di Maria Stefania Gelsomini
L’Otello spagnolo ma niente affatto moro di Paco Azorin ha condotto felicemente in porto la sua nave. Lo spettacolo è ben confezionato e non indulge a quelle forzature registiche, talora inutili, cui spesso assistiamo negli ultimi anni: una regia tutto sommato “classica”. Le scenografie sono essenziali, con pochi elementi, sovrastati da un gigantesco leone veneziano onnipresente in scena e decorati da proiezioni, il cui utilizzo, in tempi di magra come questi in cui i soldi scarseggiano, si rivela sempre più un prezioso alleato. E il maxi schermo naturale che il lungo muro dello Sferisterio offre ben si presta alle più svariate soluzioni tecnologiche. Azorin questo lungo muro lo utilizza sin all’inizio per proiettare il titolo dell’opera e il nome di Jago, vero motore di tutta la tragedia, i volti e le firme di Giuseppe Verdi e di William Shakespeare, e anche, nei cambi scena tra I e II e tra III e IV atto, due sonetti sull’amore e la fedeltà (LXXV e CXXXVIII) del drammaturgo e poeta inglese. È l’omaggio registico dichiarato ai due geni.
Nel primo atto viene proiettata la tempesta che rischia di far naufragare la nave di Otello, nel secondo e terzo atto, come su una lavagna nera, un gesso bianco evidenzia le posizioni dei personaggi sul palco, e quindi all’interno del dramma. Viene proiettata la gelosia instillata da Jago, un magma chiaro che scende e riveste la scena (“Temete, signor, la gelosia! È un’idra fosca, livida, cieca”). Viene proiettato un muro ricoperto di sangue, quando Otello lo invoca (“sangue! sangue! sangue! Sì, pe ‘l ciel marmoreo giuro!”). Vengono proiettati i leoni veneziani, grandi e piccoli, tutti bianchi tranne uno rosso, che si moltiplicano e affollano il muro, sul finale del III atto all’ingresso dell’ambasciatore della Repubblica veneta Lodovico, quando Cassio viene nominato successore di Otello. Viene proiettato un unico grande leone che brucia, sul finale di terzo atto, quando Otello maledice Desdemona e Jago, indossato il manto dorato di Otello ormai sconfitto, si guarda allo specchio ed esclama “Ecco il leone!”. Viene proiettato un elegante salice bianco nella celeberrima Canzone del salice nel quarto atto, che cresce alle spalle di Desdemona mentre canta, e sale altissimo sconfinando fin sopra al muro. Vengono proiettati alberi dai rami spogli, che si intrecciano in un intricato groviglio come la mente del suo sposo quando Desdemona capisce che Otello la ucciderà. Viene proiettato un mare azzurro e quieto nel finale, sui due protagonisti che giacciono morti uno accanto all’altra.
Tra le scene corali, molto vivace quella del brindisi del primo atto (uno dei più celebri della lirica: “Innaffia l’ugola!”), piena di gente e di movimento; molto delicata quella del secondo atto con i bambini del coro vestiti di bianco, seduti in fila su sedie bianche, che offrono gigli a Desdemona; molto incisiva la scena corale del terzo atto coi cortigiani che fanno il loro ingresso vestiti di nero e il volto coperto da maschere, che diventano l’ossessione di Otello al culmine della sua gelosia, quando girate assumono le sembianze di Cassio.
Alla maestosità di Otello con le sue vesti ricamate fa da contraltare Jago che indossa, secondo le circostanze, la giacca ufficiale d’ordinanza o il chiodo di pelle nera (quando non prova a mettersi sulle spalle il manto trapunto d’oro dell’invidiato comandante), e tiene in mano uno specchietto in cui contempla il riflesso delle sue azioni malvage. Lo circondano sei instancabili mimi dark punk in gilet di pelle nera: sono gli alleati di Jago, i demoni bui dei personaggi, in scena per tutto lo svolgimento della vicenda.
I momenti d’amore, sia felici che drammatici, sono raccontati con forza struggente in quest’opera. Come il duetto Otello e Desdemona “Già nella notte densa” che conclude il primo atto, cantato con convincente dolcezza dai due protagonisti, o come quando Otello nel terzo atto accusa la sua sposa di essere l’amante di Cassio, la insulta, la chiama impura e vil cortigiana: qui la Desdemona di Jessica Nuccio è intensa e dolente, così come nell’Ave Maria nel quarto atto.
Di forte impatto l’aria di Jago “Credo in Dio crudel” nel secondo atto, che Frontali affronta con grande veemenza e la dovuta dose di cattiveria, anche se perde per un attimo il filo dimenticando qualche parola, ma si riprende subito. E il fazzoletto? Come da copione viene sottratto a Desdemona con l’aiuto di Emilia, poi nascosto in casa di Cassio, e alla fine è con questo fazzoletto che Desdemona viene simbolicamente strangolata prima che Otello la soffochi con un cuscino.
Che dire di questo spettacolo? Tutto il bene possibile, ma una cosa che non torna c’è. Aiuto, com’è possibile? Si è sbiancato Otello, ha una carnagione più bianca dell’abito di Desdemona! La vera notizia è che il Moro non è moro, facciamocene una ragione. E per di più sfoggia barba e capelli grigi, perciò è pure piuttosto avanti con l’età. Ma come, non era un aitante africano? E invece a tratti questo Otello extralarge sembra quasi più yankee di Pinkerton (“Grazie, madona, datemi la vostra eburnea mano…”; Desdemmona… nel finale)! Piccoli inciampi di dizione a parte, Stuart Neill ha una voce potente e un piglio sicuro, è uno dei rari Otello in circolazione al momento e bisogna tenerselo stretto. Di tenori drammatici del repertorio operistico italiano non ce ne sono molti, Neill ha debuttato alla Scala in Don Carlo col maestro Daniele Gatti qualche anno fa e negli ultimi due anni ha interpretato Radames, Manrico, Cavaradossi, Canio e Turiddu, e Otello a Palermo col maestro Palumbo per la regia di Henning Brockhaus, presente ieri sera in arena. La voce un paio di volte (“Esultate” iniziale” e nel “Dio mi potevi scagliar”) salendo ha rischiato di ingolarsi, ma a parte questo, e a parte qualche ruvidezza di troppo in momenti che avrebbero richiesto una maggiore morbidezza, il tenore americano ha cantato per tutta l’opera senza cedimenti.
Vocalmente un cast di livello ineccepibile, col trio dei protagonisti in perfetta forma. Roberto Frontali, baritono di classe sopraffina, è la vera star del cast di questa produzione, e ha debuttato ieri allo Sferisterio dopo anni di prestigiosa carriera internazionale. Con la qualità della sua voce e la sua tecnica ha disegnato uno Jago perfetto, perfido e spavaldo manipolatore. L’ormai beniamina di casa Jessica Nuccio, che il palco dello Sferisterio ha lanciato verso una brillante carriera, ha coraggiosamente debuttato qui un ruolo difficile come Desdemona dopo i successi personali nella Traviata degli specchi edizione 2014 e in Gilda nel Rigoletto del 2015. La giovane soprano è cresciuta molto e canta senza una sbavatura, la maturità che in certi ruoli conferisce quel pathos in più di certo arriverà.
Ottima prova d’esordio anche per il Cassio del ventinovenne marchigiano (di Porto Sant’Elpidio) Davide Giusti, perfetto nel ruolo e dotato di una bella voce. Bene anche tutti gli altri comprimari, Manuel Pierattelli (Roderigo), Seung Pil Choi (Lodovico), Giacomo Medici (Montano), Tamta Tarieli (Emilia) e Franco Di Girolamo (un araldo). Grande prova per il maestro Riccardo Frizza, al timone dell’Orchestra Filarmonica Marchigiana, del Coro Lirico Marchigiano “V. Bellini”, del Coro di voci bianche Pueri Cantores “D. Zamberletti” e del Complesso di palcoscenico Banda “Salvadei”.
L’energia rabbiosa, ironica e vitale impressa da Azorin, che disegna anche le scene, è enfatizzata dai costumi dai toni scuri e tetri (tranne il bianco di Desdemona e dei bambini) di Ana Garay, dalle luci di Albert Faura e dalle coreografie di Carlos Martos.
Applausi per tutti in una serata in cui, non per fare la guastafestival a tutti i costi, ma oltre all’eleganza delle signore (sottotono e sotto-tacco) sono mancate all’appello soprattutto due pelli: la pelle nera (di Otello) e la pelle d’oca. Tutto liscio ma un po’ scontato, già visto, nessun brivido, nessun colpo al cuore, peccato.
(foto di scena di Alfredo Tabocchini)
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Leggere Shakespeare non fa mai male, e se lo si facesse si scoprirebbe che l'”aitante africano” era in realtà piuttosto avanti con l’età. E Otello non è certamente un subsahariano, ma un moro, un musulmano, e i musulmani che arrivavano in Inghilterra erano berberi, di carnagione più scura di quella degli inglesi senza casa in Spagna ma pur sempre relativamente chiara. Ma prendiamo atto del problema di avere un cantante dell’etnia sbagliata, tanto dissimile dai neri che la parte politica immigrazionista ci tiene a mostrare: segno che i neri vanno bene, ma lontano dagli occhi di chi tanto li ama.
Otello era nero???
Ma daiiiiiii…. Non ci posso credere 🙂
Otello utilizza due volte la parola nero per descrivere se stesso. La prima, mentre prende in considerazione l’infedeltà di Desdemona e il fatto che si è allontanata da lui: «Forse perché sono nero / E nel conversare non possiedo / I toni soavi che hanno i cortigiani». La seconda quando dice che se lei l’ha tradito, «il suo nome, che era limpido / come il volto di Diana, è ora insozzato e nero / come la mia faccia»
Nonostante nel dramma sia molto presente il tema della differenza di razza, la specifica etnia del protagonista non è ben precisata. Nell’opera, Otello viene frequentemente definito un “moro”, termine con il quale l’anglosassone cittadino elisabettiano poteva intendere sia un arabo o un nord-africano sia coloro che oggi vengono chiamati “neri”, ossia le popolazioni dell’Africa subsahariana. In altre opere, Shakespeare ha descritto un moro d’Arabia, come nel Mercante di Venezia, e un moro africano nel Tito Andronico. Per Otello, ad ogni modo, i riferimenti alle caratteristiche fisiche del personaggio non sono sufficienti a definire con certezza a quale etnia l’autore si riferisse. La frase di Otello “Haply for I am black” non aiuta, dato che il termine “black”, all’epoca, poteva significare semplicemente bruno. Il consenso popolare tra la maggior parte degli attori e registi di oggi si dirige verso un’interpretazione “nera”, e, pertanto, gli Otello arabi o nord-africani sono stati piuttosto rari.
Fonte : https://it.wikipedia.org/wiki/Otello
Può essere che Otello non sia nero ma solo sporco, come il pulcino Calimero?
Desdemona è un nome di tradizione shakespeariana di etimologia greca, da δυσδαιμων (dysdaimon), che significa “dal destino avverso”, o “nata sotto una cattiva stella” insomma Disgraziata. Il suo ruolo nell’Otello è di incarnare la donna forte capace di superare le norme di moralità sessuale fissate per una donna del XVII secolo. È lei a decidere di sposare Otello, che non è un nome arabo o nordafricano ma germanico e significa padrone, dominatore.
Sembra che l’ultima e più accreditata origine dello scespiriano Moro, sia dovuta all’abitudine che il poeta aveva di consumare durante le sue creazione il famoso cioccolatino Othello della Dufour.
Ma forse Shakespeare era siciliano (di Messina) e si chiamava Scrollalanza (tradotto in inglese Shakespeare, appunto).