Quelle quattro cartoline
che fecero del Maceratese
una pagina di storia e di cultura

Il Politecnico, la prestigiosa rivista di Elio Vittorini, portò il nostro territorio alla ribalta europea pubblicando disegni e poesie di una contadina
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di Mauro Montali

Nell’ottobre del 1975 un mio caro amico, Franco T. ( anche lui indirizzato verso la carriera giornalistica), mi regalò la collezione della prestigiosa rivista “Il Politecnico”, ne uscirono trentotto numeri, alcuni semplici, altri doppi, ora settimanale, ora mensile, tra la fine del 1945 e il dicembre del 1947, diretta da Elio Vittorini. Questo bel cofanetto, edito da Einaudi, mi ha seguito nel corso degli spostamenti della mia vita zingaresca. Ebbene, ora che sono in pensione riunendo finalmente in un’unica casa in riva al mare, libri, quadri e ricordi, ho, per la prima volta, cominciato a leggere i vari numeri della rivista. Colpevole negligenza. Colpevolissima. Non dite nulla al mio amico. Giacchè mi  son perso, fino ad ora, un qualcosa di unico e di irripetibile. E non starò qui a fare, adesso, la storia del “Il Politecnico” e la diatriba che oppose Togliatti al geniale e poliedrico autodidatta scrittore siracusano, diatriba che di fatto decretò la chiusura della rivista, che anticipava di gran lunga i tempi. Il clima in cui “Il Politecnico” nasceva era di un fervore pari alle speranze. Si trattava, per Vittorini e i suoi amici, di uscire dal tunnel del fascismo e della guerra per recuperare il tempo perduto, e reinserire la cultura italiana in quel contesto europeo e mondiale da cui era stata esclusa. E i criteri che ispirarono le loro scelte furono interdisciplinari, enciclopedici, pedagogici: l’obiettivo era quello di creare una dialettica fra esigenze inizialmente distanti come politica e cultura, scienza e letteratura, marxismo e cristianesimo. Un progetto di un nuovo umanesimo nel tentativo di saldare la secolare frattura fra sapere umanistico e sapere scientifico.
Era una premessa doverosa, altrimenti non si capisce di cosa stiamo parlando.
Bene, nello sfogliare il numero  (doppio) di luglio e agosto 1946 mi sono imbattuto in qualcosa di singolare, ossia in queste “quattro cartoline dalle Marche”. Vittorini, che chissà come era entrato in possesso di questi disegni, non lo poteva sapere: erano quattro cartoline non già dalle Marche, regione plurale, ma dal Maceratese. Basta, infatti, dare un’occhiata alle stesse “cartoline”. Si parla di San Martino  ma si intende Monte S.Martino, nella cui chiesa sono custoditi diversi dipinti di Carlo e Vittore Crivelli, di Fiastra (anche se nel testo della rivista si parla erroneamente di Piastra), della strada (allora terribile, ora un pò meno) che collega il Maceratese all’Umbria e al “destino final” Roma. Insomma son quattro disegni corredati da altrettante poesiole. Visto con gli occhi di oggi, ma anche di allora se la più importante rivista europea (Jean Paul Sartre ne era un collaboratore tanto per dirne una) aveva pubblicato con grande meraviglia le quattro “cartoline”, l’insieme assomiglia molto ad un capolavoro.
Il genio è quello di una donna. Ma guarda un pò… Per dir meglio, di una contadina maceratese <già ricoverata in una casa di di cura per malattie mentali> come ricorda una nota de “Il Politecnico”. Una pagina di storia e di cultura a tutti gli effetti. Eravamo, lo ricordo, nel 1946. La disciplina dell’antropologia culturale era ancora lontanissima dall’orizzonte culturale italiano. E il talento del professor Ernesto De Martino, padre di tutti gli antropologi che verranno: Carlo Tullio Altan, Tullio Tentori, Tullio Seppilli (tutti di nome Tullio, una bella stranezza, non vi pare?), che si specializzò anni dopo nella magia del mondo contadino, doveva ancora dispiegarsi.
La nostra eroina, che evidentemente fu rinchiusa in manicomio durante il fascismo, con la sua matita fece lo schizzo di quattro paesaggi. <Disegni liberissimi e immediati> chiosa la nota della rivista. C’è tutto il mondo rurale con la sua potenza suggestiva. E ci sono le poesie. Incredibili. <Queste due corone le fece i Dio nei tempi d’alluvione> scrive la contadina ex internata. Che doveva essere una spinoziana antelitteram: la natura come Dio,
sia pure quel Dio del diluvio universale, e quindi un Dio che ha più dell’angelo sterminatore che non quello della  “perfezione di bontà” della filosofia medievale, da Boezio in poi. Ma in lei, nella nostra poetessa, c’è solo tanta serenità e molta fede. Come leggere altrimenti il passo che dice:< Sento nell’aria un spirito di sapienza che par che giri senza la baldanza ricco di cuore e colmo di clemenza dove cammina lascia la Sostanza>? Sostanza: una declinazione filosofica ma anche <una parola forte e cristiana> sottolinea la nota della rivista di Vittorini.
Sia come sia, siamo in presenza di una straordinaria sensibilità poetica.
Il Maceratese, insomma, come deposito dell’archeologia  e dell’antropologia culturale. Ma chi era questa donna?
Quest’Alda Merini ( la più grande poetessa italiana, essa stessa ristretta per più e più anni in vari manicomi italiani) del’Appennino maceratese?
Qualcuno lo sa? E’ diventata nota nel tempo?



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