, se non gli si mette una “G.” davanti,  rischiano di esser confusi con eventuali omonimi loro. “Viva Verdi!”, gridavano i patrioti del Risorgimento per dire “Vittorio Emanuele re d’Italia”. Altri tempi, non c’era bisogno di “G.”.



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