[L’intervista al presidente della Fondazione Carima è stata raccolta appena prima l’emergere dei durissimi contenuti dei verbali di Banca d’Italia nei confronti di chi rivestì ruoli di amministrazione, direzione e controllo nell’istituto. Nonché prima delle notizie di nove iscrizioni nel registro degli indagati da parte della Procura di Ancona per plurimi reati societari e contro il patrimonio. Le domande e le risposte, ovviamente, sono antecedenti a questi fatti.]
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di Marco Ricci
Presidente Gazzani, prima di ripercorre le ultime vicende di Banca Marche partiamo dal 2007. Se le Fondazioni in quel momento avessero venduto non solo sarebbero ricchissime. Ma forse con una governance diversa l’istituto di credito non si troverebbe in questa situazione. Lei fu uno di quelli che si opposero alla vendita. Forse è inutile anche che le chieda se si è pentito.
La verità è che non è mai stato fatto un prezzo per Banca Marche. Né da Intesa, né da Credite Agricole, né dalla Banca Popolare dell’Emilia Romagna. Dunque qualsiasi ipotetico valore attribuito in quel momento alle azioni non esiste e non è mai esistito. Ma a parte questo fu fatta una scelta, voluta da tutte le associazioni di categoria della provincia di Macerata, dalle organizzazioni sindacali, dalla politica e dai rappresentanti delle istituzioni. E io che ero sulla loro stessa lunghezza d’onda mi sono battuto per non vendere. Perché la banca era un bene prezioso che veniva utilizzato dal territorio. E in me pesava un’altra esperienza vissuta come presidente di Confindustria. La fortissima crisi economica dopo il 2001. E gli imprenditori, in quel momento difficile, potevano rivolgersi quasi esclusivamente a Banca Marche perché nelle altre banche i rubinetti erano chiusi. Così la Fondazione portò avanti la battaglia per non cedere l’istituto. Poi se mi chiede se sia pentito o meno, le posso rispondere che le cose vanno contestualizzate. In quel momento pensavamo fosse la cosa giusta.
Le altre fondazioni però non la pensavano così.
Solo la fondazione Cassa di Risparmio di Jesi era propensa alla vendita. Quella di Pesaro all’inizio era invece incerta. Poi, come Fondazione di Macerata, fummo convincenti verso Pesaro. E di questo va dato merito al presidente pesarese Sabbatini. Così emettemmo congiuntamente un comunicato dichiarando di non essere disposti a vendere Banca Marche. Per i motivi che le dicevo prima. Avere una banca vicina alle famiglie, alle istituzioni e alle imprese.
Ripercorriamo adesso gli ultimi anni. Partendo dal 2004, con l’arrivo del direttore generale Massimo Bianconi. Come venne individuato? Fu una scelta autonoma delle fondazioni o un nome in qualche modo suggerito dal sistema bancario e finanziario nazionale?
La scelta di Bianconi fu fatta da quelli che allora avevano responsabilità. Io ero da poco presidente della Fondazione e fui un attore marginale anche se ovviamente venni consultato. Ma, ad onor del vero, su questo bisogna essere sinceri, nel 2004 pensavamo che Massimo Bianconi fosse il direttore ideale per rilanciare Banca delle Marche. Questa è la verità. Bisogna essere onesti quando si parla di questa vicenda. In quel momento eravamo tutti convinti che fosse la scelta migliore perché Banca Marche uscisse da un ambito ristretto e si trasformasse in una banca interregionale.
Già nel 2006 però Massimo Bianconi venne condannato in primo grado dal tribunale di Brescia. Assolto definitivamente tre anni dopo, Banca Marche lo sospese per un periodo brevissimo. E sempre nel 2006 uscirono altre notizie su compravendite immobiliari finché nel 2011 l’Espresso non definirà Banca Marche lo “scrigno della cricca”.
Mi permetta una premessa che vale per tutto il nostro colloquio. Il presidente di Fondazione Carima non si è mai occupato direttamente delle dinamiche gestionali di Banca Marche. Perché in me è sempre stata chiara la distinzione tra socio e amministratore. Su Bianconi e sulla gestione della banca, richiedevamo informazioni e facevamo delle osservazioni, come può succedere. E venivamo sempre tranquillizzati dai nostri rappresentanti negli organi dell’istituto. Ma debbo dirle un’altra cosa, sempre per chiarezza. Che in quel momento le cose stavano andando bene o almeno così sembrava. E questi fatti da lei citati del 2006 venivano visti come comportamenti del passato a cui davano scarsa importanza. Va anche detto, come ha ricordato lei, che per quella vicenda il direttore generale venne alla fine assolto.
Lei quando cominciò ad avere perplessità, se mai ne ha avute, sull’ex-direttore generale?
Io ho mutato atteggiamento nei confronti di Massimo Bianconi nel 2007. Quando nelle vicende riguardanti la possibile vendita della banca, secondo me, il direttore generale fu di parte. Cioè mi convinsi che stava invadendo un campo che non era della direzione ma degli azionisti. Da quel momento in poi cambiai atteggiamento.
Da quanto riporta in una comunicazione lo stesso ex presidente di Bdm Michele Ambrosini, nel 2009 lei gli inviò una lettera in cui scrisse di non aver gradito il rinnovo del contratto a Bianconi. Perché la scrisse?
Il 2009 è stato un momento determinante. Quando Michele Ambrosini (espressione della Fondazione di Pesaro, ndr) divenne presidente di Banca Marche al primo Cda confermò Massimo Bianconi senza che ne fossi informato. Ero all’oscuro di tutto quello che stava accadendo. Tanto che quando Bianconi mi chiamò per ringraziarmi della sua conferma io dovetti arrampicarmi sugli specchi perché non sapevo nulla. E allora, come presidente di Fondazione Carima, scrissi una lunga lettera al presidente Ambrosini. Dicendo per prima cosa che la decisione di rinnovare il contratto a Bianconi alla prima seduta del Consiglio non mi piaceva e che in ogni caso, come presidente di una delle tre Fondazioni azioniste, doveva informarmi almeno con una telefonata. Aggiunsi che non volevo né potevo interferire con scelte che non mi competevano. Ma rivendicavo che sulla strategia della banca il presidente Ambrosini non poteva non ascoltare il presidente della Fondazione Carima. E aggiunsi che né lui, né gli altri presidenti di Banca Marche avevano mai subito pressioni da me per promuovere questo o quello in base all’appartenenza territoriale, aggiungendo di non essere così ingenuo da non immaginare che le altre Fondazioni intervenissero sulla gestione della banca. Ma che questo io non lo approvavo. E aggiunsi queste parole anche perché nel Cda della banca del 15 luglio del 2009 venne portato il nuovo organigramma. Dissi inoltre che ormai tutti sapevano che c’erano state mosse e contromosse. Scrissi che non sapevo se vi fossero state pressioni da parte dei presidenti delle altre Fondazioni ma sapevo che da me non erano mai venute. Un’ultima questione in merito a quella lettera: sottolineai al presidente Ambrosini di non aver dato informazioni neppure ai nostri consiglieri in Banca Marche. Perché pensavo davvero che fosse così. Poi i fatti hanno dimostrato il contrario. Alcuni dei nostri sapevano ma non mi avevano informato. Ma di questo, se vorrà, ne parleremo dopo.
Nel 2011 Bianconi vi chiede un altro aumento di capitale.
Quasi mensilmente venivamo chiamati, come presidenti delle fondazione socie, a Jesi da Bianconi alla presenza del presidente e del vice presidente della banca, per riunioni in cui ci veniva illustrato lo stato della banca attraverso report e tabelle. E sulla base di questi report si ragionava. In un analogo incontro di inizio 2011 Bianconi ci fece presente che l’istituto andava bene ma che, in base ai parametri di Basilea 3, ci sarebbero potuti essere problemi di liquidità. A quel punto mi sono battuto per un aumento di capitale basato su quei dati che mi erano stati mostrati. E dico di più, per onestà intellettuale. Io sono stati tra quelli che più di altri si sono battuti per fare un aumento il più corposo possibile. La mia determinazione nasceva dal volere che la banca potesse lavorare bene, operare e garantire l’accesso al credito. Per trovarsi un domani più forte e più patrimonializzata. Non solo, andai con gli altri presidenti al Ministero del Tesoro a sostenere l’importanza di quell’aumento. E il Ministero ci autorizzò a sottoscrivere l’aumento e a intervenire sull’inoptato. E così la Fondazione Carima, nell’ottobre del 2011, deliberò l’aumento. Ma tra la nostra deliberazione e l’aumento vero e proprio accadde qualcosa di importante e inatteso.
Cioè cosa?
Ci arrivarono voci dall’interno della banca che ci dicevano che i conti non stavano proprio così. “Guardate che sono diversi.” Anche da ambienti finanziari venimmo a sapere che qualcosa potesse non andare in Banca Marche. Così in agosto incontrai Giuseppe Grassano (ex dg della Banca Popolare di Milano, ndr) che mi confermò le voci piuttosto negative che giravano in quegli ambienti su Banca Marche. Ne parlai subito con un nostro importante rappresentante nell’istituto, che mi rassicurò dicendomi che le cose non stavano così. Io decisi comunque di prendere Grassano come consulente della Fondazione, informando il vice presidente della banca il quale, poco tempo dopo, assieme a Bianconi incontrò Grassano a Macerata. Intanto, sulla scia di queste prime notizie, l’immediata decisione che prendemmo come Fondazione fu quella di non acquistare l’inoptato.
Cosa diceva la consulenza di Grassano?
Con i pochi dati a disposizione, cioè il bilancio 2010, il piano industriale e poco di più, Grassano cominciò a farci dei report. Siamo più o meno nell’autunno 2011. E subito ci comunicò che l’aumento già deciso non sarebbe bastato. E fece una previsione preoccupante. Che potesse essere necessario un altro aumento di capitale, di un importo simile all’aumento che si era concluso. Invitammo allora in Fondazione i nostri rappresentanti in Banca Marche. Ovviamente avevamo chiamato Grassano per relazionare. Il quale davanti anche a tutto il Cda della Fondazione illustrò i suoi dati. Sa cosa gli fu risposto dagli amministratori in Banca Marche? Che non erano attendibili e qualcuno addirittura si risentì smentendo i dati. Ricordo inoltre che in quell’occasione Roberto Massi (vicepresidente di Fondazione Carima, ndr) fece tra l’altro una domanda al vice presidente dell’istituto. “Ma come va questa banca? Io sento delle voci preoccupate dall’interno…” La risposta, data davanti a tutti i consiglieri della Fondazione, fu quella di non preoccuparsi. Perché la banca al contrario stava andando bene. Poi l’8 gennaio 2012 arrivò una comunicazione fortemente preoccupante di Banca d’Italia (lettera in cui vengono rilevate severe criticità organizzative in Bdm, ndr).
E voi cosa avete fatto a quel punto?
Innanzitutto ci tengo a dire una cosa. Io qui mi esprimo a titolo personale, come Presidente della Fondazione. Ma quello che è stato fatto dal 2011 in poi, il tentativo di avere chiarezza e pretendere pulizia, è stato portato avanti con grande trasparenza e sopratutto unanimità da parte di tutti gli organi di Fondazione Carima. Tornando a quel momento, considerato che ad aprile 2012 si rinnovano gli organi di Banca Marche, noi cambiammo due dei nostri quattro rappresentanti, anche in ossequio ad un’ulteriore comunicazione di Banca d’Italia, rivolta a tutte le banche, in cui si chiedeva di porre nei Cda persone con particolari requisiti. Così lasciammo le persone più rappresentative e inserimmo Cesarini (già Presidente di Unicredit e Bpo, ndr) e Grassano. E così, al primo o secondo consiglio di Banca Marche, Grassano e Cesarini cominciarono a far emergere le anomalie che c’erano nella banca. Cercando di operare, a mio parere, in maniera propositiva per affrontare le criticità che stavano venendo alla luce.
Le altre fondazioni come si comportarono davanti a queste comunicazioni di Banca d’Italia.
Le faccio capire solo da un esempio, io a gennaio 2012, sollevai subito la questione Bianconi. Volevo almeno, così come suggerito da Banca d’Italia, un condirettore che potesse affiancare e poi prendere celermente il posto del dg. Perché avevo la sensazione che fosse necessario accelerare il ricambio. Nonostante le mie sollecitazioni, in una riunione nel mese di giugno, il presidente della Fondazione di Pesaro fece una dichiarazione per me sorprendente. Che per lui Massimo Bianconi poteva rimanere fino al 2014. E anche oltre. Poi, pochissimi giorni dopo questa riunione, il 12 giugno, ecco una seconda micidiale lettera di Banca d’Italia (comunicazione in cui Via Nazionale rileva in alcuni cambi di assegni effettuati alla Tercas e versati poi sui conti di Bianconi “profili di opacità che non appaiono coerenti con la deontologia professionale che deve connotare l’alta dirigenza di una banca”, ndr).
Perché anche Fondazione Carima ha dovuto aspettare così tanto per inserire provati banchieri nel cda di Banca Marche?
In parte perché Banca d’Italia non aveva dato fino a gennaio 2012 alcuna indicazione particolare. Ma oltre a questo, se ripenso al consiglio 2009-2012, c’erano le persone migliori e più rappresentative della nostra provincia. Lauro Costa, presidente dell’unione agricoltori e già ex-presidente di Banca Marche. Giuliano Bianchi, direttore dell’associazione degli artigiani e presidente della Camera di Commercio, Mario Volpini, presidente della Cassa di Risparmio di Loreto e di Confcommercio, Germano Ercoli, presidente di Confindustria Macerata e Piero Valentini notissimo commercialista.
(1/continua)
– LA SECONDA PARTE (LEGGI L’ARTICOLO)
– LA TERZA PARTE (LEGGI L’ARTICOLO)
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Ci dicevano che tutto andava bene…ma chi e’ che lo diceva?Le persone nominate,sostenute,protette da loro.Che esperienze avevano per tranquillizzare Gazzani?Sapevano,scimmiottando Grillo su Mussari(mps) che cosa e’ non un affidamento,ma un bonifico?Continuo a darmi i pizzicotti,mi chiedo se tutto quello che leggo e’ vero,e purtroppo devo rispondermi tragicamente di si.Una ultima considerazione: ma l’intervista a Gazzani e’ una autodenuncia,un tentativo di autodifesa,o che,sinceramente mi sembra un tremendo autogol,ma e’ solo il mio punto di vista
Pensare che già dal prospetto dell’ultimo aumento di capitale si capiva cosa stava avvenendo. Solo le Fondazioni non se ne accorsero, questo non giova ne alla loro reputazione ne al loro capitale.