Correva l’anno 1995. La location si chiamava ancora “Caffè Simoncini” (l’attuale Venanzetti). La sala superiore era gremita di pubblico. Il treno di Loi, invece, portava un ritardo mastodontico. Arrivò davanti al bar con un’ora e mezzo di ritardo. Eppure tutti erano rimasti al loro posto. Tanto che, nonostante l’ora fosse ormai tarda, si oltrepassò senza problemi l’ora di cena e l’incontro finì oltre le ore 22. A porre domande all’amico Franco c’erano: Filippo Davoli, Antonio Santori (scomparso a causa di una malattia fulminante ancora in giovane età, pochi anni fa) e Guido Garufi (capofila, insieme a Remo Pagnanelli, della poesia a Macerata). Qui di seguito il prezioso resoconto di quella serata:
Filippo Davoli – C’è un saggio apparso nella “Nuova Antologia del 1869”, firmato da Gino Capponi, in cui si sostiene che se lo stile è l’uomo, la lingua può dirsi che sia la nazione. Non avverti, oggi, una drammatica scissura tra il poeta e la storia, ma ancora – e di certo più gravemente – tra il dire poetico e l’essere del poeta?
Franco Loi – La questione è così chiara… ad esempio, noi la lingua nazionale non ce l’abbiamo! La stiamo facendo, probabilmente, però finora non c’è stata una lingua nazionale, per cui lo scrivere in italiano significa comunque riferirsi a una situazione regionale o locale. Di qui anche l’importanza politica di un’idea federativa, che non nasce da quell’incolto personaggio che si chiama Bossi, ma che era ed è una vecchia questione italiana, di tutti quegli italiani che sostenevano che bisognava venire incontro alle lingue parlate dagli italiani e con esse arricchire la lingua italiana, dando per scontato che la scelta rimaneva quella della lingua italiana. Questo fatto, pertanto, pone dei problemi grossi: Pascoli, ad esempio… non tutti sanno che Pascoli fu a suo tempo accusato di essere un dialettale… e lui si difende dal linciaggio laddove dice più o meno “ne ho colpa io se quando vado per strada vedo un certo tipo di uccelli e il nome che mi viene spontaneo è quello usato da tutti, dalle mie parti (n.d.r.: Emilia Romagna)? Allora io uso la lingua che ascolto, per le strade, in casa, che è la mia lingua!” Una questione complessa che attraversa un po’ tutta la Letteratura, che va da Verga a Fenoglio e che va ad arricchire la lingua nazionale attraverso la parlata popolare. Voglio dire che il problema c’è: ed è un problema insoluto, tenuto anche conto di un altro aspetto che è importante, ed è che un poeta non è solo un raccoglitore di lingua, non fa vocabolario: è uno che ascolta e, attraverso l’emozione della cosa e della parola, dà corpo a ciò che è idoneo al dire. Quindi, c’è sempre una forte componente di individualità in una scelta poetica; la lingua di Montale è la lingua di un ligure borghese che sente in italiano, ma che orecchia moltissimo anche il genovese. Perfino in certe espressioni c’è l’influsso del dialetto ligure. E nello stesso tempo c’è dentro anche la sua propria passione per quella lingua, la propria personalità, per cui l’uso di una lingua non è mai così pedissequo, così semplicistico. Ogni poeta si può dire che costruisca un suo proprio ideoletto, comunque. Quindi il rapporto sta nella dicotomia tra la lingua parlata, la lingua che noi abbiamo imposta dall’alto dal ‘500 in avanti (l’italiano, lingua costruita, che non è neanche il toscano, non è neanche il fiorentino, che è tutt’altra cosa, tant’è vero che Dante bisogna spiegarlo nelle scuole…, non solo perché è vecchio, ma proprio perché è un’altra lingua…) e nello stesso tempo la personalità dell’autore. Quindi ci sono questioni che non si risolvono facilmente, che si vanno ad aggravare con la poca popolarità della Poesia in Italia. Fenomeno questo che non si è verificato in Russia, dove la lingua è stata imposta dall’alto, però accettata da tutti e poi diffusa tra il popolo; lì, la poesia -come diceva Tonino Guerra- è così importante che quando lui va in Russia, la gente lo tocca per strada e gli dice “poeta! Tu sei poeta italiano!”, la gente comune, perché il poeta per loro è ancora colui che esprime le emozioni, il sentire, i pensieri della gente. Ora, in Italia, fino all’Unità, la Poesia non poteva neanche essere italiana, perchè se tu pensi che fino al 1848 l’uno per mille parlava italiano, e all’Unità erano già il 2,3%, ma comunque solo il 2,3%, questo vuol dire che tutta la più grande poesia è passata sulla testa della gente, senza che la gente ne sospettasse minimamente l’esistenza. E questo è grave per il costume, grave perché la poesia ha anche il compito di portare, appresso alla parola, la coscienza, quello che l’uomo è, tutta la sua parte inconscia, sia nel campo del pensiero, che nel campo delle emozioni. Dunque, la mancata poesia nazionale significa che il popolo italiano ha vissuto le sue vicende senza partecipare a questo processo di elevazione della coscienza. E infatti è da pochissimo tempo che io noto sempre di più che cresce l’interesse per la poesia, l’interesse della gente, dei giovani, dovunque vada, soprattutto quando si saltano tutte le stupidaggini scolastiche, senza le quali il rapporto con la poesia diventa un rapporto diretto, non è più un rapporto mediato attraverso degli strumenti più o meno intellettuali! Tutto ciò vuol dire che in certi momenti, specialmente come quello presente, la gente ha un grande bisogno di capire l’uomo chi è, che ruolo ha nella società, qual è il mistero del proprio essere, del proprio destino, e sente che questa risposta gliela dà la poesia.
Antonio Santori – In una intervista rilasciata a Tracce, hai affermato: “ La cultura, che dovrebbe sorgere da una visione concreta,. reale e creativa del mondo, è servita solo ad alimentare la brama di potere degli uomini. (…) Meglio un popolo ignorante che falsamente acculturato.” Puoi spiegarci meglio il senso di questa accusa pesante?
Franco Loi – Dico questo, ovviamente un po’ provocatoriamente, perché noi crediamo, in generale, che ciò che abbiamo nella testa corrisponde a ciò che siamo e a ciò che ci circonda, comportandoci secondo questi schemi mentali. E invece noi siamo molto di più della maschera che noi adottiamo. Come diceva Freud, “un io è un incidente”. A questo incidente, però, noi diamo per abitudine, per paura, per assiduità, un consenso tale che lo chiamiamo l’ io, convinti che sia il nostro io! E quando siamo insieme a della gente presentiamo un io, quando siamo con l’amico appare un altro tipo di io, poi quando siamo soli dentro al letto, salta fuori un altro io! L’io che ci piace, che piace al nostro desiderio di essere e nello stesso tempo quest’io che presentiamo con tanta vanità agli altri, questo io diventa l’io; ma un io che dimentica, purtroppo tutta la ricchezza, la straordinaria complessità di quello che siamo. E’ lì che si inserisce il potere. Perchè il potere ha bisogno di schemi, qualsiasi potere. E quando gli schemi sono molto rigidi, è facile l’adesione ad una passione, ad un qualcosa come “un drappo che ci viene sventolato davanti, rosso o nero che sia, e a cui corriamo dietro, neanche felici (vedi Dante Alighieri)”, perché non c’è neanche la felicità; ci fosse almeno la felicità, avrebbe ragione l’uomo che si accontenta, aderisce ad uno schema e vive la propria vicenda in modo passivo! Ma purtroppo non è così, non siamo felici; e, nello stesso tempo, diventiamo facilmente preda, una volta che siamo schematici, di forze che ci manovrano. In questo senso dicevo! La lingua, poi… Dobbiamo capire che noi sentiamo, ad esempio attraverso il tatto, senza capire neanche quanta importanza ha questo fatto! Di toccarci! Perché sono energie, sono energie che vivono dentro di noi, che modificano le nostre strutture interiori, però noi non ci facciamo caso… e così quando avviene un’emozione: e le emozioni le ignoriamo dentro di noi, ma in realtà esse lavorano dentro di noi, per cui quello che riusciamo generalmente a fare è avere ogni tanto dei pensieri rispetto alle cose, delle opinioni di solito molto conformiste ed ovvie, e su questo noi costruiamo quello che chiamiamo il nostro pensiero, la nostra scelta, la nostra libertà. Ma quanta parte di noi è ignota a noi? Ed è questa parte ignota che, attraverso la poesia, riesce ad emergere! Il poeta non sa cosa scrive: il poeta scrive in forza di un’emozione, o di uno stimolo qualsiasi, a volte per noia. Quello che spinge a scrivere non è lo scrivere, perché lo scrivere, invece, è un uscire da noi di un’infinità di cose, di pensieri, di emozioni, di sentimenti, e quando il poeta guarda ciò che ha scritto si stupisce, si sorprende, perché scopre quello che lui non sapeva ci fosse! Questo è importante! Questa è l’importanza anche sociale della poesia! Perchè la poesia rivela un mondo! Quando Leopardi parla alla luna in quel modo, scopre un modo di essere dell’uomo rispetto alla natura, e vien fuori da sé quest’immagine così drammatica, così disperata di sé! Vien fuori attraverso il lavoro poetico, attraverso il far emergere da sé quello che lui sente dentro di sé, al di là di quello che sono i suoi concetti, che spesso sono i momenti meno belli di Leopardi, e che fuoriescono dalla sua cultura, dalla sua famiglia, dal suo modo di pensare. E’ invece quel suo essere complessivo che è importante e che ci dà una grande emozione. Nella poesia, infatti, non c’è mai un pensiero, o solo un pensiero, bensì c’è un pensiero col suo corpo! E’ un pensiero che proprio per questo ci dà anche emozione! E’ un pensiero che ci colpisce profondamente perché, oltre ad avere la originalità e l’autenticità del pensiero, ha anche il corpo delle cose. In definitiva, cioè, la poesia, è la rappresentazione della vita. Ri-presenta la vita! Per questo, allora, asserivo che è meglio un popolo ignorante che falsamente acculturato. Quanti professori escono dall’Università e da loro non vien fuori niente, non hanno arricchito la loro persona, non sono in grado di dire qualcosa agli uomini oltre al fatto che hanno preso una laurea o un diploma… Questo semmai produce vanità, insieme alla presunzione di capire, di sapere… Noi, in realtà, come di Dio, non possiamo dire niente della Verità, e non possiamo dire niente della Bellezza… Infatti Kant, quando si è avventurato nella Critica del Giudizio e nella Critica della ragion Pura e della Ragion Pratica, si è dovuto arrendere. ha svolto una grande opera di chiarificazione, per arrivare a dire che non è possibile dare un concetto e un giudizio della Verità e della Bellezza. La Bellezza è la Bellezza: non si può dire niente. Si può parlare in due, in tre, in quanti si vuole, ma ne nascono delle controversie che non sono assolutamente dirimibili, perché tanto ognuno resta del suo parere, riguardo alla Bellezza. Perfino la Bellezza di una donna è opinabile! Ecco, dunque, che la Bellezza, la Verità, sono delle aspirazioni dell’uomo. Noi aspiriamo alla Verità, ma non la possediamo. Per questo dico che c’è una gran presunzione, nell’aria, di avere in pugno la Verità! E bisogna dirlo a tutti, specialmente in momenti come questo, perchè in questo momento tutti credono di avere la Verità in tasca con facilità, e tutti sbandierano delle verità che non sono affatto tali. Come diceva Socrate, la Verità scantona rispetto alla mia affermazione, ossia non riusciamo assolutamente a darle una definizione. E’ come l’infinito: l’infinito di fronte a cui faremmo bene a porci, sempre, proprio in quanto finiti, per confrontarci, perché il rapporto con l’infinito ci arricchisce, ci rende pieni di speranza, ci porta avanti, invece il rapporto col finito ci delude, il più delle volte ci spinge alla disperazione. E’ pertanto un bene avere l’aspirazione alla Verità! Dunque, se la Verità esce dalla bocca di Dio, e se io dentro ho questa infinita possibilità, allora devo stare molto attento a me stesso, devo essere in ascolto. E la poesia è questo che sento: non è un’altra cosa. Io non mi metto a scrivere dei capelli bianchi della regina o della bellezza del mondo. io mi metto a scrivere ascoltando. Ascolto me stesso, ascolto gli uomini, ascolto la Natura. Ascolto l’aria che mi è attorno. Mi metto in posizione di ascolto. E operando in questo, raggiungo l’infinito che è dentro di me. E l’infinito è molto più di quello che io penso del mio io, perché il mio io è poca cosa rispetto al mio essere! Ecco che allora la Verità io la cerco, la perseguo, anche se non la raggiungo. Però sono in contatto con lei, per quel che mi riguarda. E’ questo che l’uomo deve abituarsi a fare.
Antonio Santori – In questo caso, la poesia si contrappone al potere quando il potere annulla…
Franco Loi – Certamente. Ognuno si sceglie una sua posizione, poi su questa si innestano altre cose: per esempio, Berlusconi è ricco e quindi invidia generale verso i ricchi, per cui tagliamo la testa del ricco. Gli altri sono ricchi allo stesso modo, ma non è stato detto con altrettanta propaganda, altrettanto baccano, così la gente non lo sa e sta ad ascoltare. Tutto questo, però, a me che non piace nemmeno Berlusconi, è possibile finché l’uomo non comincia a pensare a sé. Il Governo è qualcosa che amministra gli interessi e le passioni degli uomini. Se io cambio, qui a Macerata, il Governo deve tenerne conto. Questo è importante, questo bisogna far capire a tutti. non è dal Governo che viene la nostra vita, la nostra salvezza; è da noi che vengono la vita e la salvezza. Ogni governo deve tenere conto di quel che accade nel Paese. Se io modifico me stesso, e modifico le situazioni locali, il mondo intorno a me, io modifico la realtà del Paese. Questo è il teorema del rovesciamento, perché il potere vuole che tu non ti muova, che tu non faccia niente, che tu aspetti da lui che lui faccia. Loro, però, fanno i loro interessi: quando vedono che il Paese è fermo, che nessuno si muove, che niente cambia, amministrano quello che c’è. E quindi conservazione, reazione. Il grande Richelieu aveva detto: “Il genio è dannoso allo Stato”. Aveva perfettamente ragione: certo, che è dannoso allo Stato! Perché il genio non sta al gioco, mentre invece quasi tutti noi stiamo ai giochi. ma il genio non ci sta al gioco. E’ allora che è dannoso, perchè il gioco è quello di uno schema entro cui gli uomini schematici vengono amministrati, corrono dietro a bandiere, eccetera eccetera. La Poesia è di per sé fuori , tant’è vero che Stalin , su settanta milioni di russi ammazzati (secondo i rapporti di Gorbaciov), sembra abbia fatto fuori circa duecentomila tra poeti e musicisti, magari facendoli scomparire o deportandoli in Siberia. Un’intera generazione di intellettuali: perché? Non potevano nemmeno parlare di un fiore… Anche lì: non c’è la poesia di contenuti o la poesia estetizzane. Se è poesia è poesia! La poesia dà fastidio in quanto poesia! In quanto cambia, modifica le situazioni. In Russia, se parlavi degli operai, delle fabbriche, andava benissimo, ma se parlavi di un fiore o della grazia di una donna, tutto questo era pericolosissimo. Tanto pericoloso che la Achmatova l’ha chiamata la civiltà del portacenere, perché lei scriveva su un pezzo di carta una poesia, una sua amica, guardandola la mandava a mente, e poi bruciava il pezzo di carta. Se una civiltà arriva a questo punto, è terribile! Però questo dimostra anche quanto la poesia sia pericolosa, quanto abbia valore: è solo qui che la poesia non ha popolarità! tutti se ne fregano della poesia, perché sennò vedresti che il potere interviene subito! L’ha sempre fatto…
Guido Garufi – Mi volevo riallacciare a quanto hai detto. La poesia, cioè, è un cammino a cui il soggetto che fa scrittura poetica, che usa la lingua della poesia, tende. Che cioè va verso la verità, nel senso poi che è una sorta di soggetto telepatico o magnetico. E in cui questo magnetismo altro non è se non il desiderio di tradurre in lingua il desiderio che sta dentro e quindi di scriverlo. Io ti voglio chiedere quanto segue: qualche mese fa, è apparsa in tutti i giornali una notizia interessante, curiosa, che però in parte riprendeva quello che dicevi tu adesso. Alcuni poeti avevano aderito ad una sorta di utopica associazione per fare un partito, che potrebbe essere anche pericoloso, se la lingua della poesia marcia verso quella verità che è opposta a quella del potere…
Franco Loi – Io sono contro tutte le associazioni dei poeti. Quando a suo tempo Raboni -era ancora vivo Sereni- mi chiese se volevo entrare nella sua Società dei poeti, io gli dissi di no, per principio, perchè un poeta non è un politico. Faccia il poeta. Semmai faccia qualcos’altro: può darsi che faccia delle cose molto buone se si mette a fare il falegname oppure va ad aiutare la gente (c’è tanta gente che ha bisogno…). Perché deve pensare di organizzare la poesia? A questo sono contro. A Raboni dissi di no. Sereni pure mi chiese di entrare, perché lui aveva accettato, ma quando gli ho spiegato i miei motivi, mi disse: “Che stupido sono stato! Non ci avevo pensato!” ma purtroppo aveva già dato l’adesione per simpatia, perchè io conoscevo bene Sereni, sapevo com’era fatto… Aveva aderito per un atto di simpatia. Talaltro costava duecentomilalire, l’adesione… La Spaziani, a Roma, ha messo su un’altra Società dei poeti. Adesso salta fuori questo qui con un’altra Società di poesia: beh, e a me viene un dubbio… che queste Società di Poesia servano come in politica i comitati elettorali.. tu così prepari il terreno a qualcosa o a qualcuno… Infatti, a mio parere qualcuno come la Spaziani ha fatto proprio carriera poetica attraverso queste cose: prima perchè era la donna di Montale, e poi per questo tipo di attività. Ma io credo che il fatto che voi non riceviate soldi dipenda dal fatto che non si influisce a sufficienza sull’elettorato!… Nel momento in cui avvicinate la gente e gli fate capire cos’è la Poesia (gente che lavora, che non è qui stasera e che magari non viene qui mai), l’avvicinate e gli parlate di Poesia, si modifica la situazione e allora forse qualche soldo vi arriva, perchè il politico è sempre attento all’elettorato, non è mica attento alla Poesia!
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