Giacomo Leopardi assediato
dalla futile cultura televisiva

Ogni volta ne salta fuori una: la presunta “conversione” alla fede cattolica e la raccolta on-line delle firme per la riapertura della tomba e l’esame del Dna. L’accorato appello di Donatella Donati: lasciatelo riposare in pace

- caricamento letture

 

liuti

 

di Giancarlo Liuti

Di cose serie, oggigiorno, ne sono rimaste poche e parlarne seriamente sta diventando sempre più difficile perché molto spesso chi ne parla lo fa soprattutto per parlare di se stesso e mettersi in mostra nei giornali, nei tg e nei talk-show. Ciò sta purtroppo accadendo anche per le vicende relative al corpo di Giacomo Leopardi, spentosi a Napoli il 14 giugno del 1837 nella casa in cui da tre anni viveva con Antonio Ranieri. Una cosa seria, questa, giacché anche allora Leopardi non era uno qualunque e via via lo fu sempre meno, fino a conquistarsi una perenne celebrità a livello mondiale. E come se ne parla, di questa cosa seria? L’accorato appello della studiosa Donatella Donati che invita a lasciarlo riposare in pace non viene accolto da alcuni – non ne faccio i nomi, essendo proprio questo lo scopo loro: andare in prima pagina, farsi conoscere dal grande pubblico, reclamizzare qualche libro scritto da loro – che tirano fuori le tesi più stravaganti, tipo quella che in punto di morte Leopardi si sarebbe “convertito” (!) al cattolicesimo o quella, ripetutamente avanzata, che per stabilire se nel Parco Virgiliano di Fuorigrotta giacciono davvero le sue spoglie bisogna riaprire la tomba, verificarne il contenuto e sottoporlo all’esame del Dna per poi confrontarlo con quello degli attuali componenti della famiglia Leopardi. A tale scopo e proprio in questi giorni è partita una petizione on-line di raccolta firme promossa da un certo “Comitato nazionale per la valorizzazione dei beni storici e culturali” di cui i disinformati come me ignoravano l’esistenza.

La tomba di Leopardi

La tomba di Leopardi nel Parco Virgiliano di Fuorigrotta

 

Fuor di dubbio, intendiamoci, che fra le cose serie – anzi, serissime – vi sia il Dna, la molecola biologica che ci viene trasmessa dai nostri genitori, ed essi l’hanno ricevuta dai loro, e noi la trasmettiamo ai nostri figli, il che si ripete, immutabile, nei secoli. Ultimamente l’esame del Dna è stato fondamentale per dare un nome ai corpi maciullati nella strage terroristica del lungomare di Nizza ed ha avuto un ruolo decisivo nel condannare in primo grado all’ergastolo Giuseppe Bosetti per l’omicidio della tredicenne Yara Gambirasio. Stavolta, però, non ce n’è alcun bisogno, per il semplice motivo che per escludere l’appartenenza a Leopardi delle poche ossa custodite nel Parco Virgiliano esiste più di una indiscutibile ragione oggettiva. E lo dico scusandomi con Donatella per il piglio un po’ sbrigativo, da giornalista, col quale approfitto anche delle sue ben più meditate considerazioni. Meditate ma severissime, giacché lei, in questa occasione, definisce le imprese di cui sopra “grossolane” e “oltraggiose della dignità sia di Giacomo, sia della sua poesia, sia dei suoi veri studiosi e ammiratori”.
Nel giugno del 1837 era in corso a Napoli un’epidemia di colera e per ostacolare il diffondersi del contagio si obbligava per legge che il cadavere di ogni defunto fosse gettato in fosse comuni. Ma fu proprio Antonio Ranieri – ce lo garantì lui stesso e troppi storici gli hanno prestato fede – ad evitare l’anonimato di tale destino aggirando i pubblici poteri e trasferendo la bara col corpo di Giacomo nella più degna chiesa di San Vitale Martire a Fuorigrotta, dov’è rimasta fino al 1939, allorché, dopo una ricognizione fatta nel 900, fu portata nel Parco Virgiliano di Piedigrotta, dove gli venne allestito l’odierno monumento. Cosa mostrò quella ricognizione? Non un cranio, non una colonna vertebrale, non le ossa di braccia e di mani. Solo due femori, uno dei quali ridotto in cenere, una scarpa e qualche lembo di stoffa. E quant’era lungo quel femore? Molto più lungo di quanto sarebbero dovuti essere i veri femori di Giacomo, la cui statura – e di questo possiamo essere certi, avendolo più volte detto lui stesso, il padre Monaldo e le tante persone che lo conobbero – era modesta e probabilmente non superava il metro e sessanta. Conclusione: nel Parco Virgiliano non c’è Giacomo Leopardi, se non come altissimo simbolo. Altra conclusione: Antonio Ranieri disse il falso.

Piazza Leopardi a Recanati

Piazza Leopardi a Recanati

Questo Ranieri, napoletano, di bell’aspetto e uomo di mondo anch’egli letterato, conobbe Leopardi, di cui già ammirava l’arte poetica, nei circoli “bene” di Firenze e ne divenne amico, profondamente e sinceramente ricambiato. Amicizia fraterna? Certamente lo fu da parte di Giacomo, anche perché lui, malaticcio com’era, ne aveva bisogno fisico e morale. E forse lo fu pure da parte di Ranieri, anche se, ripeto, la crescente fama di Giacomo gli era utilissima per acquisire il prestigio che a lui, non ancora trentenne, era indispensabile per costruirsi un proficuo futuro. Sta di fatto che nel 1834 Ranieri decise di tornarsene nella propria casa di Napoli e lì vi condusse il suo caro Leopardi, vivendo entrambi a stretto contatto l’uno dell’altro. Poi l’improvvisa morte di Giacomo e il già detto racconto di Ranieri circa l’avere evitato, a riprova della “fraternità” di quell’amicizia, l’umiliazione delle fosse comuni. E qui va aggiunta qualche altra cosa su Ranieri, ad esempio che era nato nel 1806, visse fino al 1888 e col fiuto dei tempi che gli va riconosciuto seppe porsi alle spalle l’epoca borbonica e affermarsi in quella garibaldina e savoiarda fino a farsi eleggere deputato e senatore nei parlamenti del primo Regno d’Italia. Aveva dimenticato Leopardi? No. Usava parlarne a volte con affetto ma a volte con disprezzo, tanto che nel 1860 gli capitò di ricordarlo, ben poco fraternamente, come “un grande inciampo nel cammin della vita” e perfino “un peso morto”.
E’ allora sulla base di tali evenienze che mi associo a chi dubita della coerenza morale di Ranieri e sospetta che in quel ferale 14 giugno del 1837 il corpo di Giacomo non fu amorevolmente composto nella chiesa di San Vitale Martire ma come migliaia di altri corpi finì in una fossa comune, e chissà di chi furono e dove furono raccattati gli “alibi” dei due femori, della scarpa e dei brandelli di stoffa che ora si trovano nel monumento del Parco Virgiliano. Ma la loro realtà fisica non ha nulla a che vedere con la realtà fisica degli autentici resti mortali di Giacomo, una realtà che fin da subito si perdette negli ambigui meandri delle autoglorificanti parole di Ranieri e della quale non s’è saputo più nulla. Con ciò, tuttavia, non si creda che sia illusorio sostare e commuoversi davanti al monumento del parco. Esso, infatti, è potentemente simbolico dell’immortalità di un genio assoluto e delle sue opere. Come e più di una statua, si pensi a quelle della piazza di Recanati e, bellissima, del centro storico di Fermo. Soltanto simbolico? Non si dica “soltanto”. Senza il soccorso spirituale dei simboli la nostra vita sarebbe molto più dura.



© RIPRODUZIONE RISERVATA

Torna alla home page
Podcast
Vedi tutti gli eventi


Quotidiano Online Cronache Maceratesi - P.I. 01760000438 - Registrazione al Tribunale di Macerata n. 575
Direttore Responsabile: Matteo Zallocco Responsabilità dei contenuti - Tutto il materiale è coperto da Licenza Creative Commons

Cambia impostazioni privacy

X