di Giuseppe Bommarito *
Basta sfogliare anche distrattamente i giornali locali per risalire, pure nella nostra regione, tutti i gironi infernali del disagio giovanile.
Le recenti otto overdosi di Porto Recanati ci ricordano la tragedia della tossicodipendenza. Gli ultimi arresti di spacciatori, italiani e stranieri, a Macerata e San Severino Marche, ci sbattono in faccia il mondo della droga, il mondo del consumo e del traffico di sostanze stupefacenti, con tutte le sue miserie e con i suoi risvolti criminali. Il terribile suicidio del ragazzo di Porto S. Elpidio, che ha messo fine alla sua vita qualche giorno fa davanti ai genitori, buttandosi da un ponte sull’autostrada A14, ci costringe a confrontarci con quei giovani che ad un certo punto, apparentemente senza un motivo plausibile, dicono “basta” e se ne vanno da questo mondo con la stessa semplicità con cui si esce di casa per andare al bar. Poi, per non farci mancare nulla, c’è anche lo stupro di gruppo della ragazza quindicenne a Fano, ad opera, almeno così sembra, di tre coetanei. L’ennesimo bollettino settimanale delle forze dell’ordine, con le tante patenti ritirate a giovani e giovanissimi a causa dell’alcol, ci ricorda la piaga del “binge drinking”, le bevute compulsive. Dimenticavo: sulle nostre cronache locali degli ultimi giorni, a leggerle bene, ci sono pure i tristi resoconti degli atti di bullismo, dei danneggiamenti senza senso, del sesso precoce, delle corse spericolate in auto e moto su strade affollate, degli scontri all’ultimo sangue tra gruppi di ragazzi armati di coltelli, armi contundenti, tirapugni sulle nocche delle mani, degli sballi di massa nelle discoteche sulla costa. Mancano solo, in questa elencazione delle espressioni del disagio giovanile, la violenza negli stadi, perché in questi mesi i campionati sono fermi, e le sette sataniche, perché, per definizione, operano nell’oscurità più assoluta.
Insomma, tanti giovani, non tutti, certo, ma sempre troppi, stanno male, e anestetizzano o sfogano la loro angoscia con la droga, l’alcol, con la musica sparata a tutto volume nelle orecchie, con la violenza su se stessi e sugli altri, con un cattivo rapporto con il cibo (bulimia e anoressia). Tanti giovani soffrono di solitudine nell’ambito delle loro famiglie, e cercano rifugio nel gruppo dei pari (dove, per farsi accettare, e pensando di trasgredire, in realtà si omologano con comportamenti sempre più a rischio), oppure, chiusi nella loro camera, nella comunicazione virtuale con internet, facebook, la pornografia sul web, i giochi elettronici. Tanti giovani cercano di superare la loro scarsa autostima puntando solo sul consumismo sfrenato, sull’esteriorità, sul capo griffato, sul telefonino ultimo modello, sul tatuaggio più appariscente, e magari a questo scopo, se non bastano i soldi avuti a casa, cercano di procurarsene altri con una qualche attività di spaccio o con il gioco d’azzardo, quello on line e quello nelle sale di scommesse, sempre più diffuse anche nelle Marche.
Abbastanza per dire che la nostra regione (balzata nel 2010 al secondo posto, dopo l’Umbria, nel tasso di mortalità per droga, e al terzo posto fra le regioni italiane nella triste graduatoria dei suicidi, con la provincia di Macerata, a sua volta, in testa nell’ambito marchigiano, sia come suicidi riusciti che come suicidi tentati) rientra perfettamente nelle statistiche nazionali del profondo disagio giovanile e non incarna certo quell’isola felice che ogni tanto rispunta maldestramente negli incauti discorsi di qualche autorità politica o istituzionale.
In realtà, anche nella nostra operosa terra delle armonie i giovani sono le vittime privilegiate di una crisi dell’intera società. Guardiamo, con obiettività e con un sincero spirito autocritico, cosa riserviamo oggi ai giovani. Fatte salve le pur numerose eccezioni, va qui detto che ai giovani, ai protagonisti di quell’adolescenza infinita che ormai arriva tranquillamente intorno ai 25 anni, offriamo famiglie che, anche se rimangono unite, si rivelano sempre più solo luoghi di coabitazione tra diverse persone, ognuna delle quali è presa dai propri interessi o dalla propria solitudine; famiglie i cui componenti adulti sono sempre in tutt’altre faccende (non solo lavorative) affaccendati, per cui non hanno alternativa se non quella di piazzare i figli, almeno sino all’età del motorino, presso la squadra di calcio, il circolo tennis, la scuola di musica, di nuoto, di arti marziali, il corso di inglese; famiglie che scaricano i loro sensi di colpa verso i figli riempiendoli di regali, spesso inutili e quasi sempre nemmeno richiesti; famiglie che allo scoccare dei 14 anni comprano il motorino ai figli, e così all’improvviso li scaraventano nel mondo, senza rete, di giorno e di notte, dopo averli deresponsabilizzati in tutto e per tutto; famiglie che spesso si disgregano, e trascinano i figli in un vortice di risentimenti, dispetti, cause, nuovi rapporti. Non è diversa la situazione nelle scuole, dove si ragiona quasi esclusivamente sui numeri delle iscrizioni e sulle esigenze del personale, dove spesso si privilegia solo l’immagine dell’istituto e si chiudono gli occhi sullo spaccio di droga e sul bullismo interno, dove domina un pietoso e irresponsabile buonismo che livella tutti verso il basso, dove l’educazione alla vita è minima e la formazione culturale è scarsa. E così le bocciature e gli abbandoni scolastici fioccano, così come i successivi abbandoni universitari. Per molti di quelli che arrivano alla laurea c’è poi la triste scoperta di aver conseguito un pezzo di carta che non serve a nulla, che non assicura reali prospettive di occupazione. Per i fortunati che riescono a trovare un qualche lavoro scattano, anche per i diplomati e i laureati, le trappole del precariato (utile per entrare nel mondo del lavoro, ma umiliante quando si trascina per anni e anni, con la conseguente impossibilità di programmare un qualsiasi futuro, di accedere ad un mutuo in banca, di costituire una famiglia), della sottoretribuzione, del lavoro in nero, dei ricatti sessuali.
Intendiamoci, non si può generalizzare. Io qualche volta tendo a farlo, però non si possono dimenticare i tanti giovani che fanno sino in fondo la parte loro, che studiano, si impegnano, riescono a collocarsi nel mondo del lavoro anche in posti di responsabilità, giovani che hanno la fortuna di crescere in famiglie solide e coese, che addestrano alla vita, che sanno dire i “no” che responsabilizzano e abituano alle frustrazioni, che fanno ben comprendere ai figli il percorso di impegno e di responsabilità che c’è tra un desiderio, un obiettivo, e la sua concreta realizzazione. Così come vanno positivamente ricordati tutti i dirigenti scolastici, i professori, i docenti universitari – e non sono pochi – che fanno il possibile per dare un senso ed una reale utilità, nel presente e in prospettiva, al mondo della scuola e dell’università. Ed infine, sempre per cercare di essere il più possibile obiettivi, vanno citati pure i due milioni di giovani (oltre il 20% dei giovani in Italia) che, mentre si piangono addosso, non studiano e non lavorano, e vivono per loro scelta grazie ai sussidi delle famiglie, se non di espedienti e di reati, evidentemente convinti anch’essi, come molti dei loro genitori, che i lavori manuali debbano essere solo prerogativa dei lavoratori stranieri (a proposito: questo non è un chiaro sintomo di razzismo inconsapevole di una larghissima fascia della nostra società?).
Comunque, fatte tutte queste dovute precisazioni, non c’è dubbio che il disagio giovanile oggi si stia manifestando, anche da noi, in maniera sempre più visibile e dilagante, con lo sballo che appare sempre più essere il segno distintivo di una generazione sospesa nel vuoto, che ha buttato via la memoria del passato e con un futuro incerto e minaccioso davanti a sè. Lo sballo, cioè la sublimazione del vuoto emotivo, motivazionale ed esistenziale di tanti giovani, ottenuto in qualsiasi modo, purchè ottenuto (con la droga, l’alcol, il sesso, il computer, ed anche con tutte queste cose messe insieme). Lo sballo, come risposta alla noia senza speranza, al futuro come minaccia, alla mancanza di interessi, di motivazioni, di senso della vita. Lo sballo, come momento in cui osservi la tua vita scorrere, senza in realtà partecipare ad essa, per cui la morte, per overdose, per un incidente stradale, per un gioco trasgressivo finito male, anche per suicidio, può essere tranquillamente messa nel conto.
Se il futuro non è più visto come una prospettiva in cui, con ragionevole certezza, si realizzeranno aspirazioni e processi di crescita (l’ascensore sociale di cui hanno goduto le precedenti generazioni), ma come una minaccia, con angoscianti sensazioni di insicurezza, di fragilità emotiva e di precarietà, allora per i giovani, quando non si arriva all’idea di togliere precocemente e definitivamente il disturbo, è meglio cercare di star bene oggi, o almeno di fingere di star bene, con la ricerca chimica della felicità, con l’anestesia della droga e dell’alcol, con la finta onnipotenza che si vive nelle discoteche e nel mondo virtuale, con la violenza scatenata alla cieca. Se di giorno, in quel deserto di indifferenza che sempre più si espande, nessuno si occupa seriamente del futuro dei nostri giovani, allora essi vivono di notte, immersi nel finto mondo della movida notturna, dove almeno c’è qualcuno che di loro sembra occuparsi (chiaramente, solo per motivi di profitto e di sfruttamento consumistico), apprestando locali e situazioni dove lo sballo di massa è preconfezionato e dove si fa loro credere che tutto è possibile.
Questa, secondo me, è la situazione, una situazione gravissima che si finge a tutti i livelli di non vedere. Ognuno di noi, me compreso, guarda dall’altra parte, oppure, quando va bene, si ferma solo su un segmento, e non sull’interezza dell’immenso disagio giovanile, e così non ne coglie la sempre più preoccupante gravità.
Servirebbero l’indignazione e una ribellione costruttiva dei giovani; servirebbero figure adulte di riferimento, genitoriali e no, realmente credibili; servirebbero politiche statali e regionali realmente improntate al sostegno delle famiglie, al superamento (quanto meno dopo qualche anno) del precariato, ad una seria formazione scolastica, universitaria e professionale; servirebbe una rivalutazione dei lavori manuali, almeno per coloro che, per loro scelta, non vogliono portare avanti il percorso degli studi. Insomma, servirebbero tante cose e dovrebbero essere concertate coralmente, tra lo stato e tutte le agenzie educative (famiglia, scuola, chiesa) e gli stessi giovani.
Ma, prima di tutto, ciò che occorre è la consapevolezza che la situazione sta veramente sfuggendo di mano a tutti.
* Avvocato e Presidente dell’Associazione onlus “Con Nicola, oltre il deserto di indifferenza”
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Avv. Bommarito,
il suo articolo è veramente una NITIDA FOTOGRAFIA della realta’, che fa’ riflettere !!!!!
Ma pochi hanno il coraggio di guardare questa FOTO della nostra Regione e ammettere che il problema esiste , oggi non è piu’ circoscritto e si sta allargando velocemente in modo capillare coinvolgendo sempre piu’ GIOVANI.
CONSAPEVOLI CHE PURTROPPO I FATTI SONO QUESTI ,NON DOBBIAMO CHIUDERE GLI OCCHI,
MA AIUTARLI A DIVENTARE UOMINI ………………………………IN QUESTA SOCIETA’
Avvocato purtroppo quello che lei scrive è fin troppo vero. In un commento che ho fatto nei giorni scorsi scrivevo che è importante riempire i tanti contenitori che abbiamo dato ai giovani di contenuti se vogliamo aiutarli. Con questo intendevo che molte volte è colpa nostra se i giovani cadono in certe trappole. Stiamo insegnando loro che il valore principale è il denaro, con tutto quello che ne consegue.
Nel pomeriggio di oggi ero al centro commerciale ed ho letto una locandina pubblicitaria di una associazione di volontariato che organizza una festa per i giovani, la prima di quel genere dicono. Nel primo giorno prevedono un “birra party”. E’ tutto dire.
“SII IL MEGLIO DI QUALSIASI COSA TU SIA” – di Douglas Malloch
Se non puoi esser pino in cima alla collina,
sii pruno nella valle, ma sii sempre il più
bel cespuglietto accanto al ruscello;
se non puoi esser albero sii cespuglio.
Se non puoi esser cespuglio, sii dell’erba
e abbellisci come puoi la strada maestra;
se non puoi esser muschio, sii alga,
ma l’alga più graziosa del laghetto,
se non puoi essere un luccio,
allora sii solo un pesce persico:
ma il persico più vivace del lago!
Non possiamo far tutti il comandante,
altrimenti la ciurma chi la fa?
C’è qualcosa da fare per tutti.
Ci sono lavori grossi e altri meno
e ciascuno deve scegliersi il più adatto.
Se non puoi esser strada, sii sentiero,
se non puoi esser sole, sii una stella;
vincere o perdere
non ha a che vedere con la grandezza
ma bisogna essere al meglio quello che si è.
Non possiamo nasconderci dietro ad un dito, il problema è più vasto di ciò che si immagina, basti pensare che circa il 25% dei bambini in un’età compresa fra i 7 e i 14 anni, in Italia, non ha un minuto di libertà nell’arco della giornata! Devono: essere bravi a scuola, saper fare uno sport adatto per la loro crescita, saper suonare uno strumento o frequentare una scuola di ballo, conoscere e saper parlare due lingue straniere…
Vivono l’ansia da prestazione… ad un figlio si dà tutto, ma gli si chiede anche tutto: usano il telecomando e il computer già a 3-4 anni e, alla scuola materna hanno già il cellulare a tasto unico per chiamare la mamma.
Sottoponiamo i nostri ragazzi a innumerevoli sollecitazioni ed inneschiamo una reazione contraria ed incontrollata. Il timore di non riuscire a raggiungere e mantenere i livelli del successo fa si che essi diventano ansiosi, insicuri, fragili e non pronti a sostenere la sconfitta. Inoltre, le aspettative dei genitori sono sempre più alte, e l’insuccesso del figlio è sempre colpa di altri (non riescono a mantenersi neutrali durante una gara sportiva, oppure reagiscono in malo modo se l’allenatore non fa giocare il proprio pargolo). Sono proprio questi atteggiamenti sbagliati che frustrano il bambino; è così che il ragazzo percepisce che mamma e papà non amano lui con i suoi limiti e, sempre più spesso avverte di essere una nullità quindi, per sconfiggere questo legame si accosta a persone più adulte, si lascia circuire dall’alcol e poi da altre schifezze.
Chi di noi non vorrebbero avere figli buoni, bravi, belli e intelligenti? Ma è proprio questa ricerca della perfezione che fa aumentare il disagio dei nostri figli. E, attenzione, troppa pressione può scatenare l’insonnia, o disturbi di apprendimento o, peggio ancora di alimentazione (sono in continuo aumento i casi di anoressia e bulimia, oggi riconosciute come vere e proprie malattie mortali)!
Spesso poi, nella continua ricerca del figlio perfetto a tutti i costi, i genitori si sentono impreparati al loro ruolo e insoddisfatti dei risultati, oppure provano ribellione per un figlio che non da per quanto riceve.
Dall’altra parte, i figli appaiono spaventati e infastiditi da tanto malcontento, ci accusano di invadere la loro privacy e di non aver dato gli strumenti per affrontare le sconfitte e le insidie della vita.
Perché quanto sopra non avvenga (… e prima che l’adolescenza esponga i nostri figli a turbamenti, emozioni, insuccessi, ecc …), è necessario avere coscienza dell’individuo che si ha davanti, che è vero che è sangue del nostro sangue, ma possiede caratteristiche, carattere, personalità, potenzialità e aspettative diverse da noi.
Umberto Galimberti, «L’ospite inquietante. Il nichilismo e i giovani»-
I giovani, anche se non sempre lo sanno, stanno male. E non per le solite crisi esistenziali che costellano la giovinezza, ma perché un ospite inquietante, il nichilismo, si aggira tra loro, penetra nei loro sentimenti, confonde i loro pensieri, cancella prospettive e orizzonti, fiacca la loro anima, intristisce le passioni rendendole esangui.
Le famiglie si allarmano, la scuola non sa più cosa fare, solo il mercato si interessa di loro per condurli sulle vie del divertimento e del consumo, dove ciò che si consuma non sono tanto gli oggetti che di anno in anno diventano obsoleti, ma la loro stessa vita, che più non riesce a proiettarsi in un futuro capace di far intravedere una qualche promessa. Il presente diventa un assoluto da vivere con la massima intensità, non perché questa intensità procuri gioia, ma perché promette di seppellire l´angoscia che fa la sua comparsa ogni volta che il paesaggio assume i contorni del deserto di senso.
Interrogati non sanno descrivere il loro malessere perché hanno ormai raggiunto quell´analfabetismo emotivo che non consente di riconoscere i propri sentimenti e soprattutto di chiamarli per nome. E del resto che nome dare a quel nulla che li pervade e che li affoga? Nel deserto della comunicazione, dove la famiglia non desta più alcun richiamo e la scuola non suscita alcun interesse, tutte le parole che invitano all´impegno e allo sguardo volto al futuro affondano in quell´inarticolato, all´altezza del quale c´è solo il grido, che talvolta spezza la corazza opaca e spessa del silenzio che, massiccio, avvolge la solitudine della loro segreta depressione, come stato d´animo senza tempo, governato da quell´ospite inquietante che Nietzsche chiama ‘nichilismo’ e così definisce: «Nichilismo: manca il fine, manca la risposta al ‘perché?’. Che cosa significa nichilismo? Che i valori supremi perdono ogni valore».
E perciò le parole che alla speranza alludono, le parole di tutti più o meno sincere, le parole che insistono, le parole che promettono, le parole che vogliono lenire la loro segreta sofferenza languono intorno a loro come rumore insensato, in quella stagione dove i nostri giovani passano, dalla primavera in cui la vita li ha immessi, a quell´inverno dell´anima dove anche il rigore del gelo si fa sempre meno avvertito.
Un po´ di musica sparata nelle orecchie per cancellare tutte le parole, un po´ di droga per anestetizzare il dolore o per provare una qualche emozione, tanta solitudine tipica di quell´individualismo esasperato, sconosciuto alle generazioni precedenti, indotto dalla persuasione che, stante l´inaridimento di tutti i legami affettivi, non ci si salva se non da soli, magari attaccandosi, nel deserto dei valori, a quell´unico generatore simbolico di tutti i valori che nella nostra cultura si chiama denaro.
Va da sé che quando il disagio non è del singolo individuo, ma l´individuo è solo la vittima di una diffusa mancanza di prospettive e di progetti, quando non di sensi e di legami affettivi, in cui la nostra cultura particolarmente si distingue, è ovvio che le cure farmacologiche a cui oggi si ricorre fin dalla prima infanzia o quelle psicoterapiche che curano le sofferenze che originano nel singolo individuo sono per la gran parte inefficaci. E questo perché se l´uomo, come dice Goethe, è un essere volto alla costruzione di senso (Sinngebung), nel deserto dell´insensatezza che l´atmosfera nichilista del nostro tempo diffonde, il disagio non è più ‘psicologico’, ma ‘culturale’. E allora è sulla cultura collettiva e non sulla sofferenza individuale che bisogna agire, perché questa sofferenza non è la causa, ma la conseguenza di un´implosione culturale di cui i giovani, parcheggiati nelle scuole, nelle università, nei master, nel precariato, sono le prime vittime.
E che dire di una società che non impiega il massimo della sua forza biologica che i giovani esprimono dai quindici ai trent´anni, progettando, ideando, generando, se appena si profila loro una meta realistica, una prospettiva credibile, una speranza che, proprio perché non è una promessa vuota, è in grado di attivare quella forza che i giovani sentono dentro di sé e poi fanno implodere, anticipando la delusione per non vedersela di fronte? Non è in questo prescindere dai giovani il vero segno del tramonto della nostra cultura? Un segno ben più minaccioso dell´avanzare degli integralismi di altre culture, dell´efficientismo sfrenato di popoli che si affacciano nella nostra storia e con la nostra si coniugano, avendo rinunciato a tutti i valori che non si riducano al valore del denaro.
Se il disagio giovanile non ha origine psicologica ma culturale, inefficaci appaiono i rimedi elaborati dalla nostra cultura, sia nella versione religiosa perché Dio è davvero morto, sia nella versione illuminista perché non sembra che la ragione sia oggi il regolatore dei rapporti tra gli uomini, se non in quella formula ridotta della ‘ragione strumentale’ che garantisce il progresso tecnico, ma non un ampliamento dell´orizzonte di senso per la latitanza del pensiero e l´aridità del sentimento. E in effetti, scrive Heidegger, «l´esito dell´aggirarsi del più inquietante fra tutti gli ospiti è lo spaesamento come tale. Per questo non serve a niente metterlo alla porta, perché ovunque, già da tempo e in modo invisibile, esso si aggira per la casa. Ciò che occorre è accorgersi di quest´ospite e guardarlo bene in faccia». (…)
Vorrei intanto che si facesse piazza pulita di tutti i rimedi escogitati senza aver intercettato la vera natura del disagio dei nostri giovani che, nell´atmosfera nichilista che li avvolge, non si interrogano più sul senso della sofferenza propria o altrui, come l´umanità ha sempre fatto, ma – e questa, come ci ricorda Günther Anders, è un´enorme differenza – sul significato stesso della loro esistenza, che non appare loro priva di senso perché costellata dalla sofferenza, ma al contrario appare insopportabile perché priva di senso. La negatività che il nichilismo diffonde, infatti, non investe la sofferenza che, con gradazioni diverse, accompagna ogni esistenza e intorno a cui si affollano le pratiche d´aiuto, ma più radicalmente la sottile percezione dell´insensatezza del proprio esistere. E se il rimedio fosse altrove? Non nella ricerca esasperata di senso come vuole la tradizione giudaico-cristiana, ma nel riconoscimento di quello che ciascuno di noi propriamente è, quindi della propria virtù, della propria capacità, o, per dirla in greco, del proprio daímon che, quando trova la sua realizzazione, approda alla felicità, in greco eu-daimonía?
In questo caso il nichilismo, nella desertificazione di senso che opera, può segnalare che a giustificare l´esistenza non è tanto il reperimento di un senso, sognato più dal desiderio (talvolta illimitato) che dalle nostre effettive capacità, quanto l´arte del vivere (téchne tou bíou) come dicevano i Greci, che consiste nel riconoscere le proprie capacità (gnothi seautón, conosci te stesso) e nell´esplicitarle e vederle fiorire secondo misura (katà métron).
Questo spostamento dalla cultura cristiana a quella greca potrebbe indurre nei giovani quella gioiosa curiosità di scoprire se stessi e trovar senso in questa scoperta che, adeguatamente sostenuta e coltivata, può approdare a quell´espansione della vita a cui per natura tendono la giovinezza e la sua potenza creativa. Se proprio attraverso il nichilismo i giovani sapessero operare questo spostamento di prospettiva capace di farli incuriosire di sé, ‘l´ospite inquietante’ non sarebbe passato invano. Ma perché ciò possa avvenire è necessario che gli adulti non si consegnino alla rassegnazione e alla fatalità, ma sappiano accompagnare i giovani alla scoperta della loro simbolica, che è custodita e secretata nel loro cuore ora silenzioso ora tumultuoso, della cui forza, forse, li abbiamo privati, spuntando quelle che il Salmo 127 definisce ‘frecce’: «Come frecce in mano a un eroe sono i figli della giovinezza».
Per riscoprire questa simbolica occorre distanziarsi dallo sguardo sociologico che punta gli occhi sulla devianza (i drogati, i violenti, gli sfaccendati), versione scientifica delle ansie genitoriali che si nutrono di timore per il futuro, senza neppure il sospetto che la devianza forse altro non è che la frustrazione della simbolica che anima la giovinezza. E anche dallo sguardo psicologico che considera la giovinezza come un´età di mezzo in cui non si è più bambini e non si è ancora adulti, e perciò età faticosa, difficile, fonte di sofferenze e di ansie, età di transito, età inadeguata. Niente di più falso. La loro età non è un ‘transito’. Il futuro è già ben descritto nel loro presente giovanile che, se può apparire aberrante, è solo perché noi adulti, consegnati alla nostra rassegnazione, quando non al cosiddetto ‘sano realismo’, abbiamo svilito il segreto della giovinezza, che è quel dispositivo simbolico in cui sono già ben scritte e descritte le figure del futuro, che solo la nostra pigrizia mentale e affettiva ci impedisce di cogliere.
( autore: Umberto Galimberti
fonte
http://www.donboscoland.it/articoli/articolo.php?id=4624