di Marco Ricci
Durante il ponte del 2 di Novembre, a un rappresentante sindacale arriva una telefonata.
E’ la stessa telefonata che la Best sta facendo a tutti gli altri rappresentanti sindacali, alle istituzioni, alle forze dell’ordine.
– Volevo comunicarle che l’azienda ha deciso di chiudere lo stabilimento di Montefano da lunedì. Abbiamo già spedito a tutti dipendenti le lettere di mobilità.
– Ma… Ma cosa vuol dire? Vuol dire che lunedì non dobbiamo andare a lavorare?
– No, lo stabilimento è chiuso.
– Ma abbiamo l’incontro la settimana prossima… Quello in Regione… Ci stavamo accordando… Che significa?
– Significa che la trattativa è interrotta. La proprietà ha deciso di chiudere lo stabilimento. Da Lunedì.
– E chi andrà in fabbrica? Non potrà più lavorare lunedì? Non potrà entrare?
– Beh, questo non so…
No, chi quel lunedì si è recato ai cancelli della Best non ha potuto lavorare.
Perché la loro fabbrica, quella in cui qualcuno dei centoventicinque dipendenti lavorava anche da diciotto anni, era stata smantellata di nascosto durante il ponte dei morti. Furgoncini che si muovono di notte, come quelli dei ladri, qualche operaio probabilmente polacco in grado di smontare i macchinari, bugie raccontate fino all’ultimo minuto ai lavoratori senza alcun ritegno e rispetto per le loro vite, è stato così che la Best di Montefano durante i tre giorni di festa si è trasformata in un cimitero industriale.
Un cimitero non solo di macchinari, ma anche di diritti, di orgoglio e di umanità.
Quando cala il buio la fabbrica di Montefano ha un qualcosa di spettrale.
Oltre la cancellata, dove gli operai hanno appeso i loro striscioni e due bandiere che non sventolano perché non c’è un filo d’aria che le smuova, il profilo dello stabilimento nel freddo delle luci al neon è un corpo senza vita immerso tra l’asfalto e le erbacce. Qualche luce degli uffici è ancora accesa, probabilmente lasciata così dall’ultimo giorno di lavoro. O forse è stata lasciata acceso da chi si è portato via tutto, prima di chiudere le porte. E, mentre il camino del riscaldamento rilascia nel buio della notte un fumo leggero e bianco che sa di un cuore che ancora pulsa, gli operai ci fanno notare il profilo colorato dei distributori di merendine e di caffè. Sono ancora accessi dietro la vetrata. Poi un’altra luce, poi un’altra ancora, è come se in questa grande balena di metallo pulsasse ancora un briciolo di vita nonostante tutto. O è solo il resto di quella vita che c’era prima, fino al ponte dei morti, che non ha ancora smesso.
E’ un sentimento di rabbia, un sentimento di rabbia misto a paura e a incredulità quello che trasmettono i volti degli operai. Molti hanno gli occhi rossi. Rabbia e notti insonni davanti alla fabbrica, notti insonni anche a casa, confessano ancora di non riuscire a rendersi conto di quello che è successo, come quando si perde un parente o un amico e non riesci neppure a capirlo. Così questi operai non riescono a rendersi conto che la loro fabbrica è sparita, che il lavoro non ce l’hanno più. E in certi momenti parlano della loro storia con la stessa incredulità che si leggeva nel volto di chi ci ha raccontato della telefonata.
– Come non potrà più lavorare chi andrà in fabbrica lunedì? Cosa vuol dire che è chiusa?
E’ chiusa, è chiusa e basta. Non si potrà più lavorare lunedì, ecco la verità.
Fino a tre giorni prima la fabbrica ha ordini, ordini cospiqui. Non si concedono nemmeno le ferie per quanti ordini ci sono. Tutti in reparto a lavorare. Sapete c’è da stringere i denti, bisogna remare insieme per il gruppo, quindi bisogna tirare, tirare, tirare fino quando serve, però adesso che c’è il ponte magari prendetevi un giorno di ferie, sì, un giorno di ferie… Ma come? E gli ordini? Perché ci fate prendere le ferie proprio adesso? Sta succedendo qualcosa?… Ma no, non preoccupatevi, è soltanto una politica del gruppo.In tutto il gruppo si fa il ponte… Ma noi siamo gli unici che producono a pieno regime. E perché stanno cambiando anche le serrature?… Furti. Stiamo cambiando le serrature anche nello stabilimento di Cerreto per via dei furti. Ci sono stati furti negli armadietti, quindi non preoccupatevi, è tutto a posto, tutto e a posto… Sì, ma gli ordini?
Gli ordini quasi sicuramente non erano ordini. O erano ordini fittizi. Molto più probabilmente erano scorte necessarie al gruppo prima che gli stampi di Montefano, portati via sui furgoncini bianchi, riprendano a stampare altrove, probabilmente in Polonia sotto il controllo di altri operai che parlano una lingua diversa, che vestono in modo diverso, che bevono un vino diverso e loro, quelli che sanno tutto di quegli stampi, che sanno dove erano tenuti, quanti erano, a cosa servivono, questi operai infreddoliti gironzolano intorno a una tenda fredda stringendosi al giubbeto e parlando con noi e con tutti quelli che li vanno a trovare.
Il presidio è molto diverso da quello che immaginavo, è diversa l’atmosfera, è diverso tutto.
Ingenuamente dovevo avere in mente uno di quei presidi simbolici che da studenti facevamo davanti alla base americana di Livorno. Io parto in auto, tu vieni in bicicletta, una sigaretta sotto il primo sole di maggio seduti davanti ai cancelli di Camp-Derby, nel bellissimo bosco che gli americani hanno ripopolato anche di daini. E poi l’immancabile chitarra, il politico di turno che arriva bello tronfio, che parla a noi venticinque per mezz’ora e che poi se e se ne va con la sua Mercedes grigia verso Roma dopo aver blaterato tutto e di più contro l’America, proprio lui che in America, a differenza nostra, ci ha fatto la sua fortuna come giornalista, prima di burraci anche noi al mare e a una festa a Tirrenia.
Qui a Montefano è tutto diverso. E’ un presidio triste, tristissimo, è un presidio di operai che si danno il turno anche di notte, come facevano in fabbrica. Uno di loro lo sento che telefona alla moglie. Sono le otto di sera. Lui rimane ancora lì, le dice, almeno per un altro po’. Lei invece, sua moglie, arriverà al presidio alle sei e mezza di mattina. Probabilmente si vedono poco adesso come si vedevano poco prima, quando i turni li facevano in fabbrica. Non sono neppure gli unici due sposati che lavoravano entrambi alla Best. Anzi, che lavorano tutti e due alla Best, perché ogni volta che parlo con loro e uso il verbo al passato mi viene immediatamente da correggermi. Fa brutto usare l’imperfetto, dunque lavorano alla Best, il presente è meglio, fa meno paura. In ogni caso, quando chiedo quante altre coppie ci siano che lavorano contemporaneamente qui, gli operai cominciano a contare. Cinque coppie, mi dicono. Cinque mariti e mogli entrambi dipendenti della stessa ditta. Penso che siano i casi più difficili, quelli che vanno aiutati per primi, come le famiglie con un solo reddito, o i dipendenti con più figli o con un disabile a carico. E mi confermano che ci sono casi difficili, difficilissimi. E’ bello sentire che gli operai sono solidali tra loro anche quando non ne hanno per sè. Lo sanno che per qualcuno è peggio che per gli altri e non ce l’hanno neppure con i polacchi. Non è colpa degli operai polacchi se vogliono lavorare, hanno figli anche loro, non capiscono solo perché per far lavorare i polacchi debbano togliere il lavoro qui. E perché l’Europa consente che i soldi di un governo, come nel caso della Fiat, porti il lavoro da una parte rubandolo dall’altra?, chiedono. Perché l’Italia non fa niente? Perché non ci difende? Perché?
Il ragazzo che ha telefonato a sua moglie ha gli occhi rossissimi. E’ teso, il volto asciugato, non avrà neppure trent’anni. Ci sono molti giovani alla Best, l’età media è bassa e lui ha voglia di parlare, di fare, è rabbioso, non si rassegna. Uno dei più anziani invece, un operaio che è qui da diciotto anni, di parlare non ha proprio voglia. Non ci riesce. Ha gli occhi rossi ma di commozione, di delusione, quasi di sconfitta. Immagino che si senta trattato come un cane. Hanno guadagnato su di lui per diciotto anni prima di prenderlo per il culo fino all’ultimo minuto, prima di fargli trovare la fabbrica vuota. Da quanto intuisco forse qualche operaio è riuscito a vedere com’è ridotto lo stabilimento dentro. Raccontano che hanno trovato gli scaffali vuoti, e mentre lo raccontano viene da piangere a loro come a noi. Qualche macchinario smontato, qualche altro sparito via, i macchinari i più ingombranti sono ancora dentro e non vogliono che rubino anche questi. C’erano diciannove stampi, dice uno. No, ventuno precisa un altro, loro sanno tutto della loro fabbrica. Sanno di stampi e di bilanci, sanno che erano lo stabilimento più produttivo impiegato al novantadue per cento e ce lo ripetono mille volte questo novantadue per cento. Se lavoravamo al novantadue per cento, perché ci hanno chiuso la fabbrica? Perché? E perché proprio adesso che ci stavamo accordando, il sindacato era anche pronto ai sacrifici, avevamo anche detto al gruppo, magari a bassa voce, ma se proprio dovete chiudere allora ditecelo. Magari facciamo in qualche modo, magari usciamo venti alla volta, o magari chiudiamo in due anni, oppure ci proviamo ad andare avanti perché qui produciamo. E invece niente. E non vogliono proprio che anche gli ultimi macchinari vengano portati via. E’ anche per questo che rimangono qui, di giorno e di notte.
All’interno della tenda del presidio c’è un foglietto con i numeri di emergenza. Sono i numeri di un paio di sindacalisti da chiamare se la multinazionale dovesse venire di notte con altri camioncini bianchi. Un sindacalista ci mostra il foglio con i nomi di chi dormirà qui stanotte. Ci tiene a farmelo fotografare, è contento che parliamo di loro e di quello che fanno, ci tiene a farmi vedere che fanno i turni come quando erano in fabbrica. Lui sono due ore che ci spiega tutto. Di come funziona la produzione, del gruppo, della trattativa, queste storie le avrà raccontato mille volte a mille persone diverse ma non sembra neppure stanco. Oramai quello che deve dire l’ha imparato a memoria e a volte ne parla come un qualcosa che non è successo a lui. Questo glielo ha fatto notare anche sua moglie vedendolo in televisione. Sembravi un altro, quasi ridevi, e lui che le confessa che non riesce ancora a rendersi bene conto di ciò che è. E neppure noi. Io ho l’impressione di essere in una trasmissione di Santoro, incollato al televisore a seguire storie lontanissime e tristissime da noi. E invece qui davanti c’è il bar dove mi fermo sempre con mio figlio a prendere il gelato quando torniamo da Ancona. Il benzinaio dove avrò fatto mille volte benzina e il labrador che accarezzo ogni volta che scendo. La tenda non è quella di Santoro, non c’è la televisione. La tenda del presidio sta proprio qui, a due file di colline da casa di molti di noi. E’ una tenda spoglia, fredda. C’è un tavolo con una scacchiera, il tempo di notte non passa mai, poi uno scatolone con qualche piatto di plastica, un boccione di vino, un altro tavolo, sedie bianche di plastica, no, la chitarra non c’è, non c’è proprio. Non vedo neppure una radio.
Un vecchio terzista, un uomo bassino con i baffi dalla faccia buffa è dentro che chiacchiera con una chiave inglese in mano. Non ha l’indole violenta e non tiene certo quella chiave inglese per far male a qualcuno. La fa semplicemente roteare tra le dita come con una matita farebbe un artista. Mi viene da sorridere pensando che probabilmente non riesce a staccarsene neppure quando va a letto. Questo terzista è in pensione ed è venuto a trovare i vecchi colleghi, ma anche i terzisti sono nei guai. Piccole imprese che magari non arrivano neppure a dieci operai, quando quelle ditte non avranno più ordini i loro dipendenti staranno fuori e non avranno neanche diritto alla cassa integrazione. Staranno peggio di tutti, peggio anche degli operai della Best che almeno la mobilità ce l’hanno, a meno che Regione e Provincia non si impegnino in qualche modo anche per loro. Mi raccontano comunque che tutti i terzisti e fornitori hanno ricevuto un’email dal gruppo Best durante il famoso ponte dei morti. Nella email stava scritto di conttare dal lunedì successivo gli uffici all’estero, quelli della Polonia, o al limite l’ufficio acquisti di Cerreto. Gli uffici di Montefano non esistono più, rivolgersi in Polonia. Ma per quanto tempo la Best acquisterà semi-lavorati a Montefano per farli arrivare fin laggiù in Polonia? Probabilmente il tempo necessario di imparare a farli in un posto più vicino ai nuovi stabilimenti, dove gli operai si pagano un terzo che in Italia. Lo sanno benissimo tutti che finirà così. La logistica costa poco ma non troppo poco, e se le logiche sono queste che mi raccontano prima o poi si chiuderà anche con Cerreto, con lo stabilimento di Cerreto e con i suoi trecento e passa operai sul groppone. Per adesso l’azienda sta tendando di dividere gli operai. Abbiamo fatto questo a loro per far andare avanti voi. Sì, figuriamoci.
Al presidio, raccontano, sono passati in tanti. Tanti politici, tanti amici, dicono che Pettinari fosse il più incazzato di tutti. Usano proprio il termine incazzato. Il Presidente della Provincia si è sentito preso per il culo per lui, dicono. Pare che i rappresentanti aziendali gli abbiano addirittura detto in faccia che dei problemi sociali adesso deve occuparsene lui. Perché il disastro sociale non è un problema loro, loro devono fare profitto, non rispettare patti, persone, istituzioni. Non c’è la parola rispetto nei libri contabili e neppure la parola riconoscenza, dunque la sorte delle famiglie è un problema della poltica, degli operai, un problema nostro e basta. E in effetti un comunicato aziendale parla chiaro. L’azienda non si impegna a fare altro se non quello che prevede la legge. Come dire, tenetevi i cocci, arrivederci e grazie. Ma forse è meglio così, penso. Forse una comunità che ha voglia, tra mille sacrifici, con la piccola solidarietà, con il passaparola, riuscirà a far meglio di una multinazionale per cui una piccola fabbrica marchigiana non rappresenta altro che un puntino, forse nemmeno una cifra di un bilancio straosferico fatto di mille altre cifre e di mille altri puntini. E da lassù non vedi niente, al limite vedi solo una cifra, figurati se vedi le famiglie degli operai e chi ti ha fatto guadagnare per vent’anni quella micragna che in fin dei conti non ti smuove niente, forse uno zero virgola del tuo colossale bilancio di company. E quest’aspetto della questione colpisce molto gli operai, sono quasi scioccati oltre che preoccupati. Ma non preoccupati per loro, pensate. Sono preoccupati di quello che sta succedendo in Europa, del mondo che avranno i loro (nostri) figli, dei diritti che non esistono più, delle vite che vengono spazzate via dalla sera alla mattina, del sistema produttivo che viene smantellato semplicemente per il profitto. Perché fanno fare queste cose? Perché l’Europa lo permette? E la politica? Hanno paura per le altre aziende, per i loro colleghi di Cerreto, per gli operai in generale, per il nostro paese. E in effetti, per un istante, ho l’impressione di vedere qui in carne e ossa il prodotto dei giochi finanziari, della speculazione di borsa che affama popolazoni intere, le aziende che si chiudono neppure perché sono in perdita ma soltanto perché non guadagnano abbastanza. Qui, a Montefano, c’è l’esatta concretezza di quello che sta succedendo nel mondo intero, una concretezza di cui forse noi facciamo fatica a renderci conto. Capitali che vanno, capitali che vengono, cifre esorbitanti che si spostano dietro la pressione di un tasto del computer e decisioni che vengono prese a tavolino da persone che probabilmente non hanno mai visto un operaio in vita loro e che non sanno neppure dove siano le Marche e Montefano. Bisogna fare i numeri, sempre i numeri, tutti gli anni i numeri, e quando non ci riesci perché magari un anno non va, allora si taglia tutto. Via gli operai, via le fabbriche, via il lavoro, e quello che si è guagnato prima? Che fine ha fatto? Possibile che i risparmi da consumare siano solo quelli dei pensionati, dei dipendenti e degli operai? Non è una questione idologica, non è una questione di industriali contro lavoratori. E’ un sistema che non va, lo si vede che non va, qualcosa va cambiato e in fretta. E gli operai del presidio lo sanno, lo stanno vivendo sulla loro pelle e non vogliono che quello che è capitato a loro capiti ad altri. Ci tengono a questo, non stanno qui solo per loro. Vogliono che non capiti mai più una nuova Montefano, a Montefano o da qualsiasi altra parte.
Prima di andarmene, siamo tutti infreddoliti, mi permetto di dare a un rappresentate della FIOM un piccolo consiglio. Traferitevi simoblicamente al castello, il castello di Montefano gli dico. Tenete alta l’attenzione. Una cosa del genere l’hanno fatta anche in Sardegna. Quelli del petrolchimico hanno occupato l’Asinara, il carcere. Hanno vissuto lì per mesi, nell’isola-carcere diventata famosa non per aver ospitato i mafiosi ma per aver fatto da prigione a Falcone e Borsellino ai tempi del maxi-processo, rinchiusi lì come delinquenti, nell’unico luogo in cui l’Italia si è sentita di proteggerli (che vergogna). Perché adesso non bisogna abbassare la guardia. Quando si spengono le luci poi si rimane da soli e nessuno più si accorge più di te. Le file degli amici scemano, l’interesse della politica anche e tu rimani da solo con i tuoi problemi, la tua rabbia, la tua disillusione, i problemi e la disillusione di centoventicinque operai (e rispettive famiglie) che si ritrovano contemporaneamente in mezzo alla strada a cercare un lavoro, che la mattina non sanno più che fare o che magari hanno un mutuo da pagare e un figlio in arrivo. Adesso è anche una questione di solidarietà. La politicà sono sicuro che farà tutto quello può ma non potrà fare tutto, non ci riuscirà. Ci vorrà allora anche la solidarietà degli imprenditori del luogo, dei piccoli artigiani, di tutte le amministrazioni pubbliche, perché sperare che i problemi li risolveranno magicamente Spacca o Pettinari e solo un’utopia. Certo, ci vogliono anche le Istituzioni, ma è la comunità intera che deve muoversi e farsi carico di ciò che è altri hanno combinato. E lo debbono anche fare le Banche, quelle di qui, che devono sospendere i mutui se ce ne sarà bisogno e magari erogare qualche piccolo prestito a condizioni vantaggiose, magari da cominciare a restituire tra un po’ quando le cose andranno meglio.
D’altronde viviamo in una società e i problemi capitano a tutti, ed è proprio la solidarietà quello che distingue una società da un’impresa. Lo penso andandomene via, lo penso mentre scherzo con un gruppetto di operai mentre riflettiamo che è un casino ovunque. Allora mi viene in mente che generazioni intere csi sono beccate una guerra mondiale a trent’anni, eppure con la solidarietà, la voglia, l’impegno, alla fine ce l’hanno fatta. E la nostra comunità deve farcela anche qui con l’impegno e la solidarietà di tutti, alla faccia delle multinazionali, del gruppo Best, dei loro dirigenti e dei loro libri contabili.
In fin dei conti, riflettendoci bene, nel buio il camino di Montefano è ancora lì che fuma.
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NON PERDETE ALTRO TEMPO…. RIMBOCCATEVI LE MANICHE E ANDATE A CERCARE ALTRO LAVORO!!!!!!!!! CHE NON ESISTE SOLO QUELLA DI FABBRICA!!!!
Vero: esiste anche il fancazzismo alla Renzo Rossi.
Peccato che non è remunerativo: oramai sparare cavolate è inflazionato anche quello come lavoro!!
Ma per piacere!!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
Massima solidarietà ai colleghi operai della Best!
qui non deve esistere fancazzismo …… c’è solo bisogno di coraggio per vivere… non criticare opinioni reali!!!!!!! e darsi da fare!!!!!! perchè il mondo è grande!!!!!
Non ci sono parole.
direi che – nel nostro piccolo – il minimo che possiamo fare è di boicottare tutti i prodotti della multinazionale (http://www.nortek-inc.com/)
per seconda cosa scriverò le mie “impressioni” sulla “impeccabile condotta” al seguente indirizzo (che è pubblico e quindi lo posso pubblicare)
[email protected]
non servirà a molto ma è un gesto alla portata di tutti.
Solidarietà ai lavoratori della Best.
Un’azienda ha tutto il diritto di chiudere uno stabilimento. Il problema è che per i lavoratori è molto difficile, oggi quasi impossibile, reinserirsi nel mercato del lavoro. Se ci fossero più investimenti nella formazione dei lavoratori, non staremmo a strapparci i capelli ogni volta che capitano queste spiacevoli situazioni.
Sicuramente la proprietà può decidere di smantellare la fabbrica e trasferire la produzione dove gli operai ancora vivono con paghe da fame (e dove spesso i diritti sindacali NON esistono e si lavora, “come cinesi”, anche per 10-12-14 ore e lavorano in manovia anche i bambini di 8 o 10 anni)
Tutto il sacrosanto diritto in questo bastardo mondo sempre più globalizzato (e sempre con meno regole e dove conta solo il denaro e non più la dignità umana).
Però se il trasferimento è avvenuto nel modo in cui è destritto mi sembra che questo trasferimento potrebbe essere considerato un comportamento quantomeno infame e vigliacco
Esprmo la mia solidarietà ai lavoratori
Mentre leggevo l’articolo pensavo, data la sua tensione stilistica ed espressiva, a qualcosa di triste e malinconico. Rileggendolo sono sicuro di trovarmi davanti o ad un giallo di fantascienza o, meglio ancora, ad un film dell’orrore. La storia raccontata nella sua crudezza e realtà è semplicemente bestiale. E a chi dice, anche giustamente ma accademicamente , che una fabbrica, comunque, può chiudere, dico che sono in accordo, ma ad un solo patto che è questo: quando la fabbrica andava bene e pagava le tasse avrei preferito che la Guardia di Finanza, nottetempo ( per restare nel “climax” di Ricci) avesse fatto una incursione, non solo questa, ma anche l’Agenzia delle Entrate. Avrei preferito, poi, che non vi fosse stata la sanatoria, tutta italiana, che ha previsto come “non reato” il falso in bilancio ( credo che sia reato anche in Africa) ed inoltre la possibilità di “lavare” ( questo è il termine esatto) il danaro all’estero. Manovra chiamata arditamente Scudo fiscale, tutta italina, con il 5% di rientro per lo Stato, quando in Francia è il 35%. Nessun altro commento.
Solidarietà ai lavoratori della Best, purtroppo non c’è una vera soluzione a questa fuga di lavoro fino a quando lo stato non deciderà si abbassare il costo del lavoro, per le aziende oggi assumere è un onere facilmente aggirabile portando, come nel caso della Best,baracca e burattini in paesi dove il lavoratore non ha alcuna tutela o rivolgendosi alle tante agenzie di lavoro interinale che creano solo un’occupazione precaria e frustante.E’ una lotta impari o forse è meglio chiamarla una guerra persa,Le aziende spesso e volentieri non capiscono che chi lavora per loro da dieci,quindici anni tiene alle sorti della ditta allo stesso modo dei datori di lavoro,magari ascoltandoli più spesso potrebbero avere suggerimenti e migliorie che sono pari ad un investimento.
@ Simone Menghini
Ha ragione, un’azienda purtroppo ha tutto il diritto di chiudere un suo stabilimento. Solo che sovente accade che i proprietari delle aziende riescano a dichiarare allo Stato redditi inferiori a quelli dei propri operai. E allora, se fosse così, mentre i camioncini bianchi-rossi-verdi-blu trasportano altrove i macchinari, io Guardia di Finanza glieli esproprierei: perché se vogliono fare i poveri, possano farlo realmente. In piena solidarietà con la gente che mettono in mezzo a una strada.
A quel punto sì che comincerei a credere che c’è la crisi e che le poverissime aziende italiane sono costrette a licenziare, a emigrare (poverine… e nessuno capisce quanto sono solidali con tunisini-polacchi-cinesi-indiani! Certo che la gente è cattiva…), a chiudere.
Come è noto, infatti, gli industriali sono poverissimi da sempre, anche da ben prima che scoppiasse la loro recente fortuna: la crisi!). Quindi ha ragione, signor Simone: non si può impedire a uno stabilimento di chiudere. Io però, istintivamente, continuo a stare dalla parte degli operai.
Ciò che è più sconcertante e che indigna profondamente è la modalità seguita dall’azienda…si approfitta del ponte di ognisanti..si svuota lo stabilimento di notte..al buio..come degli sciacalli, perchè i macchinari certo valgono più degli operai, si possono sempre rivendere..in altri casi recenti (ricordo la DF di Portorecanati) nemmeno quello, si chiudono i cancelli e si scompare, senza manco comunicarlo alle maestranze, senza iniziare le procedure di mobilità!
Tutto ciò denota solo il disinteresse più profondo per le persone che hanno lavorato in queste fabbriche..la disumanità della condotta adottata dalla dirigenza aziendale.
Che dire…mi auguro almeno che sia sia chiesto il sequestro cautelativo dei beni dei proprietari o di chi ne fa le veci.
Solidarietà ai compagni in lotta..con la speranza che queste carogne di imprenditori, un giorno, paghino caro e paghino tutto!!!
Tutta la mia solidarietà agli operai licenziati e sbattuti fuori dalla fabbrica con modalità veramente incivili. E complimenti a Marco Ricci per il bellissimo articolo.
Ma i Polacchi non potevano rimanere in Italia e lavorare con la Best? i Polacchi sono abituati a vivere in Italia da tanti anni avrebbero accettato,forse il motivo della Best è molto più grande ,di quello del rsparmio?.
@Filippo Davoli
Sono pienamente d’accordo con lei. Ovviamente non volevo dire di essere dalla parte dell’azienda, anche io mi sento vicino alla parte debole, gli operai.
Ho cercato di allargare il discorso al problema, tutto italiano, della totale assenza di investimenti sulla formazione continua dei lavoratori, che permetterebbe loro di reinserirsi con più facilità nel ciclo produttivo una volta perduta la precedente occupazione.
HA RAGIONE IL SIG. ROSSI…AL GIORNO D’OGGI è TALMENTE FACILE TROVARE LAVORO CHE NON HO CAPITO CHE PERDONO TEMPO A FARE QUESTI OPERAI!!!!!!!! SI VEDE CHE LUI HA IL POSTO ASSICURATO/STATALE
Agli operai della Best di Montefano va tutta la nostra vicinanza e solidarietà . Il comportamento della azienda è stato vergognoso e non c’è nessun rispetto delle regole del business che giustifica un comportamento cosi insensibile e vigliacco.
Agli operai della Best di Montefano va tutta la mia vicinanza e solidarietà. Il comportamento dell’ azienda è vergognoso e senza nessun rispetto delle regole del business,e di umanità un comportamento da vigliacchi.
Bellissimo articolo, complimenti!!!
Vivo a Montefano da ormai diversi anni e come logico conosco molte persone delle 125, tante sono, che da lunedì 2 novembre si trovano senza lavoro (ricordo che all’interno della Best lavoravano interi nuclei famigliari, la cui economia quindi, per intero, dipendeva dagli stipendi percepiti alla Best).Oggi gli umori della piazza, fatta da tanta gente umile, con tanta voglia di lavorare e poca di apparire o di parlare (tipica del marchigiano in generale, e ancora più accentuata da queste parti, terra di confino fra la marca anconetana e quella maceratese, nell’esatta mediana regionale, lontani il giusto dalle luci dei capoluoghi) è di sconcerto e desolazione, perchè se il lavoro è fonte di vita, quella economica, il lavoro è anche e soprattutto dignità dell’essere umano e fonte d’orgoglio per gente che ha sempre vantato di ospitare, nel proprio territorio, un’azienda tanto importante, capace di dare lavoro a tante persone e non solo locali. La gente di queste terre, a vocazione agricola da sempre, si perchè Montefano è anche e soprattutto città del vino, non è sfuggito il particolare (vile) con cui la proprietà ha deciso di chiudere bottega e così la domenica, dopo la messa delle dieci, in piazza Bracaccini, là dove va in onda il momento principale della socialità cittadina, qualche vecchio saggio ha sentenziato in mia presenza: – ” HANNO FATTO TUTTO DI NOTTE…COME I Ladr.. E LE PU…” –