Papa Francesco prima di Roma
ha fatto un salto a Montefano?

Il convento dei “Servi di Maria” e un libro di padre Maggi sul vangelo dell’apostolo Matteo. Due modi di essere “rivoluzionari” e di proporre l’universalità della “misericordia”
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di Giancarlo Liuti

La tardiva lettura di un libro uscito nove anni fa mi ha indotto a fare una scoperta che non avrei mai immaginato, cioè che Papa Francesco è argentino e precisamente di Buenos Aires ma in parte è anche italiano e precisamente di Montefano, dove si trova , nel convento dei “Figli di Maria”, il Centro di studi biblici guidato da padre Alberto Maggi. Fra questi due personaggi che pure hanno ruoli assolutamente incomparabili (l’attuale pontefice è un’autorità non soltanto religiosa su scala planetaria) trapela una notevole affinità di pensiero: l’idea dell’infinita misericordia di Dio – non c’è peccato (“errore”, preferisce dire il Papa) che non sia meritevole di perdono, il diritto di ogni essere umano ad esser “felice” anche nella vita terrena, la contestazione del principio per cui la sofferenza in terra sia il miglior viatico per la gloria dei cieli, la visione di una chiesa povera e non contaminata dal fasto, dal potere, dal denaro. Valori, questi, che appaiono a tal punto “rivoluzionari” da suscitare resistenze anche all’interno del Vaticano, nell’alto apparato ecclesiastico. E ancor più “rivoluzionario” parve il messaggio rivolto ai fedeli da padre Maggi, il quale fu pubblicamente avversato dal tradizionalissimo vescovo di Macerata Claudio Giuliodori che ne chiese il trasferimento d’imperio (fu invece Giuliodori ad andarsene, poi sostituito dal vescovo Nazzareno Marconi, la cui consonanza con padre Maggi, se c’è, sta anzitutto nel fatto che sono entrambi studiosi dell’antico e del nuovo Testamento).

Papa Francesco benedice la Madonna di Loreto

Papa Francesco benedice la Madonna di Loreto

Premessa: queste e altre mie considerazioni non vanno prese per oro colato, essendo io un agnostico che pur credendo in forme di trascendenza capaci di superare i limiti della pura ragione e di sorreggerci nelle avversità della vita non possiede alcuna competenza in fatto di tematiche religiose e si limita ad esserne un modesto osservatore che le guarda dal di fuori, cioè da giornalista. Ma questa sintonia culturale e spirituale fra l’argentino Jorge Mario Bergoglio, ora Papa Francesco, e il “montefanese” Alberto Maggi merita qualche riflessione nient’affatto superficiale.
Il libro che padre Maggi dedicò al “Cristo di Matteo” risale al 2006. E in quell’anno Jorge Mario Bergoglio, già cardinale primate d’Argentina, era ben lontano dall’immaginare che nel 2013 sarebbe stato eletto Papa e si sarebbe dato il nome di Francesco. Per quale ragione Alberto Maggi si occupò così a fondo del Vangelo di Matteo? Perché Matteo fu l’unico evangelista ad aver fatto parte anche dei dodici apostoli (s’è parlato pure di Giovanni, ma per motivi di età vi sono forti dubbi che il Vangelo di Giovanni, l’ultimo, sia opera di Giovanni l’apostolo) e ad esser vissuto a stretto contatto con Gesù ricevendone di persona l’insegnamento spirituale. Matteo scrisse il suo Vangelo nel Quaranta, appena sette anni dopo la crocifissione di Cristo, e il suo fu tutto un inno alla suprema missione di Gesù nell’opporsi al potere religioso degli Scribi e dei Farisei, i tradizionalisti di allora, nel cui autoritario potere c’era ben poco della misericordia e dell’amore per gli altri, tutti gli altri, gli uomini, certo, e pure le donne, che allora erano considerate esseri inferiori. E, oggi, Papa Francesco non si batte anche lui per l’uguaglianza fra tutti gli esseri umani dicendo che Dio è uno solo nonostante i diversi nomi che gli vengono dati e occorre puntare all’integrazione materiale e spirituale fra loro e “chi non costruisce ponti ma alza muri non è un vero cristiano”?

Padre Alberto Maggi

Padre Alberto Maggi

Diceva Gesù, secondo Matteo: “Venite a me, voi tutti che siete affaticati e oppressi, e io vi farò riposare. Prendete il mio giogo su di voi e imparate da me che sono mite e umile di cuore, e troverete riposo per le vostre vite. Il mio giogo, infatti, è dolce e il mio carico leggero”. E lo era in terra, ben prima di quanto lo sarebbe stato nell’alto dei cieli. Osserva padre Maggi, riferendosi alla moltiplicazione dei pani e dei pesci: “Il pane che sazia la fame dell’uomo non scende dal cielo, come la manna, per uno straordinario intervento divino, ma nasce dalla terra, per opera del lavoro dell’uomo, e va generosamente condiviso”. E aggiunge, sempre riferendosi a Matteo: “Quella di Gesù non è una religione in cui gli uomini devono adattarsi e sottomettersi a quanto è stato scritto in tempi passati ma una fede nell’uomo. La Parola di Dio non domina l’uomo, ma ne arricchisce la vita. Mentre le religioni sacralizzano il Libro (l’Antico Testamento o magari il Corano), Gesù ha reso sacro l’uomo”.
E ancora, a proposito del discorso di Gesù sulle “Beatitudini”, la prima delle quali dice “Beati i poveri in spirito perché di essi è il regno dei cieli”, padre Maggi commenta: “”Gesù non proclama beati i poveri della terra. I poveri sono sventurati che è compito della comunità cristiana far uscire dalla condizione di povertà. Il disegno di Dio sull’umanità, che Gesù è venuto a portare a pieno compimento, è che in terra non esista nessun povero. Non si tratta di aggiungersi ai tanti, troppi, miserabili prodotti dall’umanità ma di eliminare le cause della povertà rinunciando ai falsi valori dell’avere e del comandare che sono la causa della rivalità, dell’inimicizia e dell’odio fra gli uomini”. E ancora, citando proprio Matteo: “Con la beatitudine della povertà, Gesù non invita i discepoli a spogliarsi di quel che hanno, ma a vestire quelli che non hanno nulla”.
Molto altro ci sarebbe ancora da dire, ma un’ultima considerazione è indispensabile perché riguarda la chiesa in quanto istituzione e la monumentale e pietrificata sacralità del tempio come primario luogo di culto dove si va a pregare ma soprattutto ad ascoltare parole. Dice padre Alberto: “Più grande è la fede nel Signore e meno la preghiera ha bisogno di formule e di parole”. E ancora, citando Matteo: “Pregando non blaterate come i pagani che credono di venire ascoltati moltiplicando le parole. Il Padre vostro sa di quali cose avete bisogno ancor prima che gliele chiediate”. Così, ad esempio, la ritualità tutta esteriore del digiuno: “Gesù non chiede di digiunare ma di dividere il pane con l’affamato”. E, passo dopo passo, si giunge alla totale “gratuità” della fede, nel senso che i futuri messaggeri di Cristo – i discepoli come Matteo – non dovranno farsi dare dai fedeli “né oro né argento, né moneta di rame nelle cinture”. Il Dio di Gesù, un Padre che ama tutti incondizionatamente e che “fa sorgere il suo sole sopra i malvagi e sopra i buoni, e fa piovere sopra i giusti e sopra gli ingiusti”, smentisce il dio delle religioni istituzionalizzate, un dio potente che esercita il suo potere discriminando e castigando gli esseri umani”.
Come per tutte le chiese, rispetto a quella di Roma le posizioni di padre Alberto sono radicali e si basano principalmente sulla già detta e assoluta “gratuità” della fede. L’ingresso di Gesù a Gerusalemme fu un vero terremoto. Per prima cosa Gesù entrò nel tempio e “scacciò tutti quelli che nel tempio vendevano e compravano”. Secondo padre Alberto l’azione di Gesù non fu “mirata alla purificazione del tempio ma alla sua abolizione”, perché con Gesù non c’è più bisogno di offrire a Dio “come se Lui avesse bisogno di qualcosa” ma è “Dio stesso che si offre agli uomini”. Nessuna chiesa fatta a forma di Stato, dunque, con la severità e l’inflessibilità dei propri codici civili e penali. Il peccato? Gesù non soltanto lo perdona ma “lo condona”. Per queste ragioni, nei tempi del potere degli Scribi e dei Farisei, Gesù fu considerato un “bestemmiatore” e finì sulla croce. Posizioni estreme, quelle di padre Alberto, e non condivisibili dal Papa cui spetta il compito di “governare” la sua chiesa. Si pensi, comunque, a cosa ha prodotto nel corso dei secoli la Chiesa cattolica fattasi Stato: sanguinosissime guerre, sterminio di popoli, invasioni, alleanze politiche e militari con coloro che la parola di Gesù non la conoscevano o la disprezzavano.

Di recente papa Francesco ha incontrato Mario Lambertucci della Società Operai di Colmurano in piazza San Pietro

Di recente papa Francesco ha incontrato Mario Lambertucci della Società Operai di Colmurano in piazza San Pietro

Papa Francesco, ripeto, non approva – non può approvare – il “radicalismo” di padre Alberto circa l’abolizione del tempio. Ma non va ignorato che da quando è salito al soglio pontificio egli sta percorrendo la via di ridurre la rigida monumentalità della Chiesa, rinunciare all’ingannevole fascino dello sfarzo e intaccare,dentro le mura della santa sede, i privilegi di casta e gli interessi finanziari che non di rado hanno caratterizzato l’azione ecclesiale. Una Chiesa più umile e povera, insomma. E fanno testo le sue uscite pubbliche: “La Chiesa non resti chiusa nella propria autoreferenzialità”, “la felicità nelle cose materiali significa non essere felici”, “certe nostre certezze sono un carcere che imprigiona lo Spirito Santo”, “non cediamo al pessimismo e all’amarezza”, “c’è dell’allegria nell’amore misericordioso per ogni essere umano”. Anche in questo, allora, Papa Francesco sembra esser passato, appena un po’, da Montefano. Rivoluzionario pure lui? Certamente sì. E tale, ormai, lo si considera nell’Occidente europeo, nel Medio Oriente, negli Stati Uniti, nell’America meridionale, nell’Africa. E immense moltitudini vedono in lui una delle poche speranze che si riesca a superare la “guerra mondiale a pezzetti” – egli stesso l’ha definita così – che dal Medio Oriente all’Africa sta mietendo milioni di vittime.



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