di Gabor Bonifazi
Uomini e cose che s’influenzano, promiscuità di quotidiano ed eroico, di banale e sublime, di permanente e di effimero. Per cogliere la verità di un ambiente, bisogna avere il coraggio di non guardare le cose dalla finestra, ma di cominciare la lettura di un territorio come si inizia la lettura di un libro, senza conoscerne la trama in anticipo.
E allora vale la pena aggirarsi per strade, senza una guida, senza una meta precisa che non sia quella di prendere di volta in volta il contatto con il mistero che è di fronte a noi. In questi vagabondaggi (non necessariamente solitari e che anzi possono essere arricchiti dalla compagnia, dal dialogo e dallo scambio di osservazioni, critiche e commenti) siamo andati alla scoperta delle diverse botteghe artigiane di Pollenza che, aldilà delle banali certificazioni di bandiera, si fregia a pieno titolo del suffisso di: “CENTRO DELL’ARTIGIANATO E DEL RESTAURO”.
Quindi Pollenza non è solo la mistica Abbazia di Rambona, l’eclettica facciata della chiesa dei Santi Francesco e Antonio, la tetrastila San Biagio alla fine di via Roma, non è solo una bella cittadina di poggio costituita da case e palazzi che delineano il selciato di piazze, vie e viuzze, ma soprattutto un orgoglioso territorio cui spetta il primario dell’antiquariato del mobile e del restauro ad esso relativo. Le case di Pollenza, quelle racchiuse nella cinta muraria, nascondono infatti numerose botteghe di restauratori ed ebanisti. L’angolo più caratteristico rimane sicuramente la via degli orti dove si affaccia anche il palazzo tanto amato dal compianto pittore e simpatico alpino: Fabio Failla. Ma chi scende dalla piazza principale, si trova davanti l’antica pescheria adibita ora a bottega di Caterina Marinozzi. Siamo in via Giacomo Leopardi, a sinistra si va verso la bottega di Giuliana, mentre a destra verso quella di Andrea Maritozzi. La curiosità di capire perché e come proprio in questa cittadina sia nata l’attività del restauro del mobile antico ci ha spinto, in assenza di fonti storiche, ad indagare con l’aiuto di tre fieri “parlanti”: Giacomo Travaglini, Bastià e Antonio Nardi. S’è accertato che l’importatore di questa fiorente attività, che ora conta una ventina di ditte con un centinaio di addetti, fu agli inizi del Novecento l’ebanista e pittore cav. Remo Marinozzi (1875 – 1939). C’è chi sostiene che prese una grande quantità di mobili antichi da alcune chiese, come compenso dei lavori per essere eseguiti. Certo che a Pollenza dovevano esserci valenti falegnami e impagliatori e proprio per questo motivo la tradizione è andata avanti fino ai giorni nostri, con gli allievi cresciuti alla scuola dei Marinozzi di cui rimangono tre pronipoti: Mario, Caterina e Giuliana. Si può far risalire al 1920 la dinastia dei Gattucci, famiglia di ebanisti famosi per la realizzazione del mobile in stile con ben diciotto addetti, e all’ultima guerra mondiale quella dei fratelli Maceo e Walter Pelagalli, da non confondere con i Pelagalli costruttori delle casse per l’ultimo viaggio che all’origine erano titolari di una segheria. Unico esempio di arredamento liberty rimane quello del bar del Teatro, dove agli inizi anni ‘20, sotto la sigla Fim (Fabbrica infissi mobili), lavorarono i Gattucci insieme a Peschi e Travaglini, nel filo sottile che divide l’arte dall’artigianato.
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