di Marco Ribechi
Alcuni lo chiamerebbero battirame, per il classico movimento ritmico dovuto alla sua professione artigianale. Per altri, forse più istruiti, è il magliante: parola sconosciuta anche ai più affidabili dizionari di italiano e che trae origine da “maglio”, cioè un pesante blocco cilindrico necessario per azionare i macchinari meccanici della sua fucina.
Altri, più pragmatici, lo definirebbero ramaio o calderaio… ma per gli amici di una vita, quelli che hanno condiviso la sua esistenza a Villa Potenza, lui è semplicemente “Benito lu callarà”.
Lu Callarà, ovvero l’artigiano imprescindibile, necessario poiché incaricato di lavorare il rame caldo per forgiare calderoni, bacinelle, pentole, alambicchi e tanti altri oggetti metallici necessari alla vita di tutti i giorni. Solo pochi elementi come il fuoco, il carbone vegetale, il rame e a volte un po’ d’argilla per non far scivolare via il pezzo sotto i colpi del martello, permettevano a mani abili di produrre i più svariati oggetti di uso quotidiano; democratici perché utilizzati sia dal ricco che dal povero, necessari perché impiegati in tutte le attività rurali.
Senza di lui non avremmo avuto buoni alambicchi per distillare il mistrà, orgoglio e vizio di ogni buon marchigiano che si rispetti. Non avremmo perfezionato la bollitura del vino cotto, l’igiene sarebbe stata senza dubbio più scadente senza i suoi lavamani in rame, inoltre come cucinare oche e conigli in bottacchio e tante altre specialità locali senza le sue pentole e padelle?
Grandissima è stata l’importanza di questa professione nel passato, tanto da contare svariati centri d’eccellenza come Matelica dove Benito ricorda Diletti, un “callarà speciale”, oppure Sgrigori di Force e poi giù in Abruzzo dove gli artigiani erano imbattibili e sapevano lavorare il metallo fino a “casa del diavolo”, per dirla con un’espressione popolare. Persino quando parliamo del paesino di mio nonno, Apiro, Benito sembra ricordare i fratelli Manfrini che condividevano il suo stesso lavoro.
Ma la professione non si imparava in un giorno, al contrario richiedeva molta dedizione e costanza. Benito, figlio di un mugnaio, decide di fare il magliante per fame e per il semplice motivo che non ce n’erano altri in zona. Inizia nel 1947 e trascorre 14 anni tra Montefalcone e Comunanza per imparare il mestiere. In seguito inizia a lavorare come capo operaio per una ditta de Loro Piceno dove si trattiene dal 1960 al 1973 anno in cui decide di mettersi in proprio. Risale invece al 1983 l’attivazione del suo laboratorio sul fiume Potenza. Da tre fonderie Benito e suo fratello ne crearono una sola andando a recuperare i pezzi a Castenuovo Vomano, Macerata e Ascoli. Ad occhi inesperti il maglio sembra solamente un pezzo di archeologia contadina ma in realtà quelle macchine sono state al servizio degli uomini per più di 200 anni, ripetendo sempre e soltanto lo stesso identico movimento. Il laboratorio di Villa Potenza ha rappresentato il canto del cigno per questa professione come raccontato nel libro introvabile “L’ultimo magliante d’Italia”. Il signor Benito, che vanta 63 anni di attività, insieme a suo fratello sono considerati gli ultimi ramaioli della penisola, e forse anche d’Europa.
La sua bottega oggi appare come un museo abbandonato dove oggetti del passato attendono la loro tragica fine, coperti da polvere e ruggine. Infinite serie di tenaglie, pinze, seghe e altri attrezzi da lavoro, fabbricati dagli artigiani stessi e che sembrano chiedersi se torneranno mai un giorno a svolgere le funzioni per cui erano stati creati. Le pareti appaiono annerite dai fumi del carbone, da quei 1.500 quintali di carbone vegetale che ogni anno bruciavano nelle fornaci per produrre oggetti che poi venivano rivenduti in tutta Italia, da Reggio Calabria a Capracotta, da Salerno al Veneto e al Trentino. Il periodo di massimo splendore dell’attività è stato tra il 1950 e il 1985 quando i due fratelli erano già considerati gli ultimi “callarà”, depositari dei misteri di una professione ormai decaduta.
Nel 2010 l’abbandono dell’attività, per vecchiaia soprattutto, ma anche per mancanza di apprendisti validi e per la difficoltà di competere con le produzioni industriali, infinitamente inferiori per qualità ma con prezzi imbattibili. Benito però non appare deluso, anzi si dice molto soddisfatto per la sua avventura e ricorda che ad inventare il sistema furono due tedeschi che però, dopo aver visto come la mole di lavoro a cui andavano incontro “s’è ‘mmazzati tutti e due perchè ha ditto qui c’è da crepa’ de fatiga, meglio che morimo prima!”. In questa frase divertente c’è tutto lo spirito dell’artigiano che è ben consapevole della durezza della sua professione ma che non sente stanchezza nel momento che le mani si fanno guidare dalla passione.
Ma la vera soddisfazione Benito la provava quando la sua umile professione, un po’ per diletto un po’ per curiosità, nei ritagli di tempo, si trasformava in vocazione artistica unendo l’esperienza alla creazione. Così, con gli occhi illuminati di nuova luce, inizia a ricordare le sue svariate collaborazioni con l’artista Valeriano Trubbiani, anche lui di Villa Potenza e amico da una vita. Benito è colmo di ammirazione per colui che poteva tirar fuori arte da quei pezzi che lui si limitava a battere. “Io fornivo la materia prima, che lui non poteva procurarsi. Come uno che da un pezzo di stoffa fa un vestito… lui è un artista però la stoffa gli serve e quella la fornivamo noi in grande quantità”. Lavorare insieme ad un grande artista, vedere quel metallo che lui batteva “a coda di rondine” prendere forme impensabili, creative e bellissime, contribuire ad alcune sculture, come ad esempio “lo scudo romano”, sono emozioni che non hanno prezzo e che ancora rivivono nel suo cuore.
Forse l’unico rammarico è stato quello di non aver potuto trasformare i suoi pezzi e la sua bottega in un museo che raccontasse alle generazioni successive la passione per il lavoro, la creatività dell’umile, il contatto tra il valore di un oggetto e il tempo (e i colpi) necessario per forgiarlo. La dimensione del lavoro, già ampiamente analizzata dai critici della modernità, che trasforma l’operaio in automa distaccato dal prodotto finale, viene totalmente sovvertita analizzando le figure di questi artigiani che invece mettevano passione in ogni martellata data al pentolone di turno al fine di lasciare un’impressione in ogni futuro uso dell’oggetto.
Credo che sarebbe necessario mantenere vivo il ricordo di questo aspetto della produzione e della società per ricordare che il lavoro non è solamente l’attività per ottenere un salario ma, con il tempo, diventa fattore di identificazione del soggetto stesso, ciò in cui mette la sua anima, e un lavoro che sia onesto e onestamente retribuito senza dubbio contribuisce a creare spiriti altrettanto candidi e sinceri che spendono la loro esistenza allietando, come possono, la vita delle loro comunità.
Benito appare scettico sulla possibilità di riavviare questo tipo di attività ma forse per creare lavoro, benessere e produzione si potrebbe adottare un modello prettamente italiano, che non guardi all’esempio di altri paesi che sicuramente avranno un’economia migliore della nostra ma non possiedono la nostra tradizione. Mi cullo sull’idea di una ripresa italiana che parta dalla tradizione, che non vanifichi l’esperienza secolare delle nostre terre, che non pensi solo al profitto immediato ma che inventi lavoro facendo quello che ha sempre fatto: far germogliare l’eccellenza partendo dalla necessità trasformando l’ordinario in arte, questo credo sia il vero significato del made in Italy.
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Bravo, Marco, bellissimo pezzo!
Callarà si l’orgojo della Villa!!!!!
Ricordo che nei pressi di casa mia, a Corridonia, già Pausula, veramente Montolmo, c’era un uomo che lavorava il rame, d’estate sulla strada , detto “Callarucciu”. Aveva delle spendide figlie, dette “le fije de Callarucciu”… Forse, oggi non si fanno più i vari tipi di pentole in rame, che noi avevamo in casa per cucinare e travasare i liquidi. Oggi si fa tutto in serie e in grande produzione, magari con l’ideazione di un disegnatore… Il rame lo si usa per falsi oggetti domestici da appendere ai muri.
Però, esiste ancora un artigiano vero, un giovane di Macerata di nome Samuele, che lavora il ferro battuto, mestiere del padre. E’ molto bravo e preciso. Esistono altri artigiani che però lavorano in serie, per risparmiare sul lavoro e fare risparmiare al cliente, e sono pieni di lavoro. Meglio così. Io, invece, mi sto facendo fare parecchi lavori da questo giovane e sono soddisfatto.
Davvero un bell’articolo. La riflessione è questa:ma se scompaiono certi artigiani e si svuotano le botteghe, chi tramanderà il loro lavoro?
Complimenti al giornalista per questo bellissimo articolo. Queste persone (ultimi ciabattini, ultimi caldaioli, ultimi falegnami di vecchio stampo ecc ecc) dovrebbero essere insignite del premio nobel categoria arti e mestieri. In questi laboratori si respira la storia, unita all’amore, sudore, pazienza, competenza, umiltà. Complimenti davvero a tutti voi. Un vero peccato che queste cose spariscono.