di Giuseppe Bommarito *
Circa tre mesi fa l’allora comandante regionale della Guardia di Finanza, il generale Francesco Petraroli, parlando delle infiltrazioni mafiose nel tessuto sociale e imprenditoriale delle nostra regione, definiva testualmente le Marche come terreno di conquista delle organizzazioni mafiose e citava, tra i vari fatti e gli elementi di conferma di tale tesi, “i tentativi della criminalità organizzata di entrare nel distretto della calzatura, nell’intento di rilevare imprese in crisi e di rubare idee e professionalità da trasmettere all’industria camorristica delle contraffazioni”.
Puntuale, è arrivata nei giorni scorsi la maxi operazione della Guardia di Finanza, coordinata – non a caso – dalla Direzione Distrettuale Antimafia delle Marche, che ha sgominato, nel fermano, nel maceratese e nel casertano (dove domina il clan dei casalesi), la banda delle false Hogan, calzature contraffatte di elevatissima qualità. L’ipotesi accusatoria parla di un’associazione a delinquere capace di immettere sul mercato italiano e internazionale più di 50.000 paia di Hogan contraffatte in poco più di un anno, con proventi illeciti per circa due milioni di euro, un’organizzazione complessa e articolata in grado di avvalersi di diverse aziende ricadenti nel nostro distretto della calzatura e di posizionare le macchine per gli stampi dapprima in Moldavia e poi anche in Marocco.
“Sono cavoli di Della Valle, ci pensi lui a tutelare le sue aziende!”, dirà qualcuno. In realtà, questa vicenda non può interessare solo quella che è sicuramente la più grande azienda calzaturiera del fermano e del maceratese, ma riguarda anche tutti noi e le istituzioni che ci rappresentano. Vediamo perché.
Qualche anno fa Roberto Saviano, nel suo eccezionale libro “Gomorra”, aveva ben descritto, all’interno del complesso ed articolato impero economico della camorra (dove il posto di maggior rilievo è occupato dal traffico di droga), l’industria della contraffazione gestita dal crimine organizzato campano (con un grosso aiuto in questo settore da parte della malavita cinese). Spiegava Saviano che la camorra gestisce la contraffazione sia della merce “tarocca” che del “falso-vero”. La merce palesemente taroccata viene distribuita in tutta Italia e, per quanto ci riguarda, arriva nelle nostre zone avendo come terminale principale l’Hotel House. Qui viene smistata alle centinaia di venditori ambulanti che per tutta l’estate battono a tappeto le spiagge marchigiane da Gabicce a San Benedetto del Tronto e chiedono ai bagnanti, sfiniti dal caldo e impietositi dalla fatica bestiale di quei poveri ragazzi di colore, di acquistare la peggiore paccottiglia. In tal modo i distributori ambulanti africani, impegnati in una durissima lotta per la vita, vengono utilizzati dalla camorra come arma di ricatto morale verso i cittadini che frequentano le nostre spiagge, in quanto, grazie al loro sudore e alla simpatia che essi umanamente suscitano, finiscono per indurre tanti turisti a versare qualche obolo (tantissimi nell’insieme, però, e tutti in nero) nella casse della criminalità organizzata, che poi utilizzerà questi soldi in altri traffici illeciti ancora più lucrosi, in primo luogo, per quello del traffico e del commercio di droga, che rimane comunque l’attività illecita che consente i guadagni più elevati e più veloci.
Il “falso-vero” della camorra, invece, è la merce di grande livello, quella abilmente lavorata e del tutto simile ai prodotti autentici della casa madre titolare dei grandi marchi griffati, che prende, in piccola parte, la strada di tanti esercizi pubblici italiani, dove, dopo essere stata comprata a prezzi molto convenienti, viene abilmente mescolata alla merce autentica e venduta a prezzo pieno ad ignari acquirenti, convinti di comprare prodotti originali, e non contraffatti (diversi episodi del genere sono stati segnalati anche dalle nostre parti). La maggior parte del “falso-vero”, invece, va all’estero, in Germania, in Inghilterra, negli USA, in Spagna, in Canada, a rifornire tutta quella catena di negozi e di centri commerciali indispensabili per il riciclaggio dei soldi sporchi e a tal fine messi in piedi o rilevati dalla criminalizzata organizzata del nostro Paese. All’estero i consumatori sono meno pronti a rilevare eventuali piccole differenze, e in ogni caso apprezzano i convenienti sconti proposti dai negozi in mano alla stessa camorra, alla ‘ndrangheta e a cosa nostra.
Ecco perché la vicenda delle false Hogan ci deve interessare tutti, in quanto essa costituisce l’ennesima riprova di una pesante penetrazione della criminalità organizzata anche nella nostra economia legale o paralegale. E così, mentre alcuni sdegnosamente respingono anche la sola idea che il crimine organizzato sia già presente nella nostra regione, ed altri si attardano nel chiedersi se possa parlarsi di semplice infiltrazione o di un sostanziale radicamento, le organizzazioni criminali del sud rafforzano ulteriormente le loro posizioni nelle Marche ed anche nella nostra provincia, penetrando ancora più in profondità nell’industria della calzatura e dell’edilizia e nel settore dei pubblici esercizi, specialmente quelli legati al settore turistico (ristoranti, chalet, campeggi, discoteche, bar…), e stringendo una rete di contatti, di corrieri e di collegamenti che poi tornerà utile anche per far arrivare con maggiore sicurezza, nelle nostre zone, droga in quantità industriale e clandestini senza regolare permesso di soggiorno, nonché soldi sporchi da reinvestire nel mercato legale.
La locale industria della contraffazione va quindi profondamente “attenzionata”, come dicono le forze dell’ordine. Ed altrettanto deve essere fatto, a mio avviso, per i centri commerciali, che, apparentemente senza considerare la pesante crisi di liquidità che colpisce le famiglie ed il conseguente calo dei consumi, continuano a sorgere come funghi anche dalle nostre parti, già sature nel settore della grande e media distribuzione. Nicola Gratteri, Vice Procuratore Aggiunto presso la Direzione Distrettuale Antimafia di Reggio Calabria, i centri commerciali li ha definiti, senza mezzi termini, come le lavanderie del denaro sporco, quello che puzza di mafia, di sangue e di droga. Il riciclaggio avviene in primo luogo con l’edificazione delle strutture immobiliari, durante la quale, in una girandola di società, spesso costituite appositamente, che curano le varie fasi dell’operazione, dall’appalto principale ai subappalti, vengono immessi nel mercato legale milioni di euro frutto di attività illecite. E poi si prosegue l’attività di lavanderia del denaro sporco battendo, per un anno o due, anche in tal caso per milioni di euro, scontrini su scontrini a fronte di vendite inesistenti. Su tali somme, in effetti non incassate, poi si devono pagare le tasse, ma in tal modo per il 70% circa i soldi sporchi si ripuliscono (senza contare poi che, spesso, le tasse in effetti nemmeno vengono pagate, poiché queste società costituite ad hoc, quasi sempre intestate a prestanome, vengono fatte fallire non appena terminato il “risciacquo”, oppure quando cominciano a dare troppo nell’occhio).
Nella nostra zona sono emerse negli ultimi tempi diverse polemiche sul centro commerciale che sta sorgendo a Corridonia, attaccato al fiume Chienti, proprio a confine con il territorio comunale di Macerata. Tante le perplessità su tale centro, sul quale pende un doppio ricorso al TAR Marche per violazioni urbanistiche promosso dal Codacons (con udienza di discussione fissata per il prossimo autunno), dove sono attualmente in corso imponenti e costosissime opere di sbancamento e di movimento terra per la realizzazione delle opere di urbanizzazione primaria, dove già la magistratura ha sequestrato una parte del cantiere per l’effettuazione di opere ancora non autorizzate. In particolare ci si interroga sulla legittimità del frazionamento della struttura da realizzarsi in otto lotti tutti inferiori a 2.500 metri quadrati, frazionamento che a molti è sembrato del tutto strumentale al fine di avere come interlocutore per le autorizzazioni non la Regione Marche, ma il solo Comune di Corridonia (si veda la vicenda abbastanza simile della lottizzazione “Il Castagno” di S. Elpidio a Mare, dove pure in qualche modo è coinvolto, ancora come parte lesa, Della Valle). Altrettanto dicasi, quanto a perplessità, per la rotonda destinata a consentire il traffico in entrata ed in uscita dal centro commerciale, che originariamente doveva ricadere sulla lottizzazione medesima, sulla strada provinciale e in parte (sul lato sinistro andando verso Corridonia) sulla proprietà privata di un terzo, ma ora dovrebbe invece ricadere tutta all’interno della lottizzazione, cosa che, grazie anche alla strozzatura dell’esistente ponte sul Chienti e all’effetto “tappo” che ne conseguirà, con grande probabilità rallenterà il traffico anziché snellirlo e creerà quindi notevoli problemi a tutti gli automobilisti maceratesi in entrata ed in uscita dalla superstrada.
Tutto ciò mentre molti si chiedono chi possa permettersi oggi un investimento del genere, nonostante la crisi economica che tutti registrano e una paurosa contrazione dei consumi, nonostante la diffusa presenza di una serie di strutture di grande e media distribuzione già esistenti nei paraggi, con quale liquidità, quale ne sia la effettiva provenienza, in un momento in cui le banche, per concedere un mutuo di poche decine di migliaia di euro (se poi lo concedono), vogliono l’ipoteca sull’immobile e la firma personale di garanzia non solo dei beneficiari del mutuo, ma anche del padre, della madre e a volte pure dei nonni e di tutti i parenti sino al settimo grado.
E poi, per rimanere ai fatti degli ultimi giorni, c’è da registrare quanto sta avvenendo nell’ambito del processo per associazione a delinquere di stampo mafioso, per traffico di droga e di armi e per diverse estorsioni ai danni di numerosi locali pubblici sulla costa, in corso presso il Tribunale di Macerata contro la banda criminale composta da elementi locali e da diversi elementi provenienti dal sud. Il processo, nato dall’operazione delle squadre mobili di Macerata e Ancona denominata “Gustav”, sta proseguendo, ma le cronache locali ci hanno informato che tutti i testimoni da ultimo sentiti, contraddicendo palesemente quanto da loro stessi in precedenza riferito alle forze dell’ordine, stanno ora negando di aver mai subito pressioni, minacce, estorsioni. E anche questa, per chi riflette per un attimo su cosa probabilmente c’è dietro le ritrattazioni, è una notizia brutta, molto brutta.
* Avvocato e Presidente dell’Associazione onlus “Con Nicola, oltre il deserto di indifferenza”
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Ancora una volta complimenti. Quanti enormi ngozi/centri commerciali hanno chiuso dopo meno di 5 anni di vita nella zona commerciale di civitanova, o della baraccola di ancona? Quanti centri benessere ci sono nella nostra provincia e quanto durano?
Ci vuole tanto a fare indagini del genere? Io non sono del settore ma mi sembra che di processi se ne vedono pochi. Altro che ronde qui ci vogliono forze dell’ordine adeguate per numero, risorse e competenze.
Condivido la lucida analisi dell’Avv. Giuseppe Bommarito. Dove c’è un crimine che produce dei guadagni, quasi sempre c’è un’organizzazione finanziaria che ricicla il denaro. Riciclare denaro sporco significa prendere denaro derivante da un crimine (furto, corruzione, evasione fiscale, spaccio di droga, traffico di armi…) e in qualche modo farlo riemergere dalla clandestinità con operazioni fittizie, in pratica reinvestire capitali illeciti in attività lecite.
Questa operazione di “lavaggio” è un servizio prestigioso offerto dagli istituti finanziari che beneficiano del segreto bancario, cioè che non devono rendere conto a nessuno sulla provenienza del denaro che viene depositato presso i loro sportelli. In sostanza al denaro sporco viene fatta fare una serie di passaggi tra vari istituti, magari passando attraverso qualche paradiso fiscale, per ritornare bello pulito su un qualche conto corrente, pronto per essere usato.
sottovalutare l’infiltrazione della criminalità organizzata è un errore che hanno compiuto tante provincie italiane ricche del Nord e non solo.
Ottima analisi e dettagliata! complimenti. è da condividere…
Grande, Peppe. Come sempre!
Mi auguro che le istituzioni vogliano collaborare con l’associazione e che – soprattutto – in tanti, in tantissimi cittadini si iscrivano. Perché la spinta di popolo sempre, per qualunque situazione, si rivela fondamentale.
Ma come si fa a mettere sullo stesso piano un traffico di droga, un traffico di manufatti falsi e l’investimento di alcuni privati in un centro commerciale? Credo che l’accostamento sia inadeguato, o si dicono quali sono le perplessità o si rischia la querela.
Una annotazione sul sequestro del cantiere: è stato sequestrata una piccola zona ritenuta erroneamente non conforme al progetto dai Vigili di Corridonia, hanno confuso un palo pilota che si realizza fuori del fabbricato per verificare la portata dei pali con una porzione di fabbricato!!
Molto lodevoli le posizioni sostenute dell’avv. Giuseppe Bommarito. Sappiamo purtroppo che molti strumenti deputati al controllo sono spuntati dalle attuali normative. Uno degli ultimi strumenti preposti al controllo è la c.d certificazione antimafia, che dai primi risultati ottenuti, è emersa la pressoché completa inefficacia a raggiungere gli obiettivi ostativi per cui era stata definita. Entrando in merito alle lacune intrinseche dello strumento, già il rapporto costo/efficacia ne fa emergere l’insussistenza (dai dati rilasciati dalla Prefettura di Catania per uno specifico analisi costi benefici: 99,1% sono state informative non ostative, lo 0,5% ostative, lo 0,4% atipiche su un totale annuo di 1354 certificazioni richieste, le cui 4 uniche interdittive costano 48.127 euro ognuna, dato l’ammontare del costo totale del per effettuare il servizio è di 192.508 euro). Ma una delle più rilevanti criticità è che sia l’informazione che la comunicazione antimafia sono documenti (spuntati) richiesti solo a fronte di appalti pubblici. Nei casi in cui siamo sotto determinate soglie subentra lo strumento della comunicazione (per i lavori 5.000.000 euro; per servizi e forniture 200.000 euro; per subappalti e concessioni di bene demaniali 154.000 euro) che a differenza dell’informazione antimafia è molto cedevole rispetto la verifica dei requisiti. Anche nel caso si superino certe soglie di appalto rimangono scoperti da efficacia due aspetti molto critici:
1) la richiesta di informazioni è inoltrata al Prefetto della provincia nella quale hanno residenza o sede le persone fisiche, le imprese, le associazioni, i consorzi o le società interessate di appalto. Questa norma viene elusa sistematicamente sia dalle persone fisiche che giuridiche che hanno già subito un provvedimento interdittivo antimafia. Come? In molti casi è stato sufficiente per le imprese interdette cambiare in modo fittizio la SEDE LEGALE presso un’altra provincia, anche conservando la sede operativa nella provincia in cui ha avuto luogo l’interdizione, e ottenere la certificazione liberatoria nella nuova provincia. Perché questo succede? Né il legislatore né il Ministero dell’Interno ha previsto l’obbligo o la facoltà di ANNOTARE alla banca dati nazionali (SDI) delle FF.OO, le condizioni di interdizioni rispettivamente alla persone o società colpite dall’informativa ostativa precedentemente emessa. Questo labile meccanismo, ostruttivo al passaggio delle informazioni e al coordinamento tra ambiti territoriali diversi è aggravato da una circostanza: l’interdizione non può essere annotata dalle Camere di Commercio deputate al rilascio della “comunicazione con dicitura antimafia”. Siccome la comunicazione può operare sotto una certa soglia di importo dell’appalto, le imprese colpite in passato possono aggirare molti ostacoli semplicemente concorrendo a appalti sotto soglia. E’ per questo motivo che i frazionamenti di appalto sono un indicatore di rischio. Come fare? Si potrebbe riprendere il modello sperimentato (quello del “Sistema Informativo Dinieghi” per 30 provincie che nella passata programmazione dei fondi comunitari, ex Obiettivo 1, risalente l’anno 2005) rafforzando due aspetti: rendere OBBLIGATORIA LE ANNOTAZIONI OSTATIVE E CONSENTIRE L’ACCESSO A QUESTE ANNOTAZIONI ANCHE ALLE CAMERE DI COMMERCIO, che dovendo rilasciare la comunicazione con dicitura antimafia, escludendo questo enforcement, sarebbe aria fritta l’attestazione che rilasciano.
2) Tutto quello di cui sopra non si applica alle AUTORIZZAZIONI IN MATERIA DI COMMERCIO E PUBBLICI ESERCIZI (dai grandi centri commerciali alle semplici pizzerie). Qui credo che è il problema non ha bisogno di alcun commento.