di Maria Stefania Gelsomini (foto di scena Alfredo Tabocchini)
Il Flauto politico di Graham Vick incanta con la sua melodia metà Sferisterio. L’altra metà lo subissa di fischi. Raccontare nei dettagli uno spettacolo in cui c’è dentro il mondo è complicato. Il flauto c’è, ed è anche magico. C’è la potenza dell’amore, che alla fine abbatte i simboli del potere e redime l’umanità in un grande abbraccio collettivo, e ci sono le prove che l’uomo deve affrontare per sconfiggere l’oscurità. Ma tutto ciò che sta in mezzo, tra gli accampamenti dei profughi che fin da prima dell’ingresso degli spettatori brulicano di attività, e i fuochi d’artificio che esplodono sul finale, è il messaggio sociale, dichiarato, di Vick. Al quale interessa portare sul palco l’uomo e la società contemporanea con i suoi innumerevoli contrasti, le sue luci e le sue ombre. E lo fa riscrivendo interi dialoghi, adattando persino alcuni versi del libretto italiano di Fedele D’Amico, lo fa portando quella varia umanità sul palco, in mezzo al pubblico, ovunque.
La partecipazione degli spettatori alla scena è un pallino del regista inglese, che nello scambio osmotico fra palco e platea ritrova la sua cifra stilistica. Lo scorso anno al Festival Verdi di Parma nel suo Stiffelio aveva tolto le poltrone, costringendo il pubblico ad assistere in piedi allo spettacolo, un attore che partecipa emotivamente allo svolgersi della vicenda. Così allo Sferisterio, dove l’intera città sale simbolicamente sul palco attraverso i suoi cento rappresentanti, che poi sono i cittadini del mondo, e dove Tamino, prima dell’inizio del secondo atto, insegna al pubblico i due cori che dovrà cantare per lui durante il suo percorso iniziatico: “Non bisogna avere paura di essere stonati – esorta con microfono, felpa e cappellino da rapper (o forse da animatore di villaggio turistico?) – basta il cuore. Siete bravissimi!”
Vick lo fa a discapito anche della stessa musica forse, messa al servizio di un progetto che chiede al direttore d’orchestra di entrare in buca in sordina e attaccare le prime note mentre gli spettatori stanno ancora prendendo posto, e che fa sovrastare le note corali finali dallo strepitio festoso dei fuochi d’artificio. In questo Flauto magico la parola prevale sulla musica, la necessità di comunicare un messaggio, di urlare una protesta sono più forti di tutto. La prosa irrompe dentro la lirica e le ruba il palcoscenico. Le continue incursioni fisiche e vocali, le voci urlate, le incitazioni, i commenti a volte risultano eccessivi, ma è un’insistenza voluta, piaccia o non piaccia, una contaminazione che interpreta l’intenzione del regista. Questo Flauto è uno spettacolo a sé, impossibile trovare un termine di paragone perché termine di paragone non esiste, tanto da lasciare disorientati anche gli immancabili puristi. Il regista ha riscritto una nuova opera di Mozart. E Mozart sarebbe stato d’accordo? Chi può dirlo. Il messaggio fortissimo del genio di Salisburgo, dice Vick, è la storia del potere dell’amore, e questa c’è.
Eliminati tutti gli elementi massonici, serpenti, piramidi e prove iniziatiche, l’apparato simbolico allestito da Mozart è sostituito da una panreligione, espessa da tre poteri che sottomettono l’uomo, e ancor di più la donna: il potere finanziario delle banche (il tempio della BCE), il potere della tecnologia (il tempio della Apple) e il potere della Chiesa (il Vaticano). Dei nuovi simboli è infarcita la narrazione, dalla ruspa iniziale (chi non ha immediatamente avuto davanti agli occhi l’immagine di Salvini in sella a quella ruspa), alla statua della Madonna con un nastro sulla bocca, una Madonna che si può pregare, che può intercedere per noi ma che non parla mai, non esprime mai una sua opinione. Ci sono i cappucci arancioni degli iniziati, i cartelli portati in corteo dai profughi (“Non rubateci il futuro”, “La libertà non si compra”, “Siamo tutti stranieri nel mondo”, “Sono più forte della paura”, “Siamo in pericolo”, “Anche noi abbiamo una voce”) e la bandiera italiana con tre parole, una per ogni colore: diversità, uguaglianza, unità. Ci sono rappresentanti delle autorità civili e militari, alti prelati e operatori di borsa. C’è persino un Mark Zuckerberg con la classica t-shirt grigia.
Il racconto nel complesso è pieno di gag esilaranti e di personaggi sopra le righe, a partire dall’uccellatore Papageno, un mattacchione amante delle donne che si presenta vestito da pollo, con un bel costume di piume gialle e cresta, una S di Superman sul petto e lo zainetto di consegna espressa sulle spalle (quando si toglie il copricapo ce l’ha davvero la cresta, blu) per pubblicizzare il take away Super-Pollo: per mestiere cerca polli per arrostirli e fornirli alla Regina della Notte e alle sue dame. È con l’arrivo di un’Astrifiammante seducente vestita di lamè, annunciata da lampi e colpi assordanti di tamburo come il suo nome merita, che Tamino e Papageno armati solo di un flauto e di un campanello iniziano il lungo viaggio per liberare Pamina (che Tamino ama già), figlia della Regina, rapita dal Gran Sacerdote Sarastro. Pamina, un’infantile e viziata bambolina vestita di rosa, caduta nelle grinfie del Moro Monostato, capo degli schiavi di Sarastro, ha paura e chiama la mamma. Papageno riesce a liberarla, e parlando parlando, combattuta fra le voci che la esortano a scappare e quelle che le consigliano di non fidarsi (i suoi dubbi incarnati), si arriva al duetto Pamina-Papageno: i cittadini del mondo invadono palco e platea ballando abbracciati come tante coppie di innamorati. La via che dovrà seguire Tamino è costellata di tre semplici parole: costanza, fede, silenzio. Dovrà rispettarle e trovare una vera amicizia, solo così potrà finalmente vedere Pamina, che lo sta a sua volta cercando insieme a Papageno. Quando il Moro fa intervenire i poliziotti in assetto da sommossa, il tintinnio del campanello di Papageno addolcisce gli animi e tutti diventano amici in pace. Alla chiusura del primo atto Tamino e Papageno incappucciati vengono avviati al luogo delle prove e Salvina, ops Pamina, esce in groppa alla ruspa.
Il secondo atto si apre in maniera più tradizionale per il maestro Cohen che arriva sul podio accompagnato dalla mascherina e dall’applauso del pubblico, ma si apre anche con l’insolito invito che Tamino rivolge alla platea di cantare per lui. Il pannello che si srotola sul muro dello Sferisterio a righe gialle e nere è lo specchio del sole e del buio. Come un novello predicatore, Sarastro fa un lungo discorso per ringraziare Iside e Osiride, e qualche volta si inceppa anche. Qualche incertezza, qualche dimenticanza, un po’ di emozione: sono cantanti, pazienza, non sono abituati a parlare sul palco! Il tempio della BCE viene girato e mostra una parata di missili pronti a essere sganciati, Pamina entra nel tempio della Apple ed è a questo punto che Sarastro, con voce stentorea, intima “Ora voi tutti alzatevi!” al pubblico, che si alza (non tutto) e canta (non tutto) i due cori insegnati da Tamino. I cento cittadini, allineati a ridosso del muro, incappucciati come Tamino e Papageno, fanno da corona alla scena. Lo scambio di battute fra i due protagonisti in attesa delle rispettive prove, impauriti ma non privi di sense of humor, strappa qualche risata. Viene ruotato anche il Vaticano da cui fuoriescono le tre Dame vestite da prete, con tailleur giaccca-pantalone nero, collarino e décolleté rosse di vernice.
Sul retro, stagliata su un fondo giallo fosforescente, appare la Madonna incerottata. Mentre Monostato sta per usare violenza a Pamina, e tutt’intorno i cittadini si baciano, si accarezzano, si scambiano effusioni più o meno esplicite, arriva Astrifiammante. La Regina della Notte chiede alla figlia di uccidere Sarastro, e Pamina diventa improvvisamente Astrifiammante, esteriorizza la parte della madre che è dentro di lei, ha il suo stesso vestito, adotta le stesse movenze seduttive. Monostato ha sentito tutto e vuole ricattarla, ma Sarastro lo caccia, la felicità e l’amore vincono sull’inganno. È a questo punto che Papageno incontra, dentro un cassonetto dell’organico, la sua Papagena, sotto le mentite spoglie di una vecchia barbona ubriaca in cerca d’amore. Ci vorrà tutta la sua forza, ma alla fine riuscirà a resistere e la vecchia si rivelerà una Papagena giovane e grintosa fatta a sua immagine e somiglianza, cresta (fucsia) compresa. Durante la prova di Tamino, viene innescato il count-down dei missili. Papageno lo cerca dappertutto, persino fra i musicisti in buca “non abbandonare il tuo piccione viaggiatore” gli grida, infine sale da un’apertura sul pavimento del palco inseguito da una forte fiammata, rischiando di fare la fine del pollo arrosto. Papageno mentre canta si fuma una canna, sempre più allegro, rilassato, e la sua “colomba o canarina” diventa “colomba o cannarina” (con risatine del pubblico e qualche smorfia di disappunto).
Gli eventi si succedono in rapida successione: la disperazione di Pamina che vuole uccidersi ma viene disarmata e portata via in scooter dai tre Geni, l’ingresso degli uomini in tuta gialla e mascherina anti-contagio, i cento cittadini che si sfilano il cappuccio arancione quando finalmente Pamina e Tamino possono parlarsi. Ruota anche il tempio Apple: dietro c’è la vecchia quercia secca dove il padre di Pamina ha intagliato il flauto magico.
I due innamorati vengono issati da due gruppi di cittadini, che prima li mettono a testa in giù e poi li risollevano con indosso un giubbetto di salvataggio. Tutti sono felici, solo il povero Papageno non trova uno straccio di donna, e medita di impiccarsi all’albero. I tre piccoli Geni gli ricordano di suonare il campanello e gli riportano il cassonetto, da cui esce stavolta la giovane pollastra Papagena. Fantasticano di avere tanti Papagenini e tante Papagenine, e non perdono tempo chiudendosi subito in una delle tende canadesi sistemate a bordo palco. All’ingresso di Astrifiammante e delle tre Dame con il Moro, cui la perfida regina ha promessa in sposa la figlia, si fa giorno. Il sole trionfa, la notte sparisce, Tamino e Pamina aprono le porte dei templi, poi insieme li scalano facendoli crollare uno sull’altro con un suggestivo effetto domino. In un abbraccio generale, tutti i duecento protagonisti dello spettacolo schierati sul palco improvvisano un balletto di felicità.
Un cast di cantanti giovani (in ottima forma fisica oltre che vocale), tutti debuttanti a Macerata, tutti debuttanti nel ruolo (tranne il baritono che lo ha già cantato in tedesco), e debuttanti nel ruolo in italiano, che non si risparmiano nella recitazione. Il pubblico ha dimostrato di apprezzarli per il doppio impegno, riservando tanti applausi a fine recita, come pure è stata apprezzata la direzione, non facile, del maestro Daniel Cohen. Su tutti svetta Pamina, il giovane soprano Valentina Mastrangelo, allieva di Mariella Devia, che accanto a un timbro davvero interessante, ha sfoderato una grande naturalezza e sicurezza in ogni passaggio. Bella voce e nessuna incertezza anche per il Tamino del tenore Giovanni Sala autore di una buona prova, come pure bravo e divertente è risultato il baritono Guido Loconsolo, interprete di un perfetto Papageno sbruffone contemporaneo. Completano il cast il basso Antonio di Matteo (Sarastro); il soprano Tetiana Zhuravel, che a parte la celebre aria della Regina della Notte nel secondo atto non ha brillato in maniera particolare; il tenore Manuel Pierattelli (Monostato); il soprano Paola Leoci (Papagena); il basso Marcell Bakonyi (Oratore); Marco Miglietta e Seung Pil Choi (Sacerdote e Armigero). Molto efficaci, incisive e credibili anche le tre Dame, Lucrezia Drei, Eleonora Cilli e Adriana Di Paola, deliziosa la prova dei tre Geni che accompagnano Pamino e Papageno verso il superamento delle prove e la realizzazione dei desideri, i giovani Pueri Cantores Ilenia Silvestrelli, Caterina Piergiacomi ed Emanuele Saltari.
I dialoghi sono di Graham Vick e Stefano Simone Pintor, le scene e i costumi di Stuart Nunn, i movimenti mimici di Ron Howell, le luci di Giuseppe Di Iorio.
Se Vick si cimenta alla regia del Flauto per la quinta volta, dopo averlo messo in scena a Salisburgo, a Mosca e in inglese a Birmingham, dove dirige la Birmingham Opera Company da lui fondata nel 1987, anche per il maestro Cohen, grazie alla riscrittura del libretto e il conseguente adattamento musicale, può considerarsi un debutto, sebbene abbia già diretto l’opera mozartiana innumerevoli volte in Germania e anche in Israele in lingua ebraica. Esame superato per l’Orchestra Regionale delle Marche e per il Coro Lirico Marchigiano “Vincenzo Bellini” rinnovato e rinvigorito sotto la guida del nuovo maestro Martino Faggiani, coadiuvato da Massimo Fiocchi Malaspina.
Barbara Minghetti ha fortemente voluto Graham Vick e non ha perso occasione in questi mesi di sostenere il suo progetto. Per il resto, un insolito (e quasi sospetto) silenzio circondava questo Flauto magico prima dell’inaugurazione. Forse ci si aspettava, o si temeva, che l’opera di apertura avrebbe suscitato aspre polemiche? In ogni caso, ha avuto coraggio la nuova direttrice artistica a presentarsi al pubblico maceratese con questo spettacolo. Poteva partire con maggiore cautela, accattivarsi pubblico e critica con un allestimento più ruffiano. E invece no.
Repliche il 29 luglio, il 4 e il 12 agosto.
Flauto Magico: o lo ami o lo odi (Le video-interviste al pubblico)
Che brutta scenografia. Come distruggere le opere classiche trasformandole in carnevalate moderne. Povero Mozart.
Il fatto che preferite una rappresentazione classica dello spettacolo ci sta. Il fatto che non accettte il concetto che un'opera lirica possa essere rivisitata no; tra l'altro non era un mistero che il libretto fosse stato tradotto/riscritto da Graham Vick, bastava informarsi prima di comprare il biglietto. Personalmente credo che il regista abbia fatto un lavoro enorme, creando una vera e propria opera d'arte invece che semplicemente riproducendola; inoltre sono coraggiosi e da apprezzare i riferimenti a globalizzazione/povertà/crisi migratorie proprio nella nostra città teatro della follia di Traini.
Obrobrioso !!!!...Da alzarsi e andar via ...poco dopo l'inizio !!!!
Se esperimento di coinvolgere il pubblico doveva essere, allora deve aver funzionato. Questa spaccatura fra plaudenti e fischianti è quanto di più attuale si potrebbe rappresentare. Non l'ho visto, ma sembra interessante. In fondo se si vuole stare tranquilli e sentirsi rassicurati da quello che si è sempre visto, non bisognerebbe andare a teatro.
Scusate non mi intendo di opera lirica ma, per qualsiasi manifestazione culturale, come per un film o per una mostra prima di andare mi informo e oggi non mi sembra così difficile, si cerca su internet magari il nome del regista, si cerca di capire che stile di regia ha, se ci sono sue dichiarazioni riguardo all'opera che metterà in scena. Poi si decide se andare oppure no. Criticare dopo mi sembra un po' tempo perso. L'offerta di opere tradizionali con registi tradizionali non manca, si acquistino i biglietti per quelle. L'uso corretto della lingua italiana però è bene utilizzarlo.
Questo tipo di spettacolo non tradizionale richiede una mente aperta. Chi non se la sente può sempre andare a vedersi le regie di Zeffirelli a Verona.
OBBBBROBBBIOSO!!!!...Da alzarsi e andar via ...poco dopo l'inizio !!!! Lo Sferisterio ...lo stanno "scontando"
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Che tristezza e che sterilità creativa. Nessuna intelligente provocazione o “pugno alo stomaco” agli spettatori, ma solo la noia del conformismo pseudo rivoluzionario del progressismo globale politicamente corretto che infila la retorica piagnona sui migranti (illegali)e sul riscatto della donna vittima secolare in ogni dove, senza alcuna giustificazione drammaturgica o coerenza con l’opera rappresentata.
In definitiva una scelta da Saviano “de noantri” che non manifesta alcuna giustificazione artistica (al contrario di altri spettacoli con regia non convenzionali a cui abbiamo assistito con soddisfazione nelle scorse stagioni)e con risvolti politici di parte (la patetica presenza della ruspa ad esempio) che non rispettano i maceratesi e gli ospiti dello Sferisterio, ma degni più di una serata da centro sociale che di un festival della lirica ricco di tradizione e prestigio.
Speriamo nei prossimi titoli della stagione.
Renato Coltorti
Povera Italia.
in Italia l’arte e’ alta…………..qui….meno…
Per fortuna da tempo mi risparmio le pagliacciate (con scenografie, peraltro, misere) dello Sferisterio.
Per quelle c’è sempre il circo.
Sa…anche al circo ci sono artisti che inventano numeri,provano x ore,sudano e dedicano la propria vita a questo tipo di arte e chi fa il pagliaccio li lo fa x lavoro a differenza di tanti fuori.
E se uno si risparmia di vedere,come fa a criticare ciò che non ha visto? Ah…x sentito dire.
Non capisco come fa “chi si risparmia le pagliacciate” a sapere che sono tali se non le vede…..forse solo per sentito dire? Le persone intelligenti guardano,leggono e sperimentano ogni forma d’arte e poi SOLO DOPO ESSERSI FATTA UN’OPINIONE PROPRIA..commentano ,in positivo o negativo.
E anche i pagliacci al circo sono artisti e almeno loro lo fanno per lavoro!!
Mi scusi Signor Valenti se mi intrometto in questo monologo da parte della commentatrice sottostante che ogni tanto ci ripensa e torna sull’argomento. Il suo primo intervento, dovrebbe essere seguente alla visione dello spettacolo che gli dà diritto di esprimersi sull’opera vista. Ma a me non interessa minimamente che cosa ne pensa. Quello che vorrei sottolineare è quel discorsetto sui clown che nel caso specifico sono i soliti cavoli a merenda. Giustamente lei Sig. Valenti, ha già visto rappresentazioni operistiche allo Sferisterio e dopo varie delusioni , infatti le chiama pagliacciate in senso dispregiativo come in genere si usa, non va più all’Arena per evitare ulteriori delusioni. Chi è più libero di lei di decidere questo. Quindi lei non dice che questo Flauto Magico sia una pagliacciata ma si sarà sicuramente informato e avrà preso la decisione per lei più giusta per evitarne una con tutti i crismi per esserlo . In genere quando si fa riferimento ad una pagliacciata non è per offendere i clown che comunque rappresentano spettacoli buffi, atti a far ridere, ma per definire una buffonata in riferimento a qualsiasi cosa che così la si vede. Nel dubbio il Sig. Valenti, grazie anche alle sue pregresse esperienze, bene ha fatto a non andarci e viste tutte le polemiche che ci sono state, credo che il Sig, Valenti non solo avrebbe trovato questa rappresentazione un’autentica buffonata del resto con molti pareri concordi, ma probabilmente se ne sarebbe andato via prima con il pensiero di essere stato preso nuovamente per i fondelli da quella che mi sembra leggendo negli anni la programmazione con i suoi spettacoli innovativi, che lo Sferisterio venga usato come un’officina. Bene, male e chi lo sa prima delle rappresentazioni. Però dopo lo si sa e su questo Flauto Magico che andrà a Valencia e sarà, penso, cantato in spagnolo con cantanti forse spagnoli ma con un po’ di allenamento vanno bene anche quelli di adesso che mi pare che siano stati tutti apprezzati. Anche il direttore e l’orchestra. L’unico ad aver turbato un po’ è stato Vick. Vedremo in futuro se come spesso è successo nella storia dell’opera sono le prime che di solito non vengono recepite in giusta maniera. Anche il Flauto di Mozart alla prima, forse a Praga, non venne bene accolto.
Tanto x chiarire non sono io che ogni tanto ci ripenso….ma i commenti scritti subito a caldo sono stati inseriti solo oggi dopo tanti giorni.
Comunque non pensavo che il sig.Valenti avesse bisogno dell’avvocato difensore.