Sognando ad occhi aperti un ritorno di buon senso

In democrazia, il governante, pur rendendosi conto che il suo potere è a rischio, non coglie la rapidità con cui va a crollare tutto il sistema

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I SOGNI SON DESIDERI
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di Filippo Davoli

Duro colpo inferto dal telegiornale alla mia capacità di rasserenarmi con la lettura o il dialogo: hanno dato una notizia insuperabile. Hanno beccato non so quanti nuovi falsi invalidi, a cui hanno confiscato beni per il valore di svariate decine di milioni. Sono quelle notizie che mettono grande allegria e, una volta tanto, fanno sentire la gioia di appartenere a un Paese organizzato e non solo colluso. Perché qui, oltretutto, prendono pensioni e incentivi quelli che potrebbero (o addirittura dovrebbero) farne a meno, mentre chi langue davvero spesso stenta ad averne o se li vede recapitare col contagocce, come una miracolosa deroga alla norma, a seguito di un’infinità di domande, controdomande, nuove domande, e via baloccando.

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Abbiamo ancora, tutti quanti, gli occhi pieni della tragedia di Civitanova Marche. La gravità della situazione (tre suicidi in una sola famiglia, in una sola giornata) suona sinistra su tutta la realtà sociale: cresce l’idea (e l’orrore) di smottamenti sempre più vistosi, sempre più incontrollabili. Mi sono sempre chiesto perché mai, ad esempio nei Paesi totalitari, quando la situazione precipita davvero il tiranno non se ne avvede, ed anzi crede il suo potere più forte di sempre. Ha stretto in una morsa di ferro il suo popolo per decenni, riuscendo ad annichilirlo, e nel momento in cui la situazione si rovescia si obnubila misteriosamente. In democrazia manca il tiranno, ma il meccanismo è analogo: si direbbe che il governante democratico, pur rendendosi conto che il suo potere è a rischio, non coglie la rapidità con cui va a crollare tutto il sistema. Traccheggia, si diletta di inciuci, codicilli, politichese; si scanna col suo prossimo sul posto da occupare durante il volo e non si avvede che l’aereo sta precipitando in mare…

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Però i guasti sono diffusi, Caino (per tornare alla splendida omelia di Mons. Conti al funerale dei civitanovesi) è molto ben presente nella gente. Diciamoci cioè anche un’altra verità fuori dal vaso: chi è la casta? La popolazione è forse più casta della casta? Al di là di quel povero tartassatissimo 48% che paga le tasse (e non sa più come arrivare a fine mese onestamente, mentre lo Stato gli soffia sul collo la propria insaziabilità), quell’altro 52% è forse Biancaneve? Può ergersi a giudice di chi ci governa? Non risulta sacrosanto quell’atroce detto che asserisce che ogni popolo ha il governo, i funzionari e i dirigenti che si merita, anche se non tutto il popolo se lo merita?
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Mi ha invece rallegrato moltissimo la notizia intravista in CM sui nuovi fondi assegnati ai Servizi Sociali per sostenere i cittadini in difficoltà: mi auguro toto corde che altri fondi ancora possano essere recuperati, per lo stesso scopo, sottraendoli per esempio alla Cultura e allo Spettacolo.  La piccola Macerata riesce – nonostante il mantra caranciniano del “non-ci-sono-i-soldi” – a finanziare ad almeno cinque zeri tanto lo Sferisterio quanto Musicultura ed altri contenitori d’arte. Non dovrebbe? Certo che sì. Anche se, mi si perdoni (ma del resto anche per questo ritengo di non essere fatto per la politica), prima mi verrebbe da soccorrere il genere umano.  Per lo meno in un momento di emergenza estrema come questo.

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E in quell’ambito, invece, mi è capitato di recente di seguire da vicino la vicenda tristissima di alcuni amici caduti in disgrazia economica e “soccorsi” dal Comune con una cifra talmente irrisoria da suscitare incredulità e imbarazzo insieme. Gente che non ha il tesoretto nascosto sotto il mattone, che forse si ritrova in miseria proprio perché non ha mai rubato né fatto creste sulle tasse da pagare e i soldi guadagnati in passato li ha spesi per andare avanti.

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Di fronte a questi esempi, peraltro di incrollabile dignità, e formidabile pudore, ed eroico ritegno, (altro che le notorie isterie che ci propone ogni tv di giorno in giorno…), mi verrebbe da vergognarmi duecent’anni a presentare una domanda di finanziamento per un progetto culturale (letterario? Artistico? Musicale? Fa lo stesso!) superiore alla cifra con cui questa povera gente in teoria dovrebbe sopravvivere.
Invece, non si capisce perché, ci sono ambiti del nostro vivere sociale che sopravvivono a qualunque crisi, quasi fossero un paradiso artificiale, un limbo al di là del bene e del male. No no, invece: si tagli allegramente sulla Cultura e sullo  Spettacolo, senza pentimenti di sorta. Almeno finché è tempo di vacche magrissime. E si salvi la povera gente, che è la Cultura più preziosa di una comunità civile.

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La mia ultima affermazione suonerà strana, nella mia penna: e invece è proprio per la mia storia personale, che la faccio. Non mi stancherò mai di ripetere, infatti, che ottima cultura la si può fare senza bisogno di spendere capitali (un microfono, a volte, è più che sufficiente…). Del resto, come facevano gli artisti in tempo di guerra o di dittatura o di fame a dare il meglio di sé? Forse il motore non risiede nel mecenate di turno, ma nella spinta interiore, nell’autenticità di ogni voce: e se quella spinta c’è davvero, sarà essa stessa a inventare un mondo, un luogo, un modo. Si produce anzi un affinamento qualitativo che non può che giovarci, considerato come siamo – anche da quel punto di vista – ridotti.

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Il lavoro, invece. Dalle nostre parti, sovente ci si imbatte in una figura imprenditoriale tipica: l’amico. Capita spesso che ti imbatti in un amico che necessita di una tua prestazione. L’amico non ha bisogno di raggiungerti telefonicamente (tra l’altro, il telefono costa: in genere, questi amici, se proprio devono telefonarti perché non ti incontrano, lasciano detto al bar che frequenti che ti avevano cercato, se potevi chiamarli tu…): gente che invariabilmente va dal Suv in su.

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Dicevamo allora di questo amico imprenditore che t’incontra (ti faceva la posta da settimane, ma non ti chiamava al telefono manco se cascava il mondo) e già che ti ha incontrato ti manifesta la propria necessità di una tua prestazione professionale. Il rapporto di lavoro prosegue così: tu sei tenuto a dare il meglio di te, perché si tratta di un lavoro di alta professionalità. Poi, al momento dell’onorario… “beh, simo amici, no?”… e finisce così.

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Da queste parti, insomma, non è facile inserirsi con profitto nel mondo del lavoro. Talvolta nemmeno in quello del mercato del lavoro (poter essere contrattuali, esercitare una lecita fruizione dei titoli e dell’esperienza maturata, poter essere presi in considerazione indipendentemente da “chi te porta”, “chi sci, comme te se dice”). Anche gli operai non se la passano bene: con la ghigliottina della crisi sopra la testa, spesso subiscono riduzioni di stipendio senza modifiche paritetiche ai turni di lavoro. “Meglio di niente”, dicono. E tengono duro, solidi e semplici, spesso desiderosi di reinventarsi, di rilanciare (e in questo oserei dire fantastici: loro. Ma che dolore segreto, dover prendere atto con totale impotenza di un simile decadimento…).

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Non ho citato, tra le categorie, quella dei giovani e nemmeno quella degli stranieri. C’è un motivo: chi ha bisogno, ce l’ha punto e basta. Hanno bisogno i giovani di trovare il primo lavoro, ma altrettanto ne hanno quelli della mia generazione, saltata a pié pari da tutte le agevolazioni messe in campo dallo  Stato: ricordo perfettamente l’ideazione del contratto di formazione fino al 26° anno di età, quando quelli della mia età festeggiavano il trentesimo. E questo tanto per dirne una… sicché, negli anni, sono progressivamente diventato allergico a questo giovanilismo imperante, che finisce per creare una sacca di privilegio come tutte le altre. Ma non solo: giudicare una serie di qualità in base al dato anagrafico non risulta pure un’offesa all’intelligenza?

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Anche per quanto riguarda gli stranieri, temo che a volte un eccesso di buonismo conduca a un razzismo all’incontrario, che finisce per penalizzare gli italiani. La verità, invece, è sempre semplice: i problemi hanno un nome, i reati pure. Non hanno un nome sempre italiano o sempre straniero: hanno il nome che hanno. Ma siamo chiamati a combattere i problemi, non i nomi di persona. Per cui, anche in questo caso, diffido delle griglie interpretative preordinate: continuo a preferire la realtà così com’è e come si presenta. Redarguendo o aiutando dove ce n’è bisogno, indipendentemente da chi è che chiede o è chiamato a rispondere.

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Cara vecchia Italia, la lezione che ti sta piombando addosso, si direbbe senza soluzione prossima, te la sei cercata con tutte le forze. Ma forse – come sempre ogni male può significare – uno spiraglio c’è. Permetti ai miei sogni (ai miei desideri) di trovare un pertugio in te: apri gli occhi, riconsidera il peso di tutto ciò che conta davvero, prenditi di petto, reagisci con il meglio che hai per indole e per storia: il buon senso.



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