di Giancarlo Liuti
Forse non c’è mai stato un momento come l’attuale di così scarsi consensi per la politica, una parola, questa, che deriva dal greco “polis” e dovrebbe significare la scienza e l’arte del governare per il bene della città, della nazione, del mondo. Eppure non si fa altro che parlare di politica, nelle risse fra i partiti, in quelle all’interno dei partiti, nei giornali, nelle televisioni, nei bar, in strada. Tutto è dunque politica, ma per dirne male. Pure in occasione della morte di Dario Fo, un gigante dell’andare controcorrente e non solo a teatro ma nella vita, i fabbricanti di opinioni l’hanno buttata in politica, ponendo in evidenza da sinistra la sua gioventù parafascista e da destra il suo schierarsi dalla parte dei comunisti. Di una cosa, purtroppo, si sono dimenticati: la dissacrante e straordinaria bellezza dei suoi spettacoli e la sua altrettanto dissacrante e straordinaria coerenza nel vivere quotidiano. Di lui ci mancherà la generosa e combattiva ingenuità di offrirsi agli altri, specie ai diseredati, e di renderli, per un paio d’ore, felici.
Non amo mettermi in mostra ma stavolta mi contraddico e racconto che molti anni fa andai a trovarlo nella sua casa di Milano per un’intervista sui sette peccati capitali. Ci demmo subito del tu e prima di cominciare mi chiese se mi piaceva – toh! – il fegato alla veneziana. Dissi di sì e lui andò a comprare un paio d’etti di fegato e lo cucinò. Poi, fra un boccone e l’altro, parlammo dei sette peccati della tradizione cristiana: avarizia, accidia, gola, invidia, ira, lussuria, superbia. E Fo mi disse quali condannava di più: l’accidia, per esempio, ossia la pigrizia dell’animo, e l’invidia, l’immedesimarsi con l’invidiato, sognare di essere come lui (“I poveri si procurano Chanel, se ne mettono addosso due gocce e s’illudono di comportarsi da ricchi”). Ma soprattutto disprezzava l’avarizia, quella di chi detiene il potere e si chiude in se stesso, fregandosene delle disuguaglianze sociali e mostrando un’imperdonabile “stitichezza” morale e politica. Oltretutto superbi, costoro, convinti di stare nel giusto. Non disprezzava invece la gola e la lussuria, ritenendole espressioni magari esagerate ma naturali di come siamo fatti nel corpo e nello spirito.
Veniamo a Macerata. Nel 1991 Dario Fo interpretò il suo “Mistero Buffo” al Lauro Rossi – oggi ci sono altri misteri, purtroppo meno buffi – e il teatro era talmente gremito che lui fece salire una parte del pubblico sul palcoscenico. Un trionfo, con applausi anche per certi sarcasmi sul clericalismo. Alla fine l’allora sindaco, il democristiano Carlo Ballesi, si congratulò vivamente con lui, la qual cosa non fu molto apprezzata dal vescovo Tarcisio Carboni che garbatamente lo ammonì a comportarsi da sindaco della “Civitas Mariae”. Quelli erano i tempi.
Proprio in questi giorni su Cm sono rimbalzati un paio di curiosi e divertenti episodi. Il primo citato dalla docente e giornalista Donatella Donati che si trovò vicino a Fo nella carrozza ristorante di un treno e quando giunse il caffè lui se la prese col cameriere: “Ancora non vi hanno insegnato come si fa un caffè?” E lei: “A me sembra buono”. E lui: “Si possono avere gusti da degenerati”. E lei: “Se degenerati significa non essere brontoloni come lei, allora io lo sono”. Anni dopo Fo venne a Macerata, incontrò la Donati e ricordando, pensate, quel dissidio sul caffè l‘abbracciò e le disse: “Ancora offesa?” E Donatella ricambiò l’abbraccio.
Il secondo episodio accadde in un ospedale dove Dario Fo e l’ex sindaco di Camerino Dario Conti erano ricoverati per accertamenti nel reparto di urologia. Si conobbero, divennero amici, Fo lo rese allegro con le sue trovate e alla fine gli donò un bozzetto raffigurante un giullare che Conti conserva come un cimelio.
Concludo riflettendo sulla bellezza – sì, proprio la bellezza – degli spettacoli di Fo, la cui voce, cui linguaggio e le cui giravolte furono il “vangelo” del suo radicale anticonformismo. Anche in fatto di estetica i moralisti fanatici continuano a distinguere fra il “bene” e il “male”, ignorando che il supposto bene può essere brutto, come nella retorica delle prediche imparate a memoria e ripetute senza un’autentica partecipazione umana, mentre il supposto male, quello che secondo loro si annidava nelle dissacrazioni di Fo, può essere bello. Bellezza, ripeto. Essa implica un’idea di perfezione e suscita sentimenti di gioia anche morale.
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La bellezza non è il destino dell’arte. L’arte è perdita non guadagno.
Ma che aspettate a batterci le mani?
Se la convinzione del vivere, anziché dell’esistere, prevale nella cultura di un individuo, la sua fortuna è anche quella di potersi avvalere della raffinata ironia ed acuto sarcasmo di un Uomo di straordinaria vitalità come Dario Fo. L’ho incontrato almeno tre volte; alla Palazzina ‘Liberty’ a Milano, ad una ‘marcia della Pace’ Perugia Assisi e qualche anno fa, dopo la perdita dell’adorata moglie Franca Rame, al teatro “L’Aquila” di Fermo (ci siamo persino immortalati in una foto stupenda, ora molto significativa). Grazie Dario per quanto mi hai dato!
Liuti, considerando l’apertura dell’articolo sul significato della parola Polis,siamo sicuro che i nostri politici quando parlano si riferiscono alla politica. Sentendoli parlare io non li sento andare più in la dei soliti squallidi individualismi partitici o personali. Per sentire qualcosa di più edificante, capita che chi sta all’opposizione, criticando l’avversario dica qualcosa di politico come l’intende ” la polis “, ma poi a parti invertite spesso ci troviamo da capo. Prendiamo ad esempio l’articolo su Bottiglieri e la vendita di Gas Marche a Civitanova. E’ un discorso politico,infatti fa notare quale sarebbe stato un buon modo di governare la città. E nel contemplo fa nascere i soliti dubbi che quasi sempre diventano certezze sulle finalità effettive di certe operazioni che vanno in porto e che non sembrano fare gli interessi dei cittadini ma di coloro che decidono comunque di portare avanti operazioni che farebbero alzare le orecchie anche ad un Cocker. Come possiamo parlare di ” polis ” quando leggiamo le avventure dei nostri amministratori, con in primis i sindaci, in secondis sempre loro perché gli altri non contano niente e se vogliono approfittare del loro momento, zitti e cuccia che poi ti frego io o lo facciamo assieme.