Marco Di Pasquale
di Fabrizio Cortella
Marco Di Pasquale è un poeta con già una solida esperienza creativa alle spalle ma, a vederlo, sembra ancora quel ragazzo entusiasta che arrivò in città dalla natia Ripatransone, sul finire degli anni Novanta, per frequentare la facoltà di Lettere: espressione solare, sorriso aperto e sguardo curioso dietro un paio di occhiali che gli danno l’aria più dello studente universitario che dell’intellettuale.
Perché proprio la poesia?
«Perché la poesia è l’indagine profonda ed olistica per eccellenza: sa vedere “attraverso” e riesce a cogliere la complessità. E ci nutre di quella linfa che dà sapore e senso alla straordinaria avventura umana».
Ma poeta si nasce o si diventa?
«Da che mi ricordi, ho sempre messo per iscritto ciò che vedevo accadere intorno e dentro di me. Ma è stato soprattutto con la prima adolescenza che l’urgenza è aumentata finché, a Macerata, ho incontrato “La tribù delle pupille ardenti”, la bottega di scrittura creativa fondata da Alessandro Seri: da lì ho preso la rincorsa e mi sono lanciato».
Tuttavia, non mi ha risposto…
«Credo che la giusta risposta sia un mix di entrambe le cose: è innegabile che ci debba essere quella spinta interiore, a cui accennavo prima, senza cui non ci si pone interrogativi sull’esistente né si tenta di risolverli, ma è altrettanto vero che la “fatica della parola” è un esercizio continuo e costante, l’inevitabile riflesso speculare del condurre l’esistenza di ogni giorno. E, come ogni allenamento che si rispetti, si nutre anche della relazione con l’altro, dello scambio proficuo con l’ambiente che ci avvolge».
Mistero Aperto a Montecosaro
Concetti ben lontani dal poeta inteso come una monade pervasa dal furore artistico.
«Ha centrato il punto. Non mi appartiene l’idea del poeta ispirato da forze superiori, totalmente autoreferenziale e che vive solo in funzione della propria arte. Al contrario, per me la poesia è un fatto “sociale”, è il mezzo per incontrare altre anime ed interagire con esse: scrivo per motivazione e non per ispirazione».
Più che essere un poeta, possiamo quindi concludere che “fa” il poeta?
«Certo. È l’azione concreta che mi guida nel mio poetare: come scrissero nella prefazione di una mia silloge, si vede che provengo dalla Marca “sporca” perché, nei miei versi, amo affondare le mani nella vita, riempiendole di palpitante energia e senza tema di sporcarle, per indagare l’esistente in profondità».
Come funziona il suo processo creativo?
«Pesco le idee ovunque intorno a me. Ma, poi, raccontare in versi esige una disciplina ferrea delle parole perché ognuna di esse racchiude una potenza tale che va centellinata con precisione chirurgica. Le giro e le rigiro nella mia testa, soprattutto di notte, levigando ogni singolo verso finché non ha raggiunto la forma che desidero… un po’ come fanno le onde del mare sulla battigia quando trasformano detriti informi in finissima rena».
Catartica
Dopo numerose esperienze, tra cui “Macerata ospitale”, ha dato vita a “Umanieventi”: di che si tratta e perché è scritto tutto attaccato?
«È un progetto nato nel 2011, insieme ad un gruppo di amici, tutti amanti di quella marginale e splendida forma letteraria che è la poesia. Il nome nasce dalla convinzione che la creatività degli esseri umani, strettamente legati dalla “social catena” di leopardiana memoria, non può essere disgiunta dall’organizzazione di incontri e di occasioni di scambio culturale. L’obiettivo è, quindi, gettare un ponte per fare dialogare le persone, stringendo un legame innanzitutto con i meravigliosi piccoli borghi del nostro territorio, visto che Umanieventi opera in numerosi contesti tra le province di Ascoli, Fermo e Macerata».
Come si trasforma tutto ciò in azioni concrete?
«Dando alla collettività spazi e modalità di fruizione culturale, spesso inediti e virtuali come durante la pandemia: in questi dodici anni, abbiamo allestito letture, mostre, concerti, incontri di condivisione di idee e di gusti letterari, sempre all’insegna dell’apertura alle culture di ogni latitudine, della critica costruttiva e collaborativa, della crescita nel rispetto e nell’inclusione».
Che cosa bolle in pentola al momento?
«A Macerata stiamo partecipando a “Catartica – il potere liberatorio della poesia”, un progetto ideato da Elisa Des Dorides, poetessa dallo sguardo aperto e curioso. Si tratta di un laboratorio di poesia d’impegno civile imperniato sui concetti di “cura” e di “responsabilità”; di messa a disposizione dell’arte verbale a fini di critica del reale e dello scoperchiamento dei luoghi comuni. A Montecosaro, dove abbiamo trovato un vivo interesse ed una totale disponibilità, da quasi cinque anni organizziamo momenti di fertile interazione con poeti, narratori, musicisti e artisti visivi quali, ad esempio, l’attuale rassegna “Mistero Aperto”. Gli ultimi appuntamenti mensili, fino a maggio, porteranno suggestioni davvero particolari: video-poesia, messa in scena teatrale e il fecondo connubio tra la musica ed il verso».
Chiudiamo con un richiamo all’attualità: ha ancora senso cantare l’umanità con la poesia quando appena fuori dalla nostra porta rimbomba il cannone?
«Proprio ora la poesia assume il suo ruolo più autentico: la costruzione di una pace durevole può avvenire soltanto attraverso la lettura dei dettagli e la comprensione delle emozioni. Intento che la poesia persegue da sempre poiché essa è la parola che non ti aspetti e l’accento che desideravi sentire, ma non riuscivi a trovare da solo. I poeti ucraini, ad esempio, tengono reading sotto le bombe: perché? Perché è l’altro paradigma, quello della bellezza che unisce, l’unica salvezza che ci resta».
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