di Fabrizio Cambriani
Su trentotto comuni chiamati il 26 maggio prossimo al rinnovo dei propri organismi, ben cinque si trovano nella singolare situazione della presenza di una sola lista proposta ai propri elettori. Stiamo parlando dei comuni di Urbisaglia – che per la seconda volta consecutiva non presenta alternative alla guida del centrosinistra – Fiuminata, Pioraco, Colmurano e Gualdo. Statisticamente si tratta di un 13% del totale dei comuni al voto. Che sarebbe potuto lievitare fino al 21% se in tre di questi (Camporotondo, Cessapalombo e Poggio San Vicino), all’ultimo momento non si fosse presentata una lista sconosciuta, riempita di forestieri che nulla sanno del territorio. Credo verosimilmente per accedere ai benefici di legge, in materia di aspettativa dal lavoro o ragioni similari. Escludo quindi la minaccia alla democrazia e perfino alla legalità e non mi associo agli allarmi suscitati da questa prosaica circostanza.
Tuttavia, rilevo come l’assenza di liste concorrenti e alternative sia un gran brutto segnale che suona – esso sì – come pericoloso campanello d’allarme per i fondamentali della democrazia partecipativa. Che nei centri di maggior dimensioni, al contrario, registra una abnorme proliferazione e diversificazione di proposte politiche. Soprattutto in liste civiche. Basta dare un’occhiata a Recanati, il centro più importante della provincia, sui trentotto chiamati alle urne. Cinque candidati sindaci, con venti liste di supporto per un totale di trecentosedici candidati. Un breve viaggio – sulla statale 361 – da un eccesso all’altro: partendo dalla carestia della montagna, per attraversare la normalità della pianura (Treia, Montecassiano), fino ad arrivare all’abbondanza ridondante della zona costiera.
Una malattia che trova il suo brodo di coltura all’interno del cratere sismico e che ha, a mio avviso, come unica cura l’unione dei comuni. Specialmente di quelli di piccole o addirittura ridottissime dimensioni. Un istituto previsto, assieme a tanti altri passaggi graduali, sin dal 1990 dalla legge 142 che porta la firma di uno dei più lungimiranti politici del maceratese: Adriano Ciaffi. Su 81 comuni delle Marche compresi nel cratere, ben 46 sono quelli inferiori ai 1500 abitanti. Una percentuale del 57%. Nella sola provincia di Macerata sono 46 i comuni inseriti dal decreto all’interno del cratere e 29 quelli con meno di 1500 abitanti. Un abbondante 63%. Con i picchi (non solo di altitudine) di Monte Cavallo e Bolognola che non raggiungono una popolazione di nemmeno centocinquanta anime. Poi ci sono state due fusioni: Acquacanina si è accorpata a Fiastra mentre Pievebovigliana e Fiordimonte si sono unite sotto il nome di Valfornace.
Eppure, dal 24 agosto del 2016, a causa dei tanti e sempre più intensi terremoti, c’è stata una incessante produzione normativa a favore dei territori colpiti. Comuni che, come hanno più volte spiegato autorevolissimi politici di ogni ordine, grado e finanche colore, sono perlopiù di piccole dimensioni e disseminati sulle sperdute montagne dell’Appennino. Ebbene, nel mare magnum di leggi, norme, direttive e ordinanze, redatte a causa del sisma, non c’è un paragrafo, un comma o un inciso che abbia previsto degli incentivi alla fusione di questi piccoli centri. Viceversa, si concepiscono progetti, si allestiscono incontri e si stanziano milioni e milioni di euro per lo sviluppo socioeconomico, senza preoccuparsi di incidere minimamente sulla struttura portante di tutto il meccanismo.
Nessun dei tre governi, che si sono sin qui succeduti, ha pensato di destinare risorse aggiuntive (oltre a quelle già previste dalle attuali normative) ai centri terremotati che si fossero impegnati a unirsi tra di loro. Né tantomeno lo ha fatto il governo regionale che avrebbe dovuto dirigere dalla cabina di regia tutto il percorso. Un atto di programmazione, concertato con gli amministratori locali, che a fronte di una drastica, ma salutare riduzione di municipi, avrebbe previsto un considerevole aumento di risorse e benefit che garantissero, almeno per tutto il periodo della ricostruzione, una boccata di ossigeno, in deroga ai tanti lacci previsti dai meccanismi dalla spending review. Non solo danari, ma più personale qualificato che si occupasse delle gare milionarie da bandire per la ricostruzione.
Omissioni e reticenze che favoriscono solo gli ormai inutili e gelosi custodi di campanili in fascia tricolore. I quali, pur di non mollare il ruolo di sindaco che gli attribuisce un po’ di lustro, ma anche un piccolo potere personale, sono disposti a ingoiare qualsiasi degenerazione. Con ciò danneggiando gravemente territorio e popolazione. Che rispettivamente si impoverisce e, anno dopo anno, diminuisce.
Compito basilare della politica, a tutti i livelli, è quello di comprendere come nell’immediato futuro non possa esistere un’amministrazione comunale che non abbia almeno 8mila – 10mila abitanti. E che senza questa condizione necessaria, qualsiasi progetto di ricostruzione – non solo materiale – è destinato a fallire inesorabilmente. Per cui, sia il governo nazionale che quello regionale, mettano immediatamente in agenda questo argomento e pongano i sindaci e tutti gli amministratori locali in condizioni di collaborare ai processi di unioni comunali. L’inestimabile patrimonio di storia, arte, cultura e ambiente, non solo non ci rimetterà, ma sarà sicuramente meglio valorizzato.
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